Violenza agli operatori sanitari, parla il risk manager Sabatelli

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Violenza agli operatori sanitari, parla il risk manager SabatelliGli operatori dei servizi sanitari presentano un rischio significativo di subire atti di violenza durante la propria attività lavorativa. Si tratta di un fenomeno così rilevante che il ministero della Salute ha emanato una specifica raccomandazione sull’argomento e ha inserito la “morte o grave danno in seguito a violenza su operatore” fra gli eventi sentinella che devono essere segnalati attraverso il flusso Simes. La Regione Lazio nello scorso luglio ha istituito l’Osservatorio regionale per la sicurezza degli operatori Sanitari e ha recentemente approvato un “Documento di indirizzo sulla prevenzione e la gestione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari” elaborato dal Centro regionale rischio clinico. Per queste ragioni abbiamo voluto sentire Giuseppe Sabatelli, coordinatore del Centro e risk manager della Asl Roma 5.

Dottore, qual è l’obiettivo del documento?

Il documento risponde alla necessità di fare chiarezza su un fenomeno complesso come quello degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari. Al contempo, cerca di fornire alle strutture sanitarie indicazioni e strumenti pratici per valutare correttamente il rischio di aggressione e migliorare la sicurezza dei propri operatori, attraverso interventi strutturati e organizzati. Per fare questo il gruppo di lavoro si è basato su due assunti principali. Innanzitutto, abbiamo chiarito che si tratta di un problema di sicurezza del lavoro che va affrontato secondo quanto previsto dal Decreto legislativo 81 del 2008: il rischio di subire un’aggressione sul posto di lavoro va valutato e gestito dalle organizzazioni al pari di qualsiasi altro rischio lavorativo. Il secondo punto fermo è stato quello di considerare gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari come reati da perseguire, fatti salvi casi limitati e specifici.

Ci sono dati che consentono di quantificare il fenomeno?

Non è facile definire le esatte dimensioni del fenomeno. Una delle cause di tale difficoltà è legata alla genericità delle definizioni. Il termine “violenza sul posto di lavoro”, infatti, comprende eventi molto diversi tra loro: dai comportamenti incivili alla mancanza di rispetto nei confronti degli operatori, dagli insulti alle minacce verbali, fino all’aggressione fisica, con esiti anche drammatici. Alla difficoltà di trovare un accordo su cosa si intenda con il termine “violenza sul posto di lavoro” si aggiunge un’estrema diversificazione nelle modalità di raccolta dei dati, per cui le evidenze disponibili sono difficilmente confrontabili e danno risultati molto diversi fra loro. Per questo motivo nel documento abbiamo deciso di considerare come atti di violenza a danno degli operatori sanitari qualsiasi forma di aggressione verbale, fisica o psicologica praticate sul lavoro da parte di soggetti esterni all’organizzazione, escludendo gli episodi di violenza fisica e psicologica da parte di colleghi o superiori. Un altro motivo che rende difficile una corretta quantificazione del fenomeno è poi legato alla scarsa propensione delle vittime a segnalare e denunciare gli episodi di violenza a causa di fattori di tipo sociale e culturale ma anche per i limiti dei sistemi di reporting che, è opportuno ricordarlo, sono su base volontaria.

Sono disponibili dati regionali?

Sì, e una parte rilevante del documento è riservata alla loro analisi. Si tratta dei dati che ormai da anni tutte le strutture sanitarie regionali caricano su un portale dedicato al fine di soddisfare il flusso Simes ministeriale. Nel periodo dal 2012 al 2017 sono stati segnalati sul portale 553 atti di violenza a danno di operatori, con un valore medio annuo di circa 90 episodi. Dall’esame dei dati non sono emerse differenze significative nella percentuale di segnalazione provenienti da donne e uomini pur in presenza di una lieve prevalenza delle prime. È emersa invece una decisa prevalenza delle aggressioni fisiche che sfiorano il 67 per cento del totale. Relativamente agli esiti, in quasi la metà dei casi non viene segnalato alcun danno a carico dell’operatore coinvolto, almeno nell’immediatezza della segnalazione, mentre in oltre il 42 per cento dei casi sono segnalati danni lievi. In poco più dell’8 per cento degli eventi sono segnalati danni da moderati a severi. In oltre il 64 per cento dei casi l’aggressore è il paziente, nel 17,5 per cento dei casi è un parente o visitatore del paziente. In poco più del 3 per cento gli atti di violenza vengono perpetrati da soggetti esterni, senza motivo apparente.

Quali sono le figure professionali maggiormente a rischio?

Le figure più a rischio sono certamente rappresentate da quelle maggiormente coinvolte nelle attività clinico-assistenziali: infermieri, operatori sociosanitari e medici. Tuttavia anche altri operatori sanitari possono essere vittima di violenza. Nel documento abbiamo perciò ritenuto opportuno allargare la definizione di “operatori” anche ad altri soggetti: psicologi, farmacisti, assistenti sociali, tecnici sanitari, personale dei servizi di trasporto d’emergenza, studenti e specializzandi, volontari, senza dimenticare il personale di front office e dei servizi di vigilanza, e qualunque altro lavoratore di una organizzazione che eroga prestazioni sociosanitarie che subisca un atto di violenza sul posto di lavoro.

Quali sono le strutture e i servizi maggiormente esposti al fenomeno?

Le evidenze disponibili sembrano indicare che il fenomeno sia maggiormente rilevante nei servizi di emergenza-urgenza, nelle strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali, nei luoghi di attesa, nei servizi di geriatria e nella continuità assistenziale. I dati regionali confermano, almeno in parte, questo quadro: il 23 per cento delle segnalazioni è relativa all’area di emergenza-urgenza, seguita dalla assistenza psichiatrica e delle dipendenze patologiche (oltre il 20 per cento). Di particolare rilevanza anche il dato relativo al trasporto di emergenza, che rende conto del 21 per cento delle aggressioni totali. In oltre il 13 per cento dei casi non è stato invece possibile risalire alla struttura di accadimento.

Il documento contiene anche strumenti che le strutture sanitarie possono utilizzare per la valutazione e la gestione del rischio?

Tutti i documenti dal Centro regionale rischio clinico sono pensati ed elaborati al fine di supportare le strutture sanitarie tramite strumenti immediatamente applicabili nelle diverse realtà. Nello specifico, al fine di consentire alle strutture di elaborare un Piano per la Prevenzione degli atti di Violenza da inserire all’interno del Documento di valutazione dei rischi previsto dal Decreto legislativo 81 del 2008, il testo è stato corredato da una serie di checklist tradotte e adattate da un recente documento dell’Occupational and Safety Health Administration americana. Utilizzando queste checklist, ovviamente adattandole agli specifici contesti, le organizzazioni potranno definire, nell’ambito dei diversi setting assistenziali individuati, quali siano gli interventi strutturali, tecnologici, organizzativi e professionali per ridurre le dimensioni del fenomeno. Sono state tradotte e adattare anche checklist per l’autovalutazione del rischio aggressione da parte delle singole unità operative. Inoltre abbiamo cercato di fornire indicazioni chiare sugli aspetti infortunistici e legali.

Quali sono i risultati prevedibili derivanti dall’effettiva implementazione del documento di indirizzo?

Ovviamente non è realistico pensare che un documento possa azzerare gli atti di violenza. Si tratta di un problema i cui determinanti riguardano ambiti che vanno ben oltre le possibilità di intervento delle organizzazioni sanitarie. Preferisco considerarlo un contributo che definisce in maniera chiara ambiti di intervento e ruoli, che dà indicazioni pratiche e di policy e che, soprattutto, si inserisce all’interno di un percorso regionale iniziato con la istituzione dell’Osservatorio. In quella sede ritengo che potranno essere messe proficuamente a fattor comune le energie e le competenze di tutti gli attori coinvolti al fine di definire e condividere ulteriori strumenti di intervento che coinvolgano non solo gli operatori ma anche i cittadini.

@vanessaseffer

 

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I numeri della spesa oncologica

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I numeri della spesa oncologicaLa patologia oncologica in Italia presenta un impatto economico di rilevanza crescente sul sistema sanitario del nostro Paese. Al contempo, e questo rappresenta una buona notizia per noi cittadini, è in aumento anche la speranza di vita legata alla diagnosi grazie anche alla disponibilità di trattamenti sempre più mirati, maggiormente efficaci e con effetti collaterali moderati. Certamente è complicato iniziare un articolo sul “pianeta cancro”, con tutti i risvolti emozionali intrinseci all’argomento, con parole come “impatto economico”. Tuttavia occorre ricordare che sin dal 1992 in Italia ha preso avvio il processo di aziendalizzazione del Servizio sanitario nazionale a seguito del Decreto legislativo numero 502 del 30 dicembre 1992.

La rivoluzione di allora non apparve come una semplice operazione di facciata con la modificazione della terminologia con le Usl trasformate in Asl, ma a questi nuovi soggetti giuridici, le aziende sanitarie, vennero attribuite autonomia decisionale e patrimoniale con l’obiettivo di rispondere a criteri di efficacia, efficienza, economicità e rispetto dei vincoli di bilancio. Pertanto, in riferimento alla sanità non si può prescindere dalla sostenibilità finanziaria del sistema e dall’equilibrio di bilancio pubblico. I progressi fatti dalla medicina, sia in ambito diagnostico che terapeutico, hanno certamente portato dei risultati straordinari in termini di salute per i malati di cancro, dall’altro però sono cambiati e aumentati i bisogni di salute ed i servizi di assistenza per loro e familiari, e ciò ha determinato una implementazione dei costi globalmente intesi.

Se dunque ognuno di noi è ben consapevole che la disponibilità e l’accessibilità alle migliori cure disponibili rappresentano un diritto per i malati di cancro, al tempo stesso è necessario avere una consapevolezza dei costi economici connessi alla cura essendo altresì aumentata la pressione sugli interventi di contenimento della spesa sanitaria, soprattutto su alcuni farmaci, tra cui gli oncologici. Come già scritto, la sopravvivenza media della popolazione italiana affetta da malattie neoplastiche è aumentata nel corso degli anni. Secondo un rapporto Aiom-Airtum sui tumori in Italia (i numeri del cancro in Italia 2015, il censimento ufficiale dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum), quinta edizione, presentato il 24 settembre 2015 a Roma nell’Auditorium di Lungotevere Ripa, nel 2015 le persone viventi dopo una diagnosi di tumore erano 3.037.127, ovvero circa il 5 per cento dell’intera popolazione italiana, con una sopravvivenza media a cinque anni dalla diagnosi di un tumore maligno del 57 per cento fra gli uomini e del 63 per cento fra le donne. I tumori costano circa 19 miliardi di euro ogni anno nel nostro Paese. Le uscite per i farmaci equivalgono a 4,5 miliardi (il 25 per cento del totale) con un incremento annuo di 400 milioni.

Il sistema sanitario italiano finora è riuscito a garantire a tutti i cittadini i farmaci anti-cancro innovativi. Dei costi associati alle patologie tumorali in Italia, pari a 18,9 miliardi di euro nel 2015, il 57 per cento è rappresentato dai costi diretti (per assistenza primaria, ambulatoriale, ospedaliera, pronto soccorso, controlli e farmaci) e il 43 per cento è costituito dalle perdite di produttività legate a mortalità, disabilità e pensionamento anticipato. Queste uscite sono destinate ad aumentare, perché il cancro è soprattutto una malattia della terza età. Nel 2017 sono state stimate nel nostro Paese circa 369mila nuove diagnosi di cancro: più del 50 per cento, cioè oltre 184mila casi, riguarda le persone anziane. Tra le nuove strategie terapeutiche in oncologia vi è l’impiego, per tempi prolungati, di chemioterapici e nuove molecole come le target therapies, ovvero dell’uso di molecole che hanno come bersaglio target molecolari variegati, con l’obiettivo di “cronicizzare” la malattia neoplastica attraverso una protratta inibizione della crescita tumorale. I nuovi farmaci antitumorali, associati ai tradizionali chemioterapici, consentono miglioramenti delle guarigioni e della sopravvivenza in percentuali ma hanno anche un peso importante all’interno della spesa farmaceutica nazionale. Infatti nel 2016 hanno rappresentato la prima categoria terapeutica a maggior spesa pubblica con circa 4,5 miliardi di euro.

Questo valore, anche se significativo, equivale solo al 25 per cento dei costi sanitari relativi ai tumori. Ogni anno in Italia il numero di malati oncologici – 3 milioni nel 2015 – cresce di oltre 90mila unità (+3 per cento), sia per la maggiore incidenza collegata all’invecchiamento della popolazione, ai fattori ambientali e agli stili di vita, sia, fortunatamente, per i progressi nella diagnosi precoce e nelle terapie che migliorano la sopravvivenza e cronicizzano la malattia. In Italia la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è più alta rispetto a quella dei Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, anche se abbiamo a disposizione meno fondi. La gestione dei costi rappresenta dunque una priorità. Per garantire la sostenibilità del sistema sanitario, la parola d’ordine è appropriatezza. Anche nel settore oncologico si deve procedere all’eliminazione di spese improprie, per rendere più efficiente l’organizzazione dei servizi e migliorare l’assistenza garantita ai cittadini. Uno dei punti critici è rappresentato dal collegamento e dall’integrazione di tutte le fasi del percorso assistenziale.

Costruire un sistema in grado di offrire cura e assistenza sanitarie, coniugando obiettivi di qualità ed appropriatezza a politiche economiche, è un impegno perseguito da tempo dai diversi attori siano essi responsabili della programmazione sanitaria, clinici, associazioni scientifiche o associazioni di cittadini. Attori molteplici perché non basta partire da una corretta analisi della domanda sanitaria, ma si deve anche tener conto del livello di soddisfazione dei pazienti (customer satisfaction) in termini di qualità percepita delle prestazioni e di espressione delle loro volontà. La partita che si sta giocando a vari livelli è importante. Il medico è stretto tra i bisogni del paziente e le esigenze economiche del rispetto dei conti pubblici: pertanto nella attuale realtà economica del Paese è essenziale ed urgente trovare un equilibrio tra la disponibilità di investimenti pubblici nella sanità e la necessità di mantenere livelli assistenziali qualificati a mantenere e migliorare la condizione di salute della popolazione.

Non est vivere sed valere vita est: la vita non è essere vivi ma stare bene.

@vanessaseffer

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Il venerdì nero dei medici

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Il venerdì nero dei mediciTemevamo un momento come questo in cui medici, anestesisti e dirigenti sanitari di tutte le regioni e in ogni capoluogo d’Italia avrebbero incrociato le braccia. Accade oggi, giornata in cui è stata organizzata una manifestazione unitaria per 24 ore, così come accade per i trasporti urbani ed extraurbani (metropolitane, bus, treni, aerei) quando ci bloccano il Paese. Ma questa è ben altra cosa. Cosa succede se ci sentiamo male, se abbiamo un incidente e ci portano al Pronto soccorso? Se accade a nostro figlio che va in moto, se succede a nostra madre che ha 80 anni? Le urgenze saranno come sempre garantite.

Oltre 40mila interventi chirurgici oggi saranno rinviati per la vasta partecipazione degli anestesisti prevista e il probabile blocco delle sale operatorie e lo stesso per diverse centinaia di migliaia di visite specialistiche e prestazioni diagnostiche. Bloccata anche l’attività veterinaria. Sarà assicurata solo l’attività del Pronto soccorso in urgenza.

Alla protesta aderiscono tutte le principali sigle sindacali di categoria, incluse le maggiori Anaao, Aaroi, Cimo, Fp Cgil Medici e Cisl Medici. “Partecipiamo allo sciopero in maniera convinta – ha dichiarato Biagio Papotto, segretario generale della Cisl Medici – perché neanche questo Governo ha messo tra le priorità dell’agenda la sanità. Non c’è il giusto finanziamento del Servizio sanitario nazionale, il contratto collettivo nazionale è fermo da 10 anni e non si capisce di chi sono le responsabilità per la mancata conclusione. Il contratto 2019-2012 non è stato finanziato adeguatamente”.

Diverse dunque le motivazioni della protesta, a partire dall’insufficienza del finanziamento previsto per il Fondo Sanitario Nazionale 2019 in relazione alla garanzia dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) e agli investimenti nel patrimonio edilizio sanitario e tecnologico. Ma non ci sono sufficienti risorse anche per l’assunzione del personale della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria. Inoltre, sono scarse le risorse assegnate al finanziamento dei contratti di lavoro. I ritardi amministrativi nei processi di stabilizzazione del precariato nel settore sanitario sono motivo di rossore per il nostro Paese. I contratti sono fermi da 10 anni, gli stipendi idem, la libera professione che non tutti riescono o non vogliono o possono praticare, serve a sopperire questo gap, quindi va sistemata la situazione, altrimenti è solo un cane che si morde la coda.

La carenza di organico nel 91 per cento degli ospedali, da un sondaggio fatto su un numero significativo di ospedali pubblici italiani, specialmente nei turni di notte, significa che la sicurezza dei pazienti è a rischio. Rischi di chiusure per i continui tagli, i risparmi (di chi?) e l’impossibilità di introdurre nuovi contratti di formazione specialistiche post laurea, perché troppo poche le borse rispetto agli stessi laureati. Ciò comporterà nei prossimi anni una sparizione di diverse figure specialistiche, a meno che non dovremo importarle dall’estero, come accaduto anni fa con gli infermieri a discapito della eventuale formazione. Invece, noi formiamo i nostri giovani, che ci costano centinaia di migliaia di euro pro capite, e questi poi non trovando collocazione vanno all’estero. Un dono che facciamo ad altri Paesi che si ritrovano un patrimonio unico a costo zero.

La mobilitazione di oggi è un urlo di dolore dell’intera categoria medica, ma anche un alert per i cittadini italiani che corrono un rischio gravissimo, di vedere compromesso uno dei motivi d’orgoglio più grandi che abbiamo: il Paese Italia è fra i primi tre al mondo in cui si vive più a lungo, si viene curati meglio, gratuitamente, anche se sei straniero e non hai documenti, se non hai soldi e un lavoro, se hai perso la memoria e pure se hai commesso un reato. Hai diritto comunque alle cure e non ti inviano il conto a casa come in altri Paesi. Vieni curato al massimo delle possibilità con il meglio delle tecnologie disponibili. Questo succede, nonostante tutto, in Italia!

@vanessaseffer

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Salute mentale: “La città che cura”, parla Ciani

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Salute mentale: “La città che cura”, parla Ciani“La salute mentale, come spesso la solitudine degli anziani, è una tematica molto trasversale”. È questa l’idea di Paolo Ciani, membro della Comunità di Sant’Egidio dal 1984, consigliere regionale del Lazio, esperto di politiche sociali. Nei giorni scorsi alla Regione Lazio si è tenuto un seminario dal titolo “La città che cura”, organizzato proprio dalla Comunità di Sant’Egidio, che in collaborazione con la Asl Roma 4 e il Comune di Civitavecchia, ha realizzato una rete di convivenze protette, residenze a costi sostenibili dove ci si può curare a domicilio, per persone con disturbi mentali e disagio sociale, guadagnandoci soprattutto in termini di qualità della vita e di rapporti umani. A questo incontro ha partecipato il personale sanitario del servizio pubblico, del privato convenzionato. Così come assistenti sociali, volontari, associazioni del privato sociale e della salute mentale. È stata una grande opportunità per riflettere sui diritti delle persone con disturbo mentale conquistati con la legge 180-1978 e su come “modulare i servizi della salute mentale affinché questi diritti (vivendo nel proprio ambiente, alle cure sanitarie territoriali, alla casa, al lavoro, alla famiglia), siano effettivamente garantiti”.

Il “malato di mente”, infatti, fino al 1978 non era un cittadino; la Costituzione era valida per tutti ma non per chi era internato e quindi privato di qualsiasi diritto. La legge 180, ricordata anche come legge Basaglia, ha consentito di chiudere in Italia i vecchi manicomi e di organizzare i servizi sanitari territoriali del Dipartimento di salute mentale. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, “per la piena realizzazione dei servizi della salute mentale c’è ancora tanto da fare, anche nella Regione Lazio, ma si può affermare che la legge 180 costituisce un faro e indirizza il cammino”.

Dottor Ciani, il tema della salute mentale deve restare solo un problema privato o no?

Si parla di emarginazione, di periferia. Ma anche di periferia esistenziale. Spesso la salute mentale non è periferizzata in termini geografici, ma è la periferia delle nostre attenzioni, e seppure talvolta il tema della salute mentale può anche nascere per problematiche diverse, non dobbiamo pensarlo come un problema solo degli individui, dei malati in prima persona, ma allargato alle loro famiglie, persino agli operatori. La proposta che noi facciamo di una città che cura è proprio questa, cioè di non soggettivizzare il problema, ma di condividerlo per risolverlo insieme. Perché spesso anche il dramma delle famiglie è quello di doversi sobbarcare da soli tante difficoltà, non solo quelle economiche, ma vale anche per gli operatori che spesso non sono sufficienti. Quindi noi abbiamo visto che laddove una città con le sue reti, con un ponte tra i servizi, le istituzioni, il volontariato, riesce a creare sinergia, una comunità riesce a risolvere i problemi relativi anche alla salute mentale.

C’è la paura che appartiene alla persona malata, che ha la famiglia e che ha la comunità. La città che cura deve fare i conti con la paura, perché non conosce, non sa e quindi perché non attivare anche dei meccanismi di conforto e di conoscenza sin dalla scuola?

C’è la paura che è lo stigma sociale. Noi abbiamo voluto fare questo incontro a quarant’anni dalla Legge 180, perché quella legge diede inizio a un grande cambiamento, il malato psichico, il matto, era la persona pericolosa, deviata, violenta. Quindi c’era una forte paura nei confronti di questo tipo di persona. Chiaramente questo non è superabile per decreto. Peraltro, noi viviamo un tempo di grandi paure, quindi il discorso di conoscere da un lato, di mettere a disposizione servizi e di creare reti che accolgano e che aiutino, può aiutare il malato, ma anche la comunità. Perché solo conoscendo, infatti, si superano le paure.

Crescere ai margini fa la differenza, ma alle volte dai margini vengono fuori personalità meravigliose, ne abbiamo di esempi anche dal mondo dell’arte, della cultura, della politica, addirittura della grande industria.

Questo è verissimo. Ho detto per dire che ci sono luoghi dove non ci sono esempi di una società aperta e accogliente la vita è peggiore. Ci sono studi medici che lo affermano, chi vive le periferie vive meno di noi. Basta pensare alle periferie del mondo, al sudest asiatico, all’Africa, ma anche a certe periferie urbane delle nostre città. Però è vero che laddove la periferia o il margine è umanizzato, non credo ad un razzismo sociale, e quindi che non ne venga nulla di buono. Ma per quanto sia vero che anche dai margini sono venute figure splendide, è anche vero che hanno dovuto combattere il doppio o il triplo rispetto ad un cittadino che ha vissuto più agiatamente. In realtà la nostra sfida oggi è quella di dare pari opportunità a tutti i nostri cittadini.

Quindi dobbiamo costruire un’alleanza fra cittadini, allearci fra noi. Ma dobbiamo forse fare un po’ di esercizio per questo!

Assolutamente sì. Questo diritto alla città è un diritto al vivere comune! Chi vive ai margini della città, pensiamo ai senza fissa dimora, ad alcuni anziani degli istituti, ad alcune persone con disagio mentale, che non hanno il diritto a vivere la città. Perché dalle barriere architettoniche, alla mancanza di luoghi di socialità, alla mancanza di possibilità di utilizzo degli spazi comuni, vivono continue privazioni, costanti disagi.

@vanessaseffer

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Buon compleanno dottor Kahn

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Buon compleanno dottor KahnSono passati esattamente dieci anni da quando venne pubblicato sulla prestigiosa rivista “New England Journal of Medicine” un articolo dal titolo “Etiquette-based medicine“. L’articolo scientifico venne ripreso a livello internazionale anche dalla stampa non specializzata ed ebbe una grande diffusione non solo in ambito sanitario e tra gli addetti ai lavori.

Michael W. Kahn, psichiatra di Boston, autore dell’articolo partiva da un assunto disarmante nella sua semplicità: Patients ideally deserve to have a compassionate doctor, but might they be satisfied with one who is simply well-behaved?

Si rimase stupiti all’epoca perché al di là di ogni valutazione sulla efficacia o meno delle varie tecniche di comunicazione, al di là anche di ogni accademica dissertazione sulla qualità del rapporto medico-paziente, veniva posto l’accento sulla buona educazione e sul timore che dal declino della stessa all’interno della società potessero derivare comportamenti che dapprima avrebbero minato il rapporto fiduciario e di empatia con la categoria medica ed in seguito addirittura avrebbero potuto innescare fenomeni di conflittualità che, l’esperienza insegna, hanno realmente prodotto negli anni successivi un esplodere di atti di violenza a carico degli operatori sanitari.

Eppure l’autore dell’articolo partiva dalla semplice constatazione, almeno nella percezione dei pazienti, di una mancanza di educazione da parte dei medici nell’approccio comunicativo. Infatti l’autore sosteneva, per la sua soggettiva e contestuale esperienza di medico e di paziente, che i pazienti fossero, almeno apparentemente, più attenti all’approccio rispettoso del medico, rispetto alla sua capacità di porsi in maniera empatica col malato. E che il problema fosse già presente almeno nella fase embrionale lo dimostra la discussione, avviata sin dai primi anni novanta all’interno del mondo accademico statunitense, dalla quale emergeva la consapevolezza che tra i fattori capaci di influenzare la formazione del medico rientrava a pieno titolo il costante declino del senso di responsabilità civica e delle buone maniere negli Usa.

Un problema quindi caratteristico della società occidentale affetta ormai da un carico di pressapochismo, di superficialità, di giudizio sommario che sembra avere permeato molti aspetti del vivere collettivo, dalla politica all’ambito lavorativo, per interessare anche i piccoli gesti della daily routine come, si dissertava qui su “L’Opinione” il rituale della colazione al bar con il non ricevibile “che prendi cara?”.

Maleducazione, impazienza, insensibilità e scorrettezza ormai si rincorrono e traggono potenziamento dall’alterato squilibrio del binomio doveri-diritti sempre più proteso in favore di quest’ultimo. In ambito sanitario il diritto da parte della persona malata di esercitare un pur legittimo ambito di autonomia decisionale nei rapporti col medico, la presenza di aspettative sempre maggiori in termini di salute personale, lo stress degli operatori ed il loro numero sempre più ridotto unitamente agli aumentati carichi di lavoro, rendono ragione del prevalere di atteggiamenti di intolleranza, di franca ostilità e di violenza come dimostrano le cronache quotidiane in merito soprattutto alle dinamiche dei Pronto soccorso dei nostri ospedali.

Non è semplice trovare una soluzione a tutto questo. Occorre agire su aspetti strutturali ed organizzativi ma anche, e non in maniera secondaria, sulla capacità di apprendere e comprendere emozioni e fragilità implementando percorsi di umanizzazione e coinvolgendo le associazioni di volontariato. E se intanto iniziassimo rimettendo l’insegnamento della educazione civica nei corsi scolastici delle scuole dell’obbligo?

@vanessaseffer

 

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