La notizia si è diffusa pochi mesi fa, per circa un mese, fino al decesso della paziente. Una dozzina di rom si erano accampati nella sala d’aspetto del reparto di oncologia di un ospedale lombardo dove era ricoverata una congiunta. Il fatto aveva, per qualche ora, attirato l’attenzione dei media sia per l’evento in sé sia perché strumento di ping pong politico. Era una vicenda da prendere con le molle molto lunghe per evitare di venire poi accusati di essere, nella migliore delle ipotesi, politicamente scorretti se non addirittura razzisti.
Che non fosse un fake, nonostante il dubbio legittimo derivante proprio dalla lunga durata della permanenza in una struttura sanitaria di persone non degenti, lo dimostrava un successivo comunicato della Direzione sanitaria del presidio ospedaliero, che a quel punto non poteva sottrarsi alla curiosità diffusa e alla pressione dei media. Il comunicato evidenziava che appena informata la Direzione stessa aveva disposto l’intervento della sorveglianza interna e del posto di Polizia di Stato presente in Pronto Soccorso e la Questura visto il perdurare di atteggiamenti poco rispettosi nei confronti del personale e degli altri degenti e aveva inviato due pattuglie.
Infine, il comunicato ufficiale del nosocomio aggiungeva che “gli ospedali sono luoghi di cura. Purtroppo in tutta Italia assistiamo sempre più spesso a episodi di maleducazione e aggressività verso gli operatori”. Un mese di occupazione e alla fine una nota direzionale molto semplice e cauta. Cautela derivante dalla paura di innescare episodi di violenza? Cautela derivante dalla preoccupazione di non prestare il fianco ad attacchi mediatici anche strumentali in ragione della diversa etnia degli occupanti e quindi evitare l’accusa di razzismo? Entrambe le motivazioni possono essere valide considerato che l’Italia è terra di guelfi e ghibellini, di stracittadine calcistiche e di laceranti divisioni tra chi mette la cipolla nell’amatriciana e chi inorridisce al solo pensiero.
Poi, ecco sopraggiungere la notizia apparsa su un quotidiano del Trentino, e si innesca un’accesa polemica a seguito della affissione in Alto Adige di manifesti con un cadavere divenuto tale a seguito della non conoscenza della lingua tedesca da parte di medici italiani. A riaccendere una polemica non sopita la promulgazione di una legge provinciale che autorizzava i medici che conoscano solo il tedesco a esercitare nella provincia autonoma di Bolzano, bypassando, nel caso si tratti di medici stranieri, la normativa nazionale. Normativa che prevede il riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero da parte del ministero della Salute e poi, per l’iscrizione all’Ordine, l’accertamento della conoscenza della lingua e delle normative italiane.
“Medici che non parlano italiano possono comunque esercitare la professione a Bolzano senza l’equiparazione dei titoli, prevista per legge: lo permette una legge provinciale pubblicata a fine ottobre”. Così rilevava la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), che chiedeva al Governo di valutarne l’impugnazione, sottolineando che “anche l’Alto Adige fa parte del Servizio sanitario nazionale”. “Ma è un contrappasso dantesco, una ironia il cui senso ci sfugge, una ulteriore spallata se non all’unità d’Italia almeno alla unità del servizio sanitario nazionale?” – si chiedeva in un comunicato il segretario della Cisl Medici Lazio impegnato in quella battaglia di civiltà portata avanti per sensibilizzare l’opinione pubblica, la politica e le istituzioni contro le aggressioni ai medici ed agli operatori sanitari e ritenendo questa una forma diversa di aggressione di tipo mediatico e derivante anche dalle storiche divisioni in merito alla autonomia di quella area geografica.
Di questi ultimi giorni poi la notizia che ad alcune ginecologhe e pediatre somale, sudanesi, palestinesi e irachene di religione musulmana che hanno svolto attività lavorativa presso strutture private in Veneto, non sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro pur nella carenza più volte evidenziata di specialisti. La loro colpa sarebbe quella di avere coperto i capelli e parte del viso con un foulard o un velo, il hijab, e non stiamo dunque parlando del burqa, l’abito che nasconde quasi completamente il viso. La notizia necessita di approfondimento ma è meritevole di qualche riflessione. In Italia siamo solo impauriti o siamo diventati razzisti?
Sulla questione si è accesa la polemica ed una associazione di medici stranieri in Italia, ha lamentato un “atto di discriminazione” da parte dei malati che ai successivi controlli, chiedevano esplicitamente di essere controllati da medici italiani. Tutto ciò si inserirebbe, secondo l’associazione, in un fenomeno più ampio e complesso di “intolleranza verso gli stranieri, alimentato dai social e da una comunicazione, anche politica, aggressiva e offensiva”.
E non è mancata, su un argomento delicato e scivoloso, una voce solidale di chi, come la Cisl Medici Lazio, ha espresso preoccupazione per questa ulteriore evoluzione del pensiero negativo nei confronti dei medici che sembra basato questa volta sulla discriminazione di razza e di cultura. Ed ecco dunque riaffacciarsi, e neanche in maniera non evidente, una parolina che fa subito ricordare orribili fasi della storia ed altrettanto orribili comportamenti del genere umano rispetto ai propri simili con un colore della pelle diverso dal proprio o professanti un diverso credo religioso: la parola è razzismo, la presunta superiorità di una razza sulle altre, le discriminazioni sociali e violenze fino al genocidio.
Una parolina che davvero avremmo preferito non dovere leggere o ascoltare. Anche perché qui non si tratta solo del razzismo come fenomeno in generale che allontana non solo lo straniero e lo discrimina per colore della pelle e credo religioso, ma sta diventando un modo di pensare comune. Si manifesta con la scarsa tolleranza, come nelle aggressioni, ma anche nel linguaggio dei social e dunque tende ad estendersi ad una molteplicità di situazioni e ad una platea numerosa come la gioventù troppo spesso carente e poco solida nei riferimenti culturali e indubbiamente privi di quella memoria storica che si ha difficoltà a tramandare. Il medico viene rifiutato non per la eventuale sua incapacità ma perché individuo appartenente ad una particolare tipologia sociale o religiosa. Forse anche su questo ci sarebbe bisogno di una attenta campagna mediatica volta a sensibilizzare l’opinione pubblica ed anche questo è un segno del triste periodo di incertezze e di paure che stiamo vivendo.
@vanessaseffer