Il mistero dei francobolli che non dovrebbero esistere

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Il mistero dei francobolli che non dovrebbero esistere Più che un mistero un paradosso storico-bellico. L’asta filatelica della “Ferrario Casa d’Aste” è iniziata ieri e si conclude oggi a Milano. Tra i tanti lotti interessanti spicca il lotto numero1645 che propone, alla sottoquotata base di euro duemilacinquecento, tre francobolli. Per le vicende storico-belliche, esistono allo stato di nuovo ma non potrebbero esistere allo stato di usato. Per anni nelle mani di Roberto Nardacci, studioso filatelico e collezionista d’arte, i tre “non emessi della Fratellanza d’armi” (quando un francobollo non è circolato è definito un “non emesso”) annullati dai timbri postali del 1941.

Le loro tirature furono occultate, ancora fresche di stampa e per volere di Mussolini, nei caveau del ministero delle Poste e lì giacquero dimenticate per l’intero corso bellico. I tre francobolli, allo stato di nuovi, quindi mai circolati e mai postalmente timbrati, furono “scoperti” e strappati all’oblio dalla neonata Repubblica che ne diede notizia nell’estate del 1946 destando nel mondo filatelico, e non solo, immediato stupore, interesse e curiosità: nessuno prima di quel momento aveva mai inteso alcunché su quei tre “non emessi”. Semplicemente, “non esistevano”. Quindi era impossibile poterli reperire annullati con i timbri coevi del periodo d’uso postale (la validità della serie ufficiale fu fino al 28 febbraio 1942).

Questa è la storia e la genesi dei tre non emessi: in seguito al “Patto d’acciaio”, firmato a Berlino il 22 maggio 1939 tra i ministri von Ribbentropp e Ciano, il 10 giugno 1940 Mussolini dichiarò l’entrata in guerra e subito, per propaganda a favore dell’Asse Roma-Berlino e della guerra comune, decise insieme all’alleato un’emissione filatelica congiunta di enorme importanza politica denominata “fratellanza d’armi italo-tedesca”. Il bozzetto della serie italiana, con i profili dei due dittatori, fu commissionato a Corrado Mezzana, noto artista dell’epoca. È significativo osservare che la serie non avrebbe presentato alcuna traccia del simbolo statale, ossia lo scudo crociato dei Savoia che, affiancato dai fasci, fu presente anche dopo questa emissione su tutti i francobolli del ventennio.

Appena stampati i sei valori italiani, e poco prima che gli stessi fossero immessi nel circuito postale, Mussolini fu informato che sul francobollo tedesco sarebbe apparsa la scritta “Zwei Völker und ein Kampf”. Decise quindi di sostituire i tre valori più bassi con altri tre di pari valore e colore ma con diverso bozzetto e la didascalia “Due popoli una guerra”. I tre valori più alti, stessa vignetta dei tre “occultati” furono emessi il 30 gennaio del 1941 sincronicamente con l’emissione tedesca e gli altri tre, con diversa raffigurazione (anch’essa realizzata da Mezzana), furono fatti circolare il 2 aprile dello stesso anno.

Ma se in Italia l’ufficio propaganda era efficiente, lo era anche il Pwe (Political Warfare Executive) inglese che eseguì nell’ottobre del 1943 una versione ironica di entrambe le vignette realizzando due falsi di guerra altrimenti detti imitazioni di guerra, francobolli di spionaggio, o anche di propaganda. In una di queste versioni Mussolini fu sminuito poiché raffigurato atterrito con Hitler che lo guarda torvo e minaccioso sulla nuova campeggiante, falsificata e irridente, versione didascalica: due popoli un Führer. Nell’altra versione vi è invece un Mussolini raffigurato interdetto sopra la falsa scritta, che sostituisce la dicitura “poste italiane”: “Zwei Völker, Ein Krieg” (due persone-nazioni, una guerra). L’espressione del Duce e l’uso della lingua tedesca erano un messaggio subliminale: l’Italia titubante era stata coinvolta bellicamente da una prevaricante Germania e da un Mussolini timoroso di rompere il Patto siglato.

Parallelamente alla visibile guerra degli eserciti si stavano svolgendo altre belligeranze, silenziose e invisibili, con protagonisti spie, agenti segreti e francobolli: spy stamps! Avversari e oppositori politici stamparono diversi francobolli falsi per delegittimare i capi tedeschi e italiani. E i servizi segreti presero di mira proprio la serie sulla “fratellanza d’armi” per la sua rilevanza storico politica e perché, per la prima volta su un francobollo, Mussolini appariva personalmente in effige. Tra le diverse operazioni legate a francobolli di propaganda, fu particolarmente ingegnosa e originale la beffa dal nome in codice “O.C.”: “Operation Cornflakes” dell’Office of Strategic Services degli Stati Uniti: il 5 gennaio 1945 venne bombardato un treno delle poste tedesche a Leinz. E, insieme alle bombe, furono gettati pacchi contenenti corrispondenza falsa con indirizzi veri, affinché fosse poi recuperata insieme alla posta originale tra i rottami. Corrispondenza falsa affrancata con falsi di guerra: un Hitler trasfigurato in un teschio con la scritta “Futsches Reich”. E, all’interno di pacchi e missive, materiale propagandistico tra cui false copie del giornale nazionalsocialista “DasNeueDeutschland”. Una beffa usare postini “nazisti” della DeutescheReichpost per recapitare ai tedeschi propaganda anti-nazista! Il vero meta-messaggio dell’operazione Cornflakes ed altre simili, consisteva proprio nel dimostrare anche agli stessi tedeschi la penetrabilità delle loro difese naziste.

Dopo queste curiose ed aneddotiche divagazioni storiche torniamo, rimanendo in tema, ai nostri tre “impossibili” non emessi obliterati. Com’è possibile che avessero un timbro postale del ‘41 se l’esistenza delle tre serie “occultate” avvenne solo nel 1946? Ecco quanto è stato riportato, ecco svelarsi il mistero con il racconto del pronipote collaterale di un gerarca: “Ho rinvenuto queste tre cartoline tra vari oggetti ereditati e la versione tramandata in famiglia era che Mussolini, nel momento stesso in cui ordinò di occultare i tre valori fatti sostituire, si fece consegnare alcune serie comprendenti anche i “non emessi” per farne dono a gerarchi italiani e tedeschi. Almeno uno di questi gerarchi però, in occasione della XV Giornata filatelica nazionale di Torino dell’ottobre 1941 svoltasi al Grand’Hotel Principe di Piemonte, si fece obliterare su cartoline ufficiali della manifestazione tutti i valori emessi e quelli “non emessi”.

Queste cartoline giunsero poi nelle mani del collezionista attraverso un percorso tortuoso ma ricostruibile. Già corredati dalla perizia storico/filatelica di Caffaz di Padova. E Caffaz dichiarò che prima di allora non gli era mai capitato di vedere i tre non emessi della “fratellanza” obliterati… Interpellato anche lo Studio Raybaudi, a memoria non ricordava se da lì fossero passati francobolli analoghi. Si dichiararono comunque disponibili ad effettuare una perizia di controllo il cui esito sarebbe stato il rilascio di un certificato “oro” Raybaudi. E’ comunque sintomatico considerare, per mero raffronto, che in tutti gli studi peritali sono invece passati parecchi esemplari annullati del “non emesso” francobollo italiano più conosciuto al mondo, ossia il “Gronchi rosa”.

E quindi, al contrario di questo assai raro “non emesso” del 1961, sui tre “non emessi” della “Fratellanza” è avvalorabile la probante, ed emozionante, ipotesi che siano addirittura quasi unici nello stato di “obliterati”.

@vanessaseffer

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Aggressioni ai medici, l’intervista a Ugo Donati

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Aggressioni ai medici, l’intervista a Ugo Donati Il dottor Ugo Donati è il direttore del Pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli, cittadina laziale dove pochi giorni fa è avvenuta l’ultima aggressione in ordine di tempo ad operatori sanitari.

Dottor Donati, può spiegarci cosa è successo?

Mi sembra giusto specificare che la Direzione strategica dell’Azienda Roma 5 si è immediatamente mossa per farsi parte integrante dell’attività di denuncia nei confronti del soggetto. La denuncia è stata effettuata nella giornata di sabato dal sottoscritto come rappresentante delegato dalla Direzione strategica. Quindi è da rimarcare che immediatamente, anche alla luce delle recenti disposizioni regionali, le Direzioni strategiche diventano praticamente suppletive e implementanti di quella che è l’attività di denuncia che una volta veniva svolta dal singolo operatore che era interessato alla vicenda.

È mai successo che prima la denuncia si evitava per qualche ragione?

Non che io ricordi o che ne abbia conoscenza diretta. Il dipendente, a seconda di quanto era colpito o arrabbiato, presentava denuncia in maniera autonoma ma non sempre aveva il supporto della sua azienda. Questa è la terza situazione in cui come direttore di Unità Operativa mi trovo a dovere sporgere denuncia nei confronti di chi causa i danni.

La persona in questione si era proposta di ripagare i danni?

A mio giudizio, ad atteggiamento duro deve seguire una linea dura: queste forme di pentimento dopo aver commesso un fatto, se pur a volte non nella piena coscienza individuale, lasciano il tempo che trovano. Se uccido una persona perché vado a 200 km orari in città, è chiaro che me ne devo assumere tutte le responsabilità, non basta che chieda scusa alla famiglia dopo che ho ammazzato tre persone. In questo caso non parliamo di omicidio, ma di danni procurati, anche dal punto di vista psicologico; singolarmente non sono pochi, non solo agli operatori, anche a tutti gli astanti. Erano presenti anche dei bambini che abbiamo cercato subito di mettere in sicurezza allontanandoli, e non credo sia stata una scena costruttiva.

Cosa è accaduto nella specifica situazione di venerdì?

La persona in questione ha cominciato ad aggredire verbalmente il nostro operatore del Triage e poi ha continuato con parole e fatti: non entro nello specifico perché, pur essendo stato autorizzato dalla direzione sanitaria aziendale a rilasciare questa intervista, ci saranno delle indagini. Voglio fare personalmente i miei complimenti a questo nostro operatore per non aver reagito minimamente contro questa persona, per essere rimasto impassibile dinanzi alle offese sulla sfera personale, per non aver risposto neppure con uno sguardo, anzi cercando di continuare il suo lavoro per come ha potuto, attivando tutti i processi di salvaguardia per sé e per i pazienti.

Sono situazioni che da voi accadono frequentemente?

Ringraziando il cielo non posso dirlo considerati gli alti numeri di accesso al Pronto soccorso, ma a volte accadono. Purtroppo se ci troviamo davanti degli esagitati, può succedere per ineducazione, per impunità, o perché incapaci di intendere e di volere, perché hanno abusato di droghe o alcol, io sono convinto che questi fenomeni accadrebbero comunque anche se noi avessimo una squadra di Marines all’interno del Pronto soccorso. È anche già successo che le stesse pattuglie della polizia venissero anch’esse malmenate da soggetti che purtroppo sono in situazioni incontrollabili. Quindi il cosiddetto percorso per l’umanizzazione, per quanto assolutamente auspicabile e per quanto debba andare di pari passo con la difesa dell’operatore, purtroppo non è facilmente realizzabile. Perché queste cose sono capitate nel passato, capitano oggi, ma capiteranno sicuramente anche domani.

Donati, dalle sue parole trapela un grande scoraggiamento.

Guardi, probabilmente dico una bestialità, chi lavora in Pronto soccorso sa che questi sono inconvenienti che fanno parte della sua attività lavorativa dal momento in cui mette una firma su un contratto.

Ci sono stati i casi di alcuni medici e soprattutto di alcune dottoresse, e sottolineo il genere femminile, poiché queste ultime sono state violentate, che hanno preso sprangate. Forse questi casi andavano affrontati diversamente, si potevano evitare?

Certo, noi dovremmo avere guardie armate all’interno dei Pronto soccorso che abbiano poteri pieni nei confronti di chiunque si rivolga in un certo modo nei confronti del personale e dei pazienti.

Ma il rischio non è il Far West?

Siamo già nel Far West. Se lei fosse presente in quei momenti vedrebbe che è peggio del Far West. Una sola persona mette a soqquadro un sistema organizzativo, mette a soqquadro tutte quelle difese che possiamo aver messo in campo per cercare di arginare questi processi. Presente io, che ho preso calci in faccia anche personalmente. Questo la dice lunga sulla possibilità di potersi relazionare o interagire con persone che purtroppo in quei momenti non sono loro stessi. Poi tutti quanti chiedono scusa dopo. Ma in quel momento sono persone irragionevoli. Ben venga dunque la pronta iniziativa della direzione strategica a tutela degli operatori. Tolleranza zero.

@vanessaseffer

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Medico e pazienti, l’intervista a Zampetti

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Medico e pazienti, l’intervista a ZampettiSi avvicina venerdì 23 novembre e se le previsioni non meteorologiche si avvereranno sarà un venerdì nero, ma di un nero piceo per la sanità pubblica del nostro Paese. È annunciato lo sciopero generale indetto dai medici. Le motivazioni sono note, a distanza di ormai quasi un decennio dall’ultimo contratto. E altrettanto noti sono gli slogan usati per pubblicizzare e far comprendere ai cittadini le motivazioni stesse e per averli finalmente dalla loro parte della “barricata”. E sulla nuova ed efficace modalità comunicativa adottata dai medici il nostro giornale ha già ampiamente dissertato cogliendone non solo il carattere innovativo ma anche la caratteristica easy and smart. Ne parliamo con il dottor Maurizio Zampetti, responsabile della Uoc di Dermatologia della Asl Roma 6 e segretario nazionale aggiunto della Cisl Medici.

Dottor Zampetti, quanto ci piacerebbe che sin dal giorno successivo allo sciopero ogni medico riuscisse a svolgere efficacemente nelle corsie ospedaliere anche una buona attività di comunicatore oltre a quella di terapeuta.

Per fare questo è indubbio che il medico deve prepararsi al ruolo ed è vero che la formazione universitaria in merito è lacunosa. Nella realtà quotidiana ciascun medico mette in campo gli strumenti che la propria sensibilità e la propria specifica e soggettiva esperienza gli consentono, con il conseguente risultato di sensibili difformità nell’approccio al malato e, dunque, con infinite variazioni di situazioni.

Dunque ancora oggi molto resta affidato all’individuo come spesso accade anche in altri ambiti lavorativi.

Di questo noi medici, che siamo però anche cittadini e fruitori di servizi sanitari, abbiamo una sempre maggiore consapevolezza. È evidente che dobbiamo migliorare la nostra capacità di entrare in relazione con l’assistito e questo dobbiamo farlo per raggiungere un obiettivo sicuramente non semplice: imparare a comunicare oltre che curare. E comunicare non solo le doverose informazioni in merito a diagnosi, terapia e prognosi.

Oggi che si parla di integrazione sociosanitaria è importante che la struttura pubblica, attraverso i propri operatori, sia in grado di fornire univoche e dettagliate informazioni per ottenere aiuti di tipo sociale, mettendo a conoscenza dell’ammalato e dei familiari le diversificate opportunità presenti nel quadro normativo.

Sì, entrare nel sociale vuol dire anche offrire un autorevole supporto conoscitivo su aspetti non secondari quali gli effetti della malattia sulle relazioni interpersonali ed anche sulla vita sessuale che viene spesso ad essere alterata o stravolta nel corso ad esempio di patologie oncologiche. Le persone malate, anche se affette da patologie altamente invalidanti ed a prognosi infausta, sono soggetti che mantengono inalterata la pienezza della disponibilità a poter usufruire dei diritti di cui sono titolari (rispetto della volontà del malato, diritto alla libertà di pensiero, diritto di compiere atti conformi ad opinioni scientificamente validate).

E allora Zampetti, dopo un venerdì nero, dopo la solidarietà ad una categoria professionale che ha un ruolo insostituibile, ci piacerebbe svegliarci il giorno dopo sapendo che la categoria medica ha finalmente fatto proprio il concetto di “umanizzazione”.

Io ritengo che la categoria medica abbia compreso che nei momenti di comunicazione della diagnosi e della prognosi la persona malata è spesso in una fase di autentica confusione e che occorre dimostrare una profonda e sincera comprensione.

Zampetti, credo che lei sia consapevole come medico e sindacalista che noi cittadini non abbiamo gli strumenti individuali per giudicare la bontà del singolo atto medico.

Personalmente sono convinto che l’implementazione dell’uso delle buone maniere e l’utilizzo di espressioni e linguaggio semplice, tenendo conto dei diversi livelli di comprensione e di preparazione culturale dei singoli, quasi certamente potrebbe ridurre alcune diffidenze dei cittadini nei nostri confronti. Perché i cittadini, anche se distratti dallo storico vizio di lamentarsi del nostro Servizio sanitario nazionale, sanno molto bene che tra noi medici ci sono autentici grandissimi professionisti ed autentici eroi nascosti.

(*) In memoria del dottor Giuseppe Liotta, medico e pediatra, che in Sicilia ha sacrificato la propria vita pensando unicamente al dovere di salvaguardare quella altrui.

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Medici aggrediti, ultimo caso a Tivoli

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Medici aggrediti, ultimo caso a TivoliVenerdì scorso nel Pronto soccorso dell’ospedale “San Giovanni Evangelista” di Tivoli un uomo ha aggredito gli operatori, danneggiato i locali e creato momenti di panico. Il responsabile, classe 1989, raggiunto dalle forze dell’ordine in un bar poco lontano, seppur pentito delle sue azioni e intenzionato a ripagare i danni materiali provocati, è stato comunque denunciato per i danni causati a persone e cose e per interruzione di pubblico servizio. Solo pochi mesi fa il segretario della Cisl medici Biagio Papotto, aveva evidenziato la drammaticità della situazione dei medici e degli operatori sanitari, troppo spesso aggrediti durante le ore di lavoro, suggerendo di non lasciare impuniti simili attacchi a tutte le professionalità ospedaliere. Le aziende non dovrebbero voltare le spalle ai propri operatori. Piuttosto, dovrebbero schierarsi come parte civile al fianco dei medici e degli operatori sanitari. Con un obiettivo: dare una dimostrazione forte del disagio provocato alla categoria dei medici, degli infermieri e degli operatori sanitari che agiscono per il bene della comunità e spesso si ritrovano bersaglio di offese, minacce, addirittura di violenze fisiche. Chi ha denunciato non deve restare da solo.

Giuseppe Quintavalle, commissario dell’azienda di Tivoli, la Asl Roma 5, oltre alla denuncia, ha garantito il sostegno psicologico per i suoi collaboratori. Per questi interventi un apprezzamento è giunto alla direzione strategica, attraverso una nota della Cisl Fp, che ha evidenziato la necessità di avere sul posto figure che si interfaccino con l’utenza nelle sale d’attesa, “dedite alla gestione dei conflitti che spesso si trasformano in aggressioni al personale”. Nonostante le azioni di violenza non si possano prevedere, questo aspetto, nella riorganizzazione della zona dei triage, ossia un sistema di informazione ad uso esclusivo degli utenti, sarà previsto all’interno dei prossimi lavori di ristrutturazione del Dea insieme ad una decisa azione di umanizzazione, con la collaborazione e la presenza di personale proveniente da associazioni accreditate all’interno delle sale d’attesa di ogni Pronto soccorso di competenza della Asl Roma 5, al fine di dare sostegno, consigli, indicazioni sui percorsi, nei limiti della normativa sulla privacy.

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Palingenesi del “che prendi cara?”

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Palingenesi del “che prendi cara?” Roma è la Città Eterna. Ti perdi nei suoi vicoli, ne ammiri la bellezza millenaria, rifletto su quanto si è fortunati a vivere in questo pezzo di storia, ne apprezzi il dolce clima, il ponentino, le ottobrate, la cucina povera, quella della tradizione, quella contaminata dalle altre culture, un po’ meno quella soltanto contaminata, ma per quest’ultima ci sono i Nas. Insomma, anche se mi muovo facendo lo slalom tra i tombini intasati, ma questa è un’altra storia ed un altro articolo, bisogna riconoscerlo: Roma è godibilissima. Poi decido di ristorarmi ed entro in un bar, non importa dove, non importa in quale quartiere ed eccolo lì pronto ad azzannarmi come un cane inferocito: il rinnovamento profondo, la trasformazione integrale e radicale del costume, la palingenesi del “che prendi cara/o?”.

Magari a qualcuno potrà anche sembrare simpatico, senz’altro qualcuno potrà anche sentirsi “fico” se a pronunciare le fatidiche parole è una bella barista, gli si raddrizza la giornata, la giacca o il pullover cadono meglio. Magari qualche signora potrebbe perfino sentirsi lusingata se a pronunciare il “che prendi cara?” è un giovane avvenente a preparare il caffè, specie se il marito o il fidanzato cominciano a non notare di aver cambiato il colore delle unghie. Magari però se ne potrebbe fare a meno. Mi occorre solo un latte bianco con molta schiuma e cannella, un cappuccino d’orzo chiaro, al più una tea con latte freddo a parte o un cornetto vegano. Il massimo sarebbe ricevere quanto ordinato accompagnato da un sorriso spontaneo, vabbè anche solo un sorriso prodromico della mancetta. E invece mi “becco” la stucchevole mancanza di educazione, mimetizzata da disponibilità a prepararmi quel caffè e quel cappuccino con i migliori sentimenti, quelli puri, quelli autentici, quelli che solo il “che prendi cara?” non mi consente di apprezzare in pieno.

A quando una app che sul telefonino ci indica quei locali dove sedersi e prendere in pace il nostro caffè preferibilmente non bruciato? E se poi quel break non dovesse essere il massimo, poter cambiare locale al prossimo giro e magari raggiungere quella sensazione di piacevolezza, quella cenestesi che un buon caffè può dare, se non fosse accompagnato da quel segnale che attesta una caduta in picchiata della buona educazione e dello stile: “che prendi cara?”.

@vanessaseffer

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