Ddl Lorenzin, ne parla il professor Corazza

Share

La diatriba sui costi sociali dell’esercizio dei diritti alla salute, al lavoro, alla famiglia, ad una esistenza libera e dignitosa, ci sembra puramente strumentale e dissimula il vero dramma, cioè, è impossibile garantire tutto a tutti. Il diritto alla salute (articolo 32 della Costituzione) è sacro, ma non può essere gratis per tutti e i medici hanno il dovere di non sbagliare, ma non il diritto di fare come credono. Viene in mente il film di Alberto Sordi, “Il medico della mutua”, esilarante la scena di quando il dottor Terzilli saluta le tette di una moglie insoddisfatta dal marito malato con un “arrivederli”.

Per i più un bravo medico è quello che prescrive molte analisi e somministra chili di medicine. Giuridicamente il presidio rappresentato dall’articolo 32 e dall’articolo 35, nonché dall’articolo 38 della Costituzione potrebbe rappresentare un grosso ostacolo al decreto Lorenzin, potrebbe perfino essere impugnato al Tar del Lazio, ovvero rimetterlo alla Corte Costituzionale. Ma perché invece non cercare una qualche intesa? A chi non conviene questa eventualità? Sarà per caso Big Pharma?

Ci rivolgiamo ad una voce autorevole, il professor Gino Corazza (nella foto), presidente della Società Italiana di Medicina Interna (Simi): “Sono in linea di principio e in linea generale d’accordo con questo decreto – dice il professore – poi le attuazioni pratiche in Italia lasciano un po a desiderare. Sostanzialmente adesso sappiamo che in Italia sono sempre state fatte troppe indagini cliniche, questo non ha soltanto un riverbero economico ma anche per i tempi di attesa, che si prolungano su chi veramente ha bisogno di questi esami; in Italia per quello che riguarda alcuni esami per immagini ad alto impatto tecnologico come tac e risonanza magnetica è parso che impiego massimale e impiego ottimale delle risorse fossero sinonimi, mentre invece non è vero niente, fare tanto non vuol dire fare meglio”.

Sono state individuate 208 procedure a rischio di inappropriatezza, eccedenza di ricoveri, abbondanza di prestazioni ed esami radiologici. Nei primi posti della lista nera Tac, risonanze, test allergologici che sappiamo bene non servono a nulla, eppure molto richiesti, e cure odontoiatriche. In molti casi queste prestazioni non saranno più mutuabili.

“Il problema deve avere altri correttivi – continua il professor Corazza – ma noi come internisti siamo assolutamente convinti che la diagnosi non la si fa con gli esami ma col ragionamento clinico, gli esami servono a confermare o a confutare il ragionamento clinico che però ci deve sempre stare alla base della loro richiesta”.

I medici, soprattutto i più giovani, non usano più le mani, le orecchie, gli occhi per visitare un paziente, pertanto si rivolgono sempre più spesso alle macchine.

“Non vorrei essere troppo polemico contro una serie di figure professionali e una serie di sigle sindacali che si sono erte contro questo decreto – ci viene incontro il professore – ne faccio più che altro una questione di metodo, non sono convinto che siano in particolare i giovani, sono convinto che siano quelli che non amano più il loro lavoro, quelli che non amano più fare il medico, quelli che non visitano il paziente, quelli che non stanno attenti alla sua storia”.

Quali correttivi si potrebbero applicare al decreto Lorenzin, dunque?

“Potrei dire che un esame potenzialmente inappropriato diventa subito appropriatissimo se il contesto e’ quello giusto – spiega il professore – ciò ribadisce quello che dicevo prima riguardo ai segni clinici, che vengono etichettati come quelli della vecchia medicina, ma che sono quelli della medicina reale, perché la medicina e’ fatta di ascolto del paziente, di visitare il paziente sempre tutto quanto. Se c’e’ un mal di fegato non è che io metto la mano sopra al fegato e basta, io debbo visitare tutto, perché se c’è un soffio cardiaco si può avere male al fegato a causa del soffio, perché ci sarà uno scompenso cardiaco, quindi il paziente va visitato sempre tutto e non nel solo distretto del sintomo, allora si che gli esami che si richiedono poi sono appropriati, a prescindere dalla lista dei 208”.

Quindi è il medico di base che deve comprendere il sintomo e non inviare il paziente da un medico specialista che poi prescriverà almeno quattro esami innescando quel meccanismo poco virtuoso?

“Proprio così – conferma il professore – è una catena di S. Antonio che sostanzialmente moltiplica i costi e moltiplica le prestazioni, ma non voglio attribuire troppa responsabilità ai medici di medicina generale, cioè ai medici di famiglia. Il sistema sanitario dev’essere costituito da persone che ragionano con la loro testa, poi ci sono persone che possono offrire prestazioni ultra specialistiche e se del caso vanno coinvolte nella gestione del paziente, ma se del caso. Noi internisti siamo gli specialisti del paziente non della malattia o dell’organo o dell’apparato, quelli sono gli specialisti che a volte sono molto utili, però nella maggior parte dei casi c’è bisogno di un medico che abbia una visione onnicomprensiva, è un cambio di mentalità che è necessario e bisogna valorizzare quelle discipline cosiddette sistemiche anche perché con l’invecchiamento della popolazione che c’è, sono rari i pazienti che hanno una sola malattia a carico di un solo distretto, questo crea il presupposto di una vanificazione della medicina specialistica a favore di una medicina che non tende a spezzettare più l’ammalato ma a considerarlo nella sua unità. Questo decreto ministeriale ha il grosso merito di richiamare tutti al problema, ma forse le soluzioni vanno intraviste in maniera diversa e in questa soluzione dev’essere coinvolta una diversa formazione del medico che negli ultimi anni e’ stato improntato di più allo specialismo, anziché alla visione globale”.

Ma che fine hanno fatto quei baroni dell’Università che non hanno interesse ad insegnare il mestiere allo studente e tendono a tenersi vicino amici, amanti e parenti, mettendo in sicurezza persone che non hanno le competenze ma il grado di parentela!

“E’ stato facile criticare su questo – si oppone il professore – e fare scandalismo e lo si è fatto, così accusiamo le scuole di medicina. Io invece ritengo che il sistema delle scuole di medicina sia molto virtuoso, l’unica cosa da tenere in conto e’ di non avere all’interno del gruppo che stai formando, o all’interno della propria scuola, un figlio, una moglie, un’amante, perché questo distorce l’ottica che si può avere. Altrimenti l’ottica quale dovrebbe essere se non quella della reciproca convenienza, che secondo me e’ un alto valore etico in realtà. Che interesse ho io a non spingere il migliore dei miei studenti che da lustro alla mia scuola, che produce risultati nuovi, che rende alto il nome della nostra istituzione e la valorizza, potrò sbagliare nel giudicarlo, ma senz’altro ho avuto molto tempo per poterlo fare, perché parliamo di spazi ventennali. Poi tante cose sono cambiate, non c’è più l’arbitrio e lo spazio decisionale che c’era una volta e questo e’ senz’altro giusto, ma la reciproca convenienza dice che vanno selezionati i migliori”.

Il decreto Lorenzin mira a risparmiare 180 milioni di euro. Le analisi cliniche vengono sempre ben interpretate? L’interpretazione delle indagini esige competenza e la competenza è la base di un buon medico. Ci sono stati radiologi che non sono riusciti a vedere un tumore iniziale nel polmone o endoscopisti che non hanno riconosciuto un iniziale cancro dello stomaco perché magari gli sembrava una piccola ulcera. Le indagini debbono essere guidate da un’idea portante, se si ritiene che un paziente abbia una determinata patologia si fanno fare delle analisi che la confermeranno o confuteranno. Ma i medici avvertono la pressione dei pazienti e il pericolo di essere denunciati. Spesso le persone vanno dal medico dopo aver letto su Internet di un determinato esame e pretendono di averlo prescritto.

“La medicina difensiva di cui si parla tanto in questi giorni, è un vero cancro – afferma il professor Corazza – fa spendere un sacco di soldi, molte volte questi esami inutili e inappropriati vengono fatti per infortuni diagnostici, qui se il governo manterrà fede a ciò che ha detto non andrà nella direzione sbagliata, in tutta la nostra legislazione c’è la presunzione di innocenza per tutti meno che per i medici. Sono i medici che debbono dimostrare la loro innocenza, portare le prove del corretto operato, e non il presunto paziente o l’avvocato. L’onere della prova spetta a chi inizia la vertenza quindi al paziente o meglio all’avvocato. Sono fioriti studi legali che fanno solo questo e ciò incrina il rapporto medico paziente, non una legge come questa che è ancora allo stadio iniziale e deve prendere la giusta direzione”.

Negli Stati Uniti sono frequentemente i pakistani e gli indiani ad entrare in sala operatoria o in sala parto, cumulano richieste di danni, poi lasciano il paese e non vi fanno più ritorno; i medici americani hanno terrore di venire denunciati. Le assicurazioni non vogliono più assistere i medici e le cause contro gli ospedali sono diventate un business, sia quelle motivate che quelle pretestuose. Quindi un disastro per i conti pubblici, un rischio eccessivo per le assicurazioni, un’angoscia per i medici e un affare per gli studi legali che vedono quadruplicare le azioni civili e penali nei confronti dei medici accusati di aver sbagliato.

“Le assicurazioni costano come interi mesi di stipendio – sostiene il professor Corazza – ma c’è qualcosa che non quadra. Se già si elimina il fatto che non devo essere io a dimostrare che ho fatto bene, ma il paziente che io ho fatto male, già questo scoraggerà molto chi pensa di trarre vantaggio dalle richieste di risarcimento, sto parlando della media e dei grossi numeri, poi se ci sono colpe legate ad incuria o ad ignoranza troppo grassa e’ un’altra cosa. Siccome la medicina e’ troppo vasta io sono più propenso a scusare le piccole ignoranze piuttosto che l’incuria o il disinteresse per l’ammalato. Invece quello che bisogna capire bene e chi è che giudicherà inappropriato questo o quest’altro, quali saranno le sanzioni legate a questa inappropriatezza e se i controlli verranno fatti a tappeto o verranno fatti a campione”.

Anche la Simi ha votato cinque indagini da non fare: 1) non lasciare i pazienti a letto, favorire la mobilizzazione precoce; 2) non chiedere il d-dimero senza indicazioni precise; 3) non prescrivere terapia antibiotica a lungo termine in assenza di sintomatologia; 4) non somministrare in modo perpetuo gli inibitori di pompa protonica; 5) non posizionare o mantenere in sede cateteri venosi centrali ad inserimento periferico per comodità del personale. I primi quattro punti cui sono stati invitati gli internisti a seguire queste pratiche sono stati proposti dagli stessi soci Simi e non sono presenti nella lista statunitense o canadese.

“Il choosing wisley di derivazione americana sta cambiando, va di pari passo col movimento inglese “less is more”che vuol dire fare di meno a volte e’ meglio. Noi, facendo raffiche di esami, sottoponiamo il paziente a radiazioni inutili, a quattrini spesi inutilmente, ma il problema e’ sempre quello della medicina difensiva perché in un determinato contesto, quello che abbiamo decretato “da non fare” potrebbe rivelarsi utile. Ma, mentre in America queste procedure o esami da non fare sono state calate dall’alto, nel caso della nostra Societa’ ho avuto l’idea di far girare un’inchiesta fra noi medici e le abbiamo votate a maggioranza, questo avrà un risvolto molto importante sul piano pratico, perché le cose che vengono imposte dall’alto spesso non sono rispettate, al contrario se si tratta di una cosa che è stata condivisa a priori”.

Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, e gli ultimi tre Presidenti della Regione Sicilia sono medici, intorno a loro tante lamentele, polemiche e fatti gravi. Qualcuno anche in odor di mafia. Non si può non riflettere anche su questi professionisti che decidono di intraprendere la carriera politica.

“Chissà se alla base di questo non possa esserci un fatto positivo – spiega il presidente della Simi – cioè che il medico che è da sempre una figura importante nella società civile, in Italia ha sempre subito una serie di vessazioni a partire da quelle economiche, un medico alle prime armi guadagna come un infermiere che ha avuto qualche scatto di anzianità senza nulla togliere alla professionalità dell’infermiere, guardiamo i processi di malpractice dove il medico si deve discolpare anche da cose inesistenti, e quindi in questa ottica la discesa in politica in cui il medico a volte raggiunge delle posizioni di vertice e non necessariamente quei medici che raggiungono delle posizioni di vertice sono i medici migliori, la vedo bene se il medico vuole far sentire la sua voce non mediata dal politico di turno, anche su problemi che lo riguardano. Io non lo farei mai, non lo vedo a priori come un fatto negativo, poi questi citati sono dei casi limite”.

Perché non andare allora prima dal medico internista, li ci si può curare bene e con poco.

“Infatti – aggiunge il professore – noi della medicina interna ci siamo sempre proposti come partner delle istituzioni e del cittadino perché costiamo meno. Questo tipo di medicina costa meno ed è più efficiente. C’è differenza fra efficacia ed efficienza, efficacia è quando si raggiunge il risultato, efficiente e’ chi raggiunge il risultato con pochi costi e attraverso la via più breve. Noi riteniamo di fare una medicina efficiente. Questa non è una scomunica allo specialismo, non me la potrei permettere, perché quando lo specialista ci vuole ci vuole, però molte volte non ci vuole”.

@vanessaseffer

Share

Fibrillazione atriale e prevenzione dell’ictus

Share

 

Ci sono novità in ambito di fibrillazione atriale, una forma molto diffusa di aritmia cardiaca che si complica frequentemente con l’ictus. Questa seria complicanza cerebrale può essere prevenuta attraverso l’uso degli anticoagulanti orali. Dai dati emersi al V Congresso “Abruzzo Meeting on Haemostasis and Thrombosis” lo scorso week end all’Università di Chieti, ci sono differenze a livello nazionale circa l’uso di tali farmaci. La situazione sanitaria italiana è già segnata da enormi criticità che vanno immediatamente risolte per assicurare a tutti i cittadini il diritto alla Salute che deve essere garantito costituzionalmente come uno dei diritti fondamentali e che spesso, soprattutto se si vive al Sud, viene disatteso. Le disparità riguardo la prescrizione di farmaci e rispetto ai pazienti con fibrillazione atriale non valvolare è uno dei tasti dolenti di questa situazione sanitaria ancora disomogenea fra Nord e Sud. Lo studio Arapacis condotto dalla Simi (Società Italiana di Medicina interna) ci propone un altro ritratto del nostro Paese in termini di spesa e di efficacia in ambito sanitario e assistenziale. Una situazione che coinvolge tutte le famiglie che hanno un anziano in casa, che rischia di aggravarsi con l’invecchiamento della popolazione. Nel Sud Italia, secondo i primi dati dello studio da poco pubblicati, è risultato che si fa un minore uso di anticoagulanti e un maggiore uso di aspirina; questo mette a rischio di ictus i pazienti con fibrillazione atriale perché, mentre gli anticoagulanti proteggono anche se non in maniera totale dall’ictus, l’aspirina ha una scarsa se non addirittura nessuna protezione per l’Ictus cerebrale nei pazienti con fibrillazione atriale, quindi c’è un problema di carattere sociale dietro questa differente assunzione dei farmaci perché nel Sud del Paese questa tipologia di paziente è più esposta al rischio di ictus rispetto ai pazienti che vivono al Nord.

Lo studio Arapacis iniziato quattro anni fa e conclusosi a luglio di quest’anno, che ha visto coinvolti 1366 pazienti di età media di 74 anni, uomini e donne tutti con fibrillazione atriale, su tutto il territorio nazionale, trattati nei centri di Medicina Interna del Paese da esperti studiosi della materia, ha rilevato che nei pazienti ad alto rischio c’è una disparità, indipendentemente dal numero di farmaci consumati, poiché la prevalenza di poli-terapia tra le tre macroregioni era simile. I risultati mostrano differenze regionali nella gestione dei pazienti con fibrillazione atriale, essenzialmente nell’assunzione di farmaci antitrombotici.

Sono stati più prescritti gli anticoagulanti a pazienti ad alto rischio del Nord e del Centro (61 e 60%, rispettivamente) rispetto al 53% dei pazienti del Sud. E’ stata condotta un’analisi post-hoc (a posteriori) che si effettua una volta conclusa la raccolta dei dati, con lo scopo di valutare le differenze nella gestione farmacologica e i farmaci necessari ai pazienti italiani con fibrillazione atriale.

Ci sono due Italie: tutto il Sud, dalla Campania in giù, ha una minore attenzione ad ottimizzare la terapia anticoagulante nei pazienti con fibrillazione atriale perché è un tipo di terapia che ha bisogno di un maggiore controllo e anche di centri dedicati. Poi c’è un Nord con livelli assistenziali più vicini all’Europa che beneficiano di una rete assistenziale integrata.

È solo quindi un fatto educazionale e di organizzazione sanitaria sul territorio, dalla Campania in giù i pochi centri anticoagulanti sono meno organizzati e ciò comporta che anche la popolazione è meno informata ed educata in quella direzione, per cui medici e pazienti non vivono una situazione ottimale in tal senso. Che tale disparità rifletta ben note condizioni socioeconomiche differenti tra le regioni italiane di Nord, Centro e Sud, è un sospetto più che fondato.

Promuovere campagne per l’educazione all’assistenza sanitaria, al miglioramento delle performance delle strutture ospedaliere, può rendersi necessario per migliorare i risultati clinici nei pazienti con fibrillazione atriale.

@venessaseffer

Share

Messina propone le dimissioni di Crocetta

Share

 

La Sicilia è una regione bellissima, un’Isola baciata da Dio con più di cinque milioni di abitanti, ma è fallita sia economicamente che politicamente. Come mai non se ne parli continuamente e dovunque non si capisce, dato che il buco finanziario di un miliardo e mezzo di Euro è pari a quello della Grecia. Le origini del fallimento dell’Isola sono da imputare alla politica fallimentare, non solo attuale, basata sulle clientele, che va a braccetto spesso e volentieri con la cultura mafiosa.

Anche l’antimafia non si capisce più se sia peggio o meglio della mafia stessa e se vada combattuta persino più aspramente, perché essa stessa mascherata di perbenismo. Un territorio, la Sicilia, che non produce Cultura e che quindi non può produrre politica in modo sano. Qua e là poche iniziative di pregio, perché qualcuno ancora non intende arrendersi e insiste con il proposito di voler salvare almeno la faccia di quella Sicilia che lavora faticosamente e fa a gomitate per non assomigliare ad altri malamente. Un Presidente della Regione, Rosario Crocetta, che fa da tempo teatrino quotidiano, per divertire ormai solo il suo clan e consentire la sopravvivenza di pochi, lui in primis. Perché è un modo di operare ricorrente per i politici che approdano nella Sala d’Ercole quello di tradire i siciliani e mai i mafiosi e le cricche che stanno intorno. Crocetta ha cambiato 38 assessori in vari rimpasti e controrimpasti in solo due anni.

Possibile che 38 assessori non siano sufficienti per capire se le cose vanno bene o vanno male? A nessuno sembra però che vadano bene! Anzi solo lui, Crocetta, va bene, ma gli assessori no, peccato che li scelga sempre lui. Allora come è possibile che lui funziona e gli altri invece no? Non sarà che la persona da cambiare è proprio lui? Da alcune settimane l’iniziativa siciliana di Ignazio Messina e Fabrizio Ferrandelli che coinvolge la società civile a cui preme un cambiamento coraggioso, sta dilagando a Palermo e sull’Isola chiedendo a gran voce a Crocetta di togliere i siciliani dall’imbarazzo della sua presenza, in mezzo a tante voci, la loro è quella più tuonante. Troppi gli episodi gestiti inopportunamente, dalla vicenda di Lucia Borsellino ai crolli delle autostrade, per finire alla sua cattiva amministrazione che ha causato appunto quei rimpasti che non hanno portato benefici o il sentore di qualcosa di diverso.

Solo una ennesima presa in giro e l’allungarsi della sofferenza. “Non ci sono iniziative di governo adeguate – spiega Ignazio Messina che il 4 luglio di quest’anno ha lanciato la petizione “Crocetta dimettiti”- noi ci troviamo in una situazione così screditata che quello che dovrebbe fare Crocetta è di presentare le sue dimissioni, sostanzialmente per dare la possibilità ai siciliani di andare a votare”. Ma si è parlato invece di un altro rimpasto dove potrebbe entrare NCD con il PD e Raciti sembra storcere il naso. “E’ solo un modo per allungare il brodo e arrivare a fine legislatura – continua Messina – perché i deputati non hanno il coraggio e la dignità di presentare le dimissioni, questa è la verità, poi c’è lo spauracchio più frequente: se si dovesse dimettere adesso vincono i 5stelle.

Quello che dico io è vinca chiunque, tanto peggio di così non può andare, alla fine tenere in vita questo governo è accanimento terapeutico rispetto alla Sicilia che ormai è agonizzante, credo che sia veramente inadeguato per il ruolo che riveste”. Ma lo Statuto siciliano dice che il Presidente non si può dimettere ma che bisogna deporlo, però i suoi predecessori Cuffaro e Lombardo si sono dimessi, non si capisce per quale motivo lui non debba farlo, poi decide di dimettersi ad intermittenza, un giorno lo fa poi l’indomani se ne pente e dice che non lo farà mai. Ha detto di pensare persino al suicidio, ma lui adora usare parole forti e i colpi di scena, ormai è un uomo di spettacolo. Ma dove sono i partiti? Un partito democratico che si assuma la responsabilità di dire io sto dalla parte di Crocetta e condivido quello che fa, oppure, non lo condivido e faccio dimettere i miei.

“Attenzione – dice Messina – questo vale anche per il movimento 5stelle, perché qui l’unico parlamentare presente all’iniziativa e che ha avuto la dignità di dimettersi da questa schifezza è Fabrizio Ferrandelli. Perché anche i deputati dei 5stelle che stanno lì a protestare legittimamente tengono il moccolo, perché di fatto se un deputato del PD decide di dimettersi perché fa tutto schifo in questa situazione regionale, nessun deputato 5stelle si smuove dalla poltrona, si dimettessero tutti quelli che sono, ne farebbero un caso nazionale anziché stare lì a tenere in vita la situazione, quindi anche loro hanno preso il vizietto, perché lasciare 20mila Euro al mese per altri due anni e mezzo è dura, tengono famiglia tutti alla fine! Ho fortemente apprezzato l’iniziativa di Ferrandelli e stiamo insieme provando a cambiare un po le cose”. Fabrizio Ferrandelli ha lasciato l’assemblea regionale siciliana ed ha fondato il movimento trasversale “I Coraggiosi”, con persone che hanno voglia di cambiare la Sicilia seriamente. “Il principio è “facciamo le cose e facciamole bene” – racconta Messina – e non fare giochi di parte o di corrente, stiamo cercando di mettere insieme tutte quelle figure e quei soggetti, professionisti, operatori economici, tutti gli amici di una vita o che incontriamo quotidianamente o nel wend e li sto sfidando, dico loro di non lamentarsi e metterci la faccia.

Contrariamente al passato sto avendo tanti riscontri, perché oggi c’è davvero da vergognarsi. Ciò che mi dicono tutti è che ci stanno, perchè peggio di così non si può stare, ma mi dicono di non portare dentro riciclati o gente con responsabilità penali. Proviamo a ricostruire qualcosa senza avere in cambio niente altro che un po di civiltà, per spirito di servizio. Anche il consigliere di quartiere ormai, non appena inizia l’incarico, deve sistemare tutta la famiglia, ma non può funzionare così, noi vogliamo provare a gestire la cosa pubblica in maniera diversa nell’interesse del cittadino, tra l’altro noi siamo una terra che vive il dramma di due Presidenti dimissionari e il terzo che è impresentabile. O si risveglia adesso la Sicilia oppure sarà finita. Anche quest’uso strumentale dell’antimafia, credo che la vera antimafia sia quella del buon governo. Io ho lottato la mafia, ho vissuto sotto scorta. La mafia la combatti seriamente se costruisci le condizioni economiche per sottrarre dallo stato di bisogno i cittadini. Ma se governi male dai la possibilità alla mafia di crescere e quindi il malgoverno produce la mafia”.

Neanche Renzi è riuscito a convincere Crocetta a dare le dimissioni, lui ha dichiarato alla Zanzara che non si dimetterà mai! “Ma il suo partito deve assumersi la responsabilità – osserva Messina – perché Renzi non è che può stare a Roma e far finta che la Sicilia non esiste, lui ha due situazioni di enorme imbarazzo in Italia, noi con i nostri senatori sosteniamo le riforme, non le impediremo mai, perché i cittadini possano essere messi in condizioni di cambiare la Costituzione, detto questo Renzi non può far finta che la Sicilia non esiste e che non esiste Roma. Secondo me lui pagherà queste situazioni insieme a tutti quelli che lo stanno sostenendo, compresi noi che stiamo provando a dare una mano al cambiamento, questo è il tema vero”.

Sembra che anche i rapporti con LeoLuca Orlando, il Movimento 139, nato nel 2013 sulle ceneri del gruppo IdV , e Ignazio Messina stiano migliorando, chissà se ci saranno ripensamenti. “A Palermo abbiamo due consiglieri, Filippo Occhipinti e Paolo Caracausi, sono stati fino ad ora all’opposizione, non posso condividere le cose che non vanno, ma se possiamo fare da adesso qualcos’altro insieme visti i nostri trascorsi insieme ben venga, quindi si sta provando a riaprire il dialogo, mi auguro che alla fine ci si riesca, ma con fatti concreti”.

 

@vanessaseffer

Share

Olio d’oliva: proprietà anti-diabetiche

Share

 

Davvero interessante la presentazione dell’ultimo lavoro del professor Francesco Violi, direttore della Divisione di I Clinica Medica del Policlinico Umberto I, svoltasi nell’aula multimediale dell’Università “La Sapienza”, alla presenza del Magnifico Rettore Eugenio Gaudio, dei dieci ricercatori che hanno collaborato alla ricerca e di numerosi giornalisti e televisioni. La ricerca condotta sull’olio extravergine di oliva di una zona collinare del viterbese, effettuata nel corso di due anni dal professor Violi e che ha coinvolto un campione di 25 persone sane fra i 26 e i 40 anni, ha determinato che la somministrazione di dieci grammi di olio di oliva durante i pasti, sulle verdure o il secondo, applicando la tanto amata e diffusa dieta mediterranea, comporta effetti benefici nella prevenzione e nella cura del diabete, così anche nella prevenzione delle vasculopatie su basi arterosclerotica. Risultato di estrema importanza anche perché il metodo è assolutamente naturale. La ricerca, effettuata nell’azienda ospedaliera dell’ateneo capitolino, mette in evidenza come un particolare olio di oliva, proveniente dalle colline di una zona del viterbese, abbia probabilmente proprietà particolari al punto da poter fungere da antidiabetico orale, con un meccanismo simile ai farmaci di nuova generazione come le incretine.

“La storia della dieta mediterranea – ha dichiarato il professor Violi – è iniziata a Napoli circa sessant’anni fa con un fisiologo americano, Ancel Keys, che si rese conto che in quel territorio si verificavano meno infarti e meno ictus. Dopo sessant’anni non si era capito ancora perché, finché due anni fa alcuni studiosi spagnoli hanno dimostrato che con l’aggiunta di olio nella dieta mediterranea, circa 50 grammi, si riscontrava una minore mortalità, minori malattie cardiovascolari, minori ictus e infarti. Dato di grande impatto sociale che l’olio d’oliva sia un potente antiossidante che aumenta la produzione di insulina e riduce la glicemia. I nostri collaboratori hanno effettuato alle 13 un prelievo di sangue e poi hanno mangiato, nella mensa del Policlinico, un pasto classico con riso, carne e frutta. Nella verdura hanno aggiunto 10 grammi di olio di oliva e la settimana successiva si sono incrociati con gli altri che non lo hanno aggiunto, per poi rifare un prelievo di sangue alle 15, quando sappiamo che il picco di glicemia scende e constatare che l’insulina è aumentata, ma la glicemia è diminuita di 20 mg di media”.

Una scoperta molto importante, soprattutto per coloro che sono a rischio di arteriosclerosi, che vedrà nei passi successivi di constatare se anche sui pazienti con il diabete l’olio d’oliva produce gli stessi effetti, o in pazienti che hanno placche arteriosclerotiche sulle quali si riversa il colesterolo in più che i soggetti hanno assunto con il pasto.

“Voglio sottolineare l’importanza della ricerca all’interno del panorama della Sanità e dell’Università italiana – ha detto il Rettore Gaudio – nonostante la carenza cronica di finanziamenti. Oggi i finanziamenti in Italia per l’università e la ricerca si aggirano intorno allo 0,42 per cento del Pil rispetto allo 0,99 per cento di Francia e Germania. Noi lavoriamo con meno della metà dei fondi e abbiamo un terzo dei ricercatori. Nonostante ciò, la qualità e la produttività dei ricercatori italiani è la più alta in Europa. In pratica, con poche persone e pochi mezzi l’Italia mantiene il settimo posto nella scala della produttività dei Paesi industrializzati; questo è merito dell’impegno, della serietà e della passione dei ricercatori italiani, dai più giovani a quelli con maggiore esperienza. Il risultato di questa ricerca sull’olio d’oliva ci darà maggiore risonanza a livello nazionale e internazionale”.

@vanessaseffer

Share

Pneumologi vs fisiatri, una partita aperta

Share

 

La nostra società sta vivendo una sorta di rivoluzione demografica, nel 2025 nel mondo avremo 1,2 miliardi di persone con più di 60 anni e 2 miliardi nel 2050. In Europa, come nelle regioni più ricche, una persona su 5 ha più di 60 anni. L’invecchiamento dell’essere umano e’ un destino cui non si può sfuggire, a fronte della recente più scarsa natalità nei paesi occidentali come il nostro e del trattamento delle malattie neonatali che assicura la vita ai piccoli, avendo debellato quasi del tutto le malattie che portavano alla morte, l’orientamento della medicina attuale dovrebbe essere quello di adottare delle misure risolutive per far fronte alle conseguenze dell’aumento della popolazione anziana, all’aumento delle patologie legate tipicamente all’invecchiamento. Infatti, questa fase della vita è tipicamente accompagnata da un carico di malattie più o meno invalidanti, che riducono la qualità della vita con costi pesanti per le cure, anche per la lunghezza della durata delle malattie. La riabilitazione e’ un settore della medicina che si occupa di eventuali disabilità conseguenti ad alcune malattie, che limitano la partecipazione attiva alla vita di una persona, specie se anziana, a causa della riduzione di alcune funzioni motorie, cognitive ed emozionali, disabilità che possono essere generate dal sistema nervoso, cardiaco e respiratorio, osteo-articolare e possono toccare anche la sfera intellettiva e quindi relazionale, intaccandone la performance fisica e sociale. La riabilitazione respiratoria, e’ una delle discipline più delicate e frequenti da trattare nei pazienti perlopiù’ anziani, un programma multidisciplinare organizzato su misura per il paziente per ottimizzare la qualità della vita, di cui parliamo con il Prof.Enrico Maria Clini, Specialista in malattie dell’Apparato Respiratorio e Farmacologia dell’Università di Modena-Reggio Emilia.

In cosa consiste la Riabilitazione Respiratoria e quanti tipi di riabilitazione esistono?

La riabilitazione respiratoria e’ una disciplina a metà strada fra la specialistica che ha lo scopo di aiutare i pazienti affetti da malattie respiratorie croniche, controllandone i sintomi fino al miglioramento e un’altra disciplina riabilitativa generale che è quella svolta dai fisiatri, quegli specialisti che attualmente hanno il dominio sulla riabilitazione ma che si occupano prevalentemente del recupero funzionale dell’arto offeso, come una frattura, un intervento chirurgico, una protesi all’anca o al ginocchio, un problema alla spalla. Questo e’ il concetto di riabilitazione nell’immaginario comune della popolazione. Nessuno sa che c’è la riabilitazione per i malati di cuore, la riabilitazione per i malati respiratori, c’è la riabilitazione per gli obesi, c’è quella uroginecologica o la riabilitazione visiva, ci sono tanti tipi di riabilitazione e lo stesso Ministero nel 2011 ha promosso una visione più a 360 gradi dell’argomento, non fisiatricocentrica, questo però non ha un corrispettivo in quello che accade.

Ma lo specialista di riferimento negli ospedali, nonostante il supporto ministeriale e’ ancora il fisiatra.

Nelle strutture pubbliche e private, il riferimento dei direttori generali è considerato il fisiatra, tutto passa da questa figura. Ma il fisiatra tante competenze come quelle che ho detto non ce l’ha e non gli interessano. Quindi non c’è una profonda assistenza alla popolazione che realmente ha bisogno, lo stesso specialista pneumologo la considera una sottodisciplina, utile ma non la promuove, perché non ha sufficiente cultura e l’Universita’ non la spinge nemmeno. Nell’insegnamento delle malattie dell’apparato respiratorio specialistico, post laurea, chi parla di riabilitazione respiratoria, nessuno! A Modena c’è stata una lungimiranza di fabbrica, stiamo cercando di promuoverla, se no non se ne parla. I giovani che si laureano, non sanno bene di cosa parliamo. Quando uno diventa medico specialista formato, tutta questa parte non la sa gestire.

Tutto questo con una popolazione che sta invecchiando!

La maggior parte di popolazione che ha queste malattie croniche sono le persone anziane.

La figura che si dovrebbe formare dunque, quale sarebbe secondo lei?

Uno specialista che nel suo corso di specializzazione, che adesso hanno riportato a quattro anni da cinque, acquisisce anche queste competenze, non è solo quello che sa curare l’asma, la BPCO e che si occupa dell’acuzie e tradizionalmente di tutto quello che attiene alla diagnosi e alla cura delle malattie dell’apparato respiratorio ma anche che riconosce il problema, sa che cos’è la disabilità collegata a queste malattie croniche e la gestisce in prima persona non attraverso i fisiatri, questo è quello che secondo me bisogna far capire agli amministratori e ai direttori generali, da una parte, e che dall’altra parte bisogna fornire come competenza allo specialista che si sta formando. Il giovane che si sta formando, non ha mai, non sa o ha solo sentito parlare di riabilitazione respiratoria, dunque non è uno specialista completo. Il risvolto pratico e’ che non riconoscendo il paziente candidato a fare questo tipo di terapia complessa è chiaro che poi produce inappropriatezza, si manda a fare delle cure riabilitative in pazienti non appropriati, oppure confonde la riabilitazione con la palliazione o peggio ancora a fare le cure di fine vita, quando non c’è più la possibilità di un recupero. Fine vita la si attribuisce come idea al malato terminale di cancro, però anche il malato respiratorio avanzato è un malato terminale, con la differenza che non ha il tumore, ma vive più a lungo del paziente che ha il tumore, quindi va gestito molto di più con queste problematiche di disabilità, di abbandono e invalidità, però la riabilitazione agisce quando ancora può recuperare anche parzialmente la sua funzione, mentre la palliazione è proprio la fase terminale, non c’è più niente da fare. Queste cose vanno trasferite come conoscenza e competenza ai giovani medici e agli specialisti in generale, chiaro che se non sanno di cosa stiamo parlando, si occupano bene di tante cose ma di questa no. Peccato che questo è un problema con cui ci si interfaccia tutti i giorni. I pazienti anziani hanno spesso più di una malattia cronica e queste producono delle conseguenze: non si muovono, non camminano, non escono, non capiscono. Tutte queste cose non sono spesso gestite e invece ce n’è bisogno.

Quanto aiutano i farmaci?

Solo con la terapia farmacologia non si riesce a star meglio, serve anche supporto psico-nutrizionale, norme comportamentali e programmi educazionali che insieme alla terapia riabilitativa aiutano a migliorare la qualità della vita, fino alla restituzione, anche parziale, della loro indipendenza funzionale.

Molte persone ad una certa età sono abbandonate a se stesse, anche negli ospedali per mesi, in reparti che non sono quelli adatti alle cure delle patologie che presentano.

Se oggi ci dovessimo chiedere se il nostro sistema sanitario protegge e gestisce bene gli anziani, solo tante belle parole, ma all’atto pratico siamo molto indietro. L’epidemiologia ci dice che la popolazione invecchia e se la popolazione invecchia e nel frattempo le malattie pediatriche sono state praticamente debellate rispetto ad una volta, c’è stata una trasformazione importante, è chiaro che bisogna occuparsi anche di cose diverse da quelle di una volta, siamo rimasti ad una medicina che fa fatica ad aggiornarsi. Tra gli aggiornamenti utili credo che la riabilitazione specialistica sia senz’altro nella lista.

La Sanità, sia pubblica che privata, ha grossi buchi da colmare per quanto riguarda questo tema?

Il fisiatra non e’ esperto di questi problemi che io tocco con il mio lavoro quotidianamente, non ha le competenze, è come se fosse una cellula potente che deve occuparsi di tutto. In realtà si occupa solo delle cose che ha studiato. Tra cui non ci sono queste. Invece è lo specialista che deve occupare questi spazi. La Sanità e la figura del politico, nel senso delle risorse da destinare, gli amministratori e i direttori degli ospedali, le Regioni oggi, non danno risorse, e spesso fanno anche dei disastri, come da noi in Emilia ne hanno fatti alcuni, perché in Emilia i fisiatri sono molto forti politicamente.

Ma come ci si può formare bene per acquisire le competenze necessarie?

Qua la responsabilità è nostra, è anche mia come docente, e’ degli Specialisti. Se le Università non danno l’ opportunità di formarsi adeguatamente e’ chiaro che verranno sempre fuori persone uguali a prima, mai aggiornate su quello che c’è di nuovo e che di nuovo si può proporre, anche questi aspetti riabilitativi.

Qual è quindi il compito di un fisiatra professor Clini?

Il fisiatra è lo specialista della riabilitazione generale, questo ci dice la legge, questo ci dice la normativa, questo ci dice l’Accademia ed è un modello europeo. In Nord e Sud America, Uruguay e Argentina per dare un’idea, non esiste il fisiatra che fa tutto, esiste il medico che si forma in terapia fisica e il medico che si forma in fisioterapia o riabilitazione specifica e anche il fisioterapista che non è medico, non c’è il fisioterapista che fa tutto. C’è il fisical terapist che ha una competenza, poi c’è il respiratory terapist,.non c’è un terapista per ogni branca, questo per far capire che c’è una formazione già orientata. Per cui quando si esce con un titolo si è abilitati a far delle cose e non altre e quelle cose le si fa in maniera adeguata. Qui in italia come in una parte dell’Europa c’è la tendenza a non differenziare queste competenze, c’è il fisiatra e la legge ci dice che il fisiatra ha le competenze necessarie e sufficienti per garantire tutti i tipi di cure, però, soprattutto per i malati respiratori anzi cardiorespiratori non è vero, non lo sanno fare e quindi non lo fanno. Quindi, quando c’è un’allocazione di risorse sul territorio, cioè ambulatori specialistici per gestire le problematiche riabilitative, il 99,9 per cento dei pazienti che loro trattano sono pazienti post ortopedici, pochissimi neurologici, s’intende quelli che hanno avuto ictus, il resto non esiste.

Come da noi, anche a Roma e in tutta italia, esistono le unità operative di medicina riabilitativa dove i malati respiratori non ci sono. Quando capitano problemi di questo genere cominciano a centrifugarli a destra e sinistra, nelle medicine, dove non recuperano, non raggiungono gli obiettivi che potrebbero raggiungere nemmeno quando potrebbero farlo, perché non hanno la competenza. Loro sono per legge degli specialisti onnipresenti che dovrebbero avere delle competenze ma in realtà non le sviluppano e questa carenza, a mio giudizio, va occupata dallo specialista, e le linee guida del Ministero del 2011, dove per la prima volta hanno riconosciuto che ci sono tante sottodiscipline riabilitative, attribuiscono queste ai singoli specialisti e li chiama specialisti in riabilitazione. Può essere un cardiologo per le sue competenze, uno pneumologo per le sue, un urologo, ecc. Ancora non ha un corrispettivo, perché ovviamente deve maturare, poi perché c’è una lobby giustamente che pratica la difesa del territorio. I politici danno gli indirizzi, bisogna vedere come le Regioni interpretano questi. In Emilia Romagna c’è ancora questa visione fisiatricocentrica, però sono fiducioso che qualcosa presto o tardi accadrà, magari sensibilizzando l’opinione pubblica, il cittadino.

Aprirei un dialogo su questa diatriba, perché c’è un evidente problema di organizzazione ospedaliera e non solo, sarebbe interessante sentire cosa ne pensa la controparte, non fosse altro perché i malati sono quelli che potrebbero averne la peggio e rimetterci.

@vanessaseffer

Share