Meno suicidi nel carcere di Civitavecchia: parla Quintavalle

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Meno suicidi nel carcere di Civitavecchia: parla Quintavalle La situazione delle carceri italiane è sempre più drammatica, il tasso di sovraffollamento del 113,2 per cento (secondo il rapporto di Antigone sulle carceri presentato alla Camera dei deputati il 27 luglio del 2017) di cui solo sporadicamente si parla, è argomento che finisce poi per un certo tempo nel dimenticatoio perché non è pregnante durante le campagne elettorali. Ma è un altro l’aspetto su cui ci vogliamo concentrare: i suicidi nelle carceri, poiché i numeri sono preoccupanti ed è un argomento di cui è doveroso doversi occupare. Dal 2008 si contano 500 suicidi, nonostante il Piano nazionale per prevenirli. Da allora il Sistema sanitario nazionale (Ssn) è impegnato nel ricercare formule per ridimenzionare questi fenomeni di disperazione insieme all’amministrazione penitenziaria, che è comunque titolare del funzionamento delle carceri e della gestione dei detenuti. A farne le spese sono anche le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, perché trascorrere molte ore dentro a un carcere per lavorare non è facile.

Durante il XII Congresso Nazionale della Sips (Società Italiana di Psichiatria) su “Le nuove frontiere della psichiatria sociale: clinica, public health e neuroscienze”, tenutosi lo scorso gennaio a Napoli, riguardo agli eventi critici in ambito carcerario, sono stati messi a confronto i dati proposti da fonti autorevoli come Antigone, Ristretti Orizzonti, Dap, che analizzavano gli atti di autolesionismo, i tentati suicidi e i suicidi nelle carceri italiane negli anni 2015, 2016 e 2017. Questi dati ci hanno rivelato che in questi tre anni, fra le tante carceri italiane, nella Casa circondariale di Civitavecchia non ci sono stati casi di suicidio. Sappiamo già che in questo Istituto si svolgono tante attività socio-ricreative che certamente contribuiscono positivamente.

Abbiamo chiesto al direttore generale della Asl Roma 4, Giuseppe Quintavalle, che cosa fa della Casa circondariale di Civitavecchia (dove sono reclusi circa 400 detenuti uomini e 40 detenute donne), un posto così particolare.

Abbiamo iniziato a studiare fra il 2010/2011 i bisogni e le necessità di questo Istituto. La prima cosa che emergeva fino a quella data era che le responsabilità dei bisogni sanitari si riferivano al direttore dell’Istituto penitenziario e all’ordinamento del ministero di Grazia e Giustizia. Da quel momento iniziammo a creare il modello di sinergia, integrazione e formazione multidisciplinare, cioè dei tavoli di lavoro che focalizzavano obiettivi precisi: parlare tutti lo stesso linguaggio e iniziare a comprendere le dinamiche per lavorare al meglio. Così è stato consolidato con la mia nomina a commissario un tavolo centrale tecnico-politico che si riunisce ogni mese a cui partecipa il direttore dell’Istituto, il comandante degli agenti di Polizia penitenziaria, i referenti della Asl che stanno all’interno dell’Istituto penitenziario e il Garante dei detenuti, figura fondamentale che ho sempre ritenuto dovesse essere presente in tutte le attività. A latere si parla di salute mentale, dal momento che le attività carcerarie di tipo sanitario rientrano nelle attività di distretto. Ho voluto fortemente che all’interno del carcere ci fosse un Centro di salute mentale e che fossero direttamente i nostri medici che si occupavano di salute mentale nella nostra Asl ad andare a lavorare lì, dove c’era bisogno, in sintonia col mondo della psichiatria che già esisteva all’interno del carcere, con gli assistenti sociali, gli psichiatri, gli psicologi, gli educatori che facevano parte del vecchio ordinamento, costituendo il team insostituibile che c’è oggi, effettuando un grandissimo lavoro di cooperazione. Successivamente, con la partecipazione a dei tavoli regionali dove venne deciso che la Casa circondariale di Civitavecchia avesse come finalità quella di essere capofila per la salute mentale, iniziammo a sperimentare all’interno dei progetti pilota in materia di prevenzione a rischio suicidario. Abbiamo adottato all’interno un modello che era stato condiviso e concordato da tutti i Dipartimenti di salute mentale della Regione; modello che ha portato a dei benefici e dei risultati. Con questo modello sono venute delle ipotesi di lavoro che oggi si sono concretizzate con i “peer supporters”, che è alla seconda edizione. In pratica abbiamo formato dei detenuti tenendo dei corsi di formazione di tipo socio-sanitario e psicologico; detenuti che non sono utilizzati come delle badanti, ma sono persone che avendo già vissuto prima di altri una carcerazione o che sono già stati trasferiti da un carcere a un altro (poiché anche un trasferimento dà luogo a una forma di stress) possono individuare e segnalare un possibile rischio di suicidio, individuando qualche caso limite fra i compagni.

Come vengono individuati i soggetti indicati, hanno personalità dalle caratteristiche precise?

Non particolarmente, vengono scelti da un team multidisciplinare, da educatori, da assistenti, dal team del vecchio ordinamento, da psicologi e psichiatri della Asl, ne viene fuori un gruppo sempre più nutrito, bravo e capace in grado di segnalare delle situazioni a rischio. Il suicidio non si può prevedere, bisogna ricordare che i casi esistono all’interno come all’esterno, sappiamo che il suicida non sempre è un soggetto psichiatrico e che spesso i soggetti non sono mai ricorsi alla psichiatria e che si può trattare della debolezza di un momento o di un momento pregresso.

Questo schema si potrebbe riprodurre anche in altre case circondariali del Lazio?

Sì, il tavolo delle Regioni e il ministero hanno sancito un decreto in base al quale si inizia un lavoro che è in linea con ciò che abbiamo iniziato, ovvero con la stesura di piani locali per la prevenzione a rischio suicidario che attraverso varie azioni porteranno a ciò che vogliamo, cioè ad avere un occhio attento e una visione formativa condivisa da parte di tutti gli attori che entrano in campo, finalizzata alla migliore cura e al miglior trattamento. La Regione Lazio dovrà costituire un osservatorio per seguire tutti i piani locali per la prevenzione che sono in fase di stesura e che mi auguro porteranno a un discorso di insieme. Voglio ricordare che ogni struttura ha delle problematiche differenti; ogni struttura ha delle dinamiche contestuali da valutare. Non esiste un modello tout court, ma esistono dei modelli generalisti che poi devono essere applicati in maniera specifica.

Quanto ha inciso nelle sue decisioni sulla scelta di un Centro di Salute Mentale dentro il carcere, il fatto che lei è fra le altre cose uno psichiatra?

Il Centro di salute mentale di Civitavecchia, anticipando di 6/7 anni il sistema attuale, era già stato pensato, si stava già arrivando a questo. Mi viene in mente Rebibbia con le sue quattro strutture quasi autonome e indipendenti l’una dall’altra e la cui gestione non sempre è scevra di difficoltà. Quindi bisogna fare ancora molto, però si è iniziato un percorso virtuoso che mi auguro possa portare a un concetto di salute mentale nuovo.

I fondi ci sono per questi progetti?

Noi abbiamo lavorato su fondi regionali del Lazio. I fondi servono nella misura in cui devi adottare il reclutamento del personale. Il sistema organizzativo prescinde dai fondi, l’organizzazione nasce dalle persone. Anche nei momenti di vacche grasse i sistemi non è che funzionavano meglio. Io sono dell’avviso che non è tanto una questione di fondi. A volte lo è, ma a volte è una questione di organizzazione di sistemi. La cosa difficile è mettere a lavorare personalità diverse e soprattutto abituate a lavorare in maniera diversa.

@vanessaseffer

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Aspirina, dalla prevenzione cardiovascolare a quella oncologica

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Aspirina, dalla prevenzione cardiovascolare a quella oncologica Sono in corso da vent’anni studi osservazionali che mirano a trovare un’associazione fra l’uso di aspirina a lungo termine e un ridotto rischio di sviluppare alcuni tumori, come il cancro colon-rettale. Ogni anno in Italia 34mila persone si ammalano di carcinoma al colon retto e circa 17mila ne muoiono. L’ipotesi di ricerca su cui gli scienziati stanno lavorando, è che le piastrine siano coinvolte nelle fasi iniziali della cancerogenesi colon-rettale e che l’azione protettiva dell’aspirina possa inibire l’attivazione piastrinica. È interessante vedere come l’acido acetilsalicilico, comunemente chiamato aspirina, nato circa 120 anni fa, utilizzato come antipiretico per ridurre la febbre, come analgesico per dolori lievi e come antinfiammatorio, possa rappresentare un importante strumento d’indagine per comprendere alcuni aspetti della formazione di un tumore ed essere fondamentale nella prevenzione della sua ricorrenza. L’aspirina è oggi classificata come farmaco antiaggregante per il suo effetto fluidificante sul sangue. Ciò per merito del farmacologo professor Carlo Patrono, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che scoprì circa trent’anni fa che l’aspirina a basse dosi (75-100 mg) riduce la sintesi del trombossano, che è un potente aggregante delle piastrine, le quali sono fondamentali per l’occlusione e la formazione del trombo alle coronarie (infarto) o cerebrali (ictus). Dunque è proprio dal papà dell’“aspirinetta” che ci facciamo spiegare dove è arrivata oggi la scienza e se c’è una relazione fra l’esposizione all’aspirina e la ridotta incidenza di un certo tumore.

“Gli studi osservazionali consentono di stabilire che un’associazione c’è – spiega il professor Patrono – però non consente di stabilire che ci sia una relazione causa ed effetto fra le due cose che si è osservato. Ci potrebbe essere qualcos’altro che non conosciamo o che non è stato ancora misurato, che le spiega entrambe. Gli studi randomizzati consentono di avere causa ed effetto, perché con una distribuzione controllata randomizzi un certo numero di persone in modo casuale ad essere trattate con aspirina o placebo”.

Ma si guarda solo al cancro del colon-retto o anche ad altre forme tumorali?

Anche il cancro gastro-esofageo, i tumori alla prostata e al seno sono sottoposti a studi con evidenze molto più deboli, limitate a studi osservazionali, mentre quello al colon-retto adesso deriva da molteplici tipi di studi, ma anche su questi altri si stanno facendo studi randomizzati, non di prevenzione ma di trattamento. Per vedere se persone che hanno avuto diagnosticato un cancro del colon-retto, della prostata o della mammella, una volta aver subito il trattamento primario chirurgico o medico, vengono randomizzati ad assumere aspirina o placebo per 5 anni, per vedere se l’aspirina è in grado di ridurre il rischio di ricorrenza del tumore una volta che è stato curato, di prevenire metastasi o di aumentare la sopravvivenza.

Non a scopo preventivo o eventualmente per le metastasi?

Sì, questi sono alcuni degli studi, fra i quali uno molto grande che si sta facendo in Inghilterra su diecimila pazienti, ed è un trial clinico controllato, con tutti i crismi, randomizzato, per poter interpretare in maniera assolutamente univoca l’eventuale differenza in quello che osserveranno.

Cioè l’età, il genere, la differenza fra fumatori e non…?

Tutte queste cose citate possono influenzare quello che alla fine si misura e negli studi randomizzati tutte queste cose non pesano su quello che si osserva, perché sono egualmente distribuite nei due gruppi di trattamento, aspirina e placebo. Quando si randomizzano diecimila persone e le segui per 5 anni, ad esempio pazienti col tumore della mammella, randomizzate con aspirina o placebo, se in questi 5 anni si osserva che chi è stato trattato con aspirina sopravvive di più, anche un anno in più di chi è stato trattato con placebo, si può attribuire questa differenza al trattamento con aspirina e non ad altre cause, variabili, perché tutte le altre cause o variabili, sono assolutamente identiche nei due gruppi di trattamento proprio perché sono stati randomizzati. Poi riguardo all’aspirina ci sono altri pezzi di evidenza: il primo è che circa 15 anni fa, sono stati fatti 4 trials clinici controllati con placebo in persone che avevano avuto diagnosticato adenoma colon-rettale sporadico, molta gente dopo una certa età viene sottoposta a colonscopia per la prevenzione del cancro colon-rettale, perché la colonscopia può mettere in evidenza un adenoma sporadico, cioè non familiare, quindi chi la fa può rimuoverlo. Siccome spesso l’adenoma è un precursore di carcinoma, se si rimuove quello si riduce il rischio di sviluppo del carcinoma. Questi 4 studi sono stati fatti per vedere se l’aspirina era in grado di prevenire o ridurre il rischio di una ricorrenza di adenoma in persone in cui un adenoma colon-rettale sporadico era stato diagnosticato e rimosso, tutti studi limitati a 3 anni di trattamento con aspirina o placebo, la cosa interessante che tutti e 4 gli studi fatti da ricercatori indipendenti e con fondi pubblici, non sponsorizzati dall’industria, hanno dimostrato che l’aspirina è in grado di ridurre il rischio di ricorrenza di un adenoma. Il che non dimostra che sia efficace nel prevenire lo sviluppo di un carcinoma, però ci dice che l’aspirina fa qualcosa in una fase iniziale della cancerogenesi intestinale, cioè la fase in cui una mucosa intestinale apparentemente normale si trasforma in una lesione adenomatosa, che non è un cancro ma che può diventarlo nel tempo. Questo è un dato molto importante ed è solido, perché ha studi clinici randomizzati, controllati con placebo e non uno, ma quattro. Un altro pezzo di evidenza è un singolo studio inglese che randomizzato vs placebo in pazienti che hanno la sindrome di Linch, una forma ereditaria di cancro colon-rettale, persone che per il loro patrimonio genetico hanno un rischio elevatissimo di ereditare nel corso della vita un cancro colon-rettale. In questo studio, dopo un certo numero di anni di trattamento con aspirina vs placebo, si è visto che c’è un ridotto rischio di sviluppare un cancro al colon-retto. Questo interessa a quelle poche persone che sviluppano questa patologia, ma è un’evidenza che va nella stessa direzione. Un ultimo pezzo di evidenza è che un neurologo, Peter Rotwell che lavora ad Oxford, ha detto una decina di anni fa a quelli che avevano fatto trials clinici per la prevenzione cardiovascolare, di guardare i pazienti che sono stati trattati per 3, 5 a volte 10 anni con aspirina, anziché essere trattati con placebo, per vedere cosa è successo loro in termini di tumori e mortalità da tumori. Dal 2007 Rotwell e i suoi colleghi hanno iniziato a pubblicare una serie di studi su Lancet, ed hanno dimostrato che si osservava in maniera costante una ridotta incidenza di alcuni tumori, fra i quali il colon-rettale, con una ridotta mortalità di cancro colon-rettale.

Sono studi che si svolgono prevalentemente in Inghilterra?

Diciamo che lì hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo di questa storia. Quello che manca alla storia sono due cose: qual è il meccanismo d’azione dell’aspirina che dà l’effetto preventivo nei confronti dei tumori e qual è la dose che provoca questo effetto. Poi il gold standard nella medicina basata sull’evidenza è fare un trial clinico in cui è primario lo sviluppo del tumore o la sua mortalità. Si vuole dimostrare se l’aspirina è in grado di prevenire la ricorrenza del tumore una volta che sia stato diagnosticato e curato. Non possiamo dire “prendete l’aspirina per prevenire il cancro colon rettale” non c’è ancora una benedizione di tipo regolatorio a questo tipo di osservazione, l’equivalente europea dell’Fda americana, l’Emea (European Medicines Agency), non si sono pronunciate. Prima di dare messaggi bisogna ci sia una posizione ufficiale che ci dica che l’evidenza è sufficientemente robusta da giustificare una nuova indicazione nel foglietto illustrativo dell’aspirina, che dica che il farmaco può essere utilizzato per prevenire il cancro colon-rettale. Ma è anche vero che c’è un’organizzazione indipendente negli Usa, finanziata dal governo, che si chiama Us Preventive Services Task Force, che ha emesso raccomandazioni nei campi più diversi della medicina, che nel tempo aveva raccomandato l’uso di aspirina in prevenzione primaria cardiovascolare. L’anno scorso ha pubblicato nuove raccomandazioni che dicono che “alle persone di età fra 50 e 59 anni, che abbiano un rischio cardiovascolare stimato a 10 anni uguale e superiore al 10 per cento, che abbiano un’aspettativa di vita di almeno 10 anni, e che siano disposti a prendere aspirina almeno per 10 anni regolarmente, si raccomanda l’uso di aspirina per malattie cardiovascolari e cancro colon-rettale”. Questa raccomandazione ci dice indirettamente che la prevenzione del cancro colon-rettale è un beneficio aggiuntivo di un trattamento a lungo termine di aspirina, fatto per prevenire la malattia cardiovascolare. È una svolta che potrebbe essere seguita nel giro di 12/24 mesi anche da altre società scientifiche.

@vanessaseffer

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Ospedali: l’emergenza del sovraffollamento

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Come ogni anno in inverno, Pronto soccorso e reparti ospedalieri vengono letteralmente presi d’assalto e sommersi da un carico di lavoro che mette a dura prova il personale ospedaliero (medici, infermieri, operatori dei servizi), la tolleranza di chi deve fronteggiare l’emergenza e dei cittadini che necessitano di assistenza. Questa situazione non si perpetua soltanto nel nostro Paese, ma anche nel resto d’Europa. Pure negli Stati Uniti. Il taglio di numerosi posti letto, le assunzioni bloccate, la carenza di alternative all’ospedale, i ricoveri temporanei in altri reparti (in attesa che si liberi un posto), medici costretti a correre da un reparto all’altro per seguire il paziente dall’inizio alla fine e il personale infermieristico che deve occuparsi di pazienti di altri reparti, rendono il problema ancora più complicato. Tutto il personale è così sovraesposto ad un lavoro eccessivo, fuori dagli standard indicati dalle Regioni. Questo può inficiare la risposta assistenziale. Non si investe sui servizi alternativi sul territorio e sull’assistenza domiciliare; non c’è sufficiente collaborazione fra i medici di base e quelli ospedalieri per rispondere alle necessità dei cittadini, sostituendo in molti casi il ricovero negli ospedali e decongestionando così le strutture ospedaliere. Fino a che non si attivano questi servizi alternativi, tutto resterà sulle spalle del personale ospedaliero, che è già ben oltre il limite.

“Il sovraffollamento negli ospedali c’è sempre, ma la situazione più critica quest’anno si è verificata a Natale e solo adesso cominciamo a vedere luce – ci spiega il professor Claudio Modini, Ordinario di Chirurgia generale e direttore del Dai Emergenza e Accettazione del “Policlinico Umberto I” di Roma – C’è stata una specie di tempesta perfetta, un anticipo dell’epidemia influenzale che è arrivata circa 7/8 settimane prima del previsto, in contemporanea col periodo delle festività e con un peggioramento intorno all’1/2 gennaio, con poco personale in servizio perché in ferie o in congedo e l’influenza che ha colpito anche molte persone giovani, compresi medici e infermieri. Lo squilibrio tra calo del personale e carico del lavoro è diventato tale da determinare e non consentire una risposta ottimale”.

Professore, potrebbe non essere una coincidenza che il sovraffollamento ci sia nei periodi festivi, nei week-end e nei giorni più caldi quando le famiglie vanno in ferie?

In qualche misura forse sì, però abbiamo avuto un numero di accessi al Pronto soccorso sovrapponibile a quello dello stesso periodo negli altri anni, molti pazienti con polmoniti, con complicanze proprie di queste sindromi virali influenzali. Il problema del nostro Policlinico non è dei pazienti che vengono qui piuttosto che da un’altra parte; il problema è per i pazienti che hanno bisogno di essere ricoverati nell’ospedale.

Quali potrebbero essere le azioni da compiere sul territorio, per non andare direttamente in ospedale ed evitare questo ingombro, non credo che tutti i casi siano gravi o gravissimi? Evidentemente c’è qualcosa che territorialmente non funziona.

Noi cerchiamo di veicolare sul territorio quei pazienti che necessitano di un posto letto, il cui numero è la variabile fondamentale; noi abbiamo definito questo fenomeno “effetto Lampedusa” perché c’è un’analogia stretta dal punto di vista logico. Non possiamo respingere i pazienti come non possiamo respingere i migranti. Ma se il centro di accoglienza ha una capienza inferiore alle capacità, che sono molto mutevoli, è evidente che si crea una situazione di grande disagio. Se noi abbiamo centri di accoglienza con 1000 posti e arrivano 4mila persone si blocca tutto.

Mi scusi, ma un paziente italiano, che non viene dunque dall’Africa ma da qualche isolato dal Policlinico, può rivolgersi al suo medico curante prima di venire in ospedale, oppure alla guardia medica?

Chi ricoveriamo ha altro tipo di problema, questi pazienti hanno necessità di ricovero. Io ho una struttura con 8/9 posti in sala codice rosso, ma di solito ne accogliamo 10/12 e in più quelli che escono da lì che devono poi essere ricoverati. Gli ospedali non hanno questa capacità di risposta adeguata, anche avendo diverse decine di ambienti da sfruttare perché il personale è numericamente insufficiente. Abbiamo avuto dei picchi drammatici nei giorni scorsi. C’è un sito della Regione che in tempo reale dice quanti malati ci sono nei vari Pronto soccorso; noi abbiamo avuto anche punte di 160 pazienti. Oggi stiamo bene (relativamente) perché ne abbiamo 112. Bisogna sfruttare tutto al meglio, ma c’è una legge economica, c’è una curva, dopodiché il rendimento si riduce. Speriamo di avere una tregua perché ho avuto difficoltà con i turni di guardia, ho dovuto raddoppiare quelli degli infermieri. Tutti gli ospedali stanno nella nostra stessa situazione! Ospedali che di solito non hanno un grande afflusso, tipo il “Policlinico Gemelli”, giorni fa aveva anche 130 persone al Pronto soccorso. Quindi è un fenomeno molto intenso.

Quante persone può accogliere il Dea del Policlinico Umberto I in perfetto regime di accoglienza?

In perfetta norma, rispettando tutti i canoni di privacy, di pulizia, di turni e di tutta la copertura necessaria, circa 75/80 pazienti. Abbiamo avuto anche 156 pazienti alcuni giorni fa e allora lei capisce che in queste condizioni è quasi una guerra.

Dove le mettete queste persone in più, se ne avete 156?

Abbiamo aperto un reparto dove ne possiamo mettere un’altra ventina. La maggioranza comunque è gente che attende il posto letto, quindi che hanno una terapia impostata, che hanno bisogno dunque di tutti i confort di un reparto e il reparto non c’è. Abbiamo aperto nella notte un reparto giorni fa, dove abbiamo inserito una ventina di questi pazienti a rotazione, mano a mano che li ricoveravamo inserivamo gli altri, per farli dormire in condizioni dignitose, ma non a tutti ovviamente.

Il personale infermieristico e medico fa quindi i doppi turni?

Riguardo al personale, come ha detto alcuni giorni fa il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, sono degli eroi. Chiaramente sono tutti affaticati e stressati ma sono d’esempio. Questa è la situazione. Di base il problema c’è.

Chi si dovrebbe occupare di queste problematiche?

Io mi occupo del Dea. Chi se ne deve occupare sono le aziende. Quando io ho segnalato la nostra previsione per questi giorni, che avremmo avuto questa progressiva crescita, la risposta c’è stata. La Regione, il nostro direttore generale ha fatto delle disposizioni molto stringenti, ha mobilitato tutte le risorse che avevamo; siamo riusciti quindi ad uscirne senza avere conseguenze tragiche per i malati e per il personale. Il Policlinico è centrale nella città, l’età media degli abitanti che sono intorno all’“Umberto I”, rispetto a 10 anni fa, è invecchiata. Abbiamo una popolazione più anziana e sono quelli che hanno pagato le tasse e che ci permetteranno di avere la pensione. Ma sono pazienti polipatologici, che hanno bisogno di tante cose, quindi quando noi ci ritroviamo con 150 persone all’improvviso comincia a mancare tutto, anche i farmaci, ma tutto l’ospedale fa il possibile. Secondo gli esperti il picco non si è ancora esaurito. Se non ci fosse stata l’influenza avremmo avuto una situazione affrontabile. L’impatto è stato violentissimo in tutti i Pronto soccorso.

Di fondo c’è una disorganizzazione che porta queste problematiche o va tutto bene professore?

Il problema riguarda le risorse che vengono messe da una parte o dall’altra. Io non mi occupo di risorse e quindi non le so dire dove andrebbero messe. Se avessi 50 letti in più nell’ospedale avrei meno difficoltà.

Chi decide il numero dei posti letto e come muovere le risorse?

In parte i direttori generali, ma fanno quello che possono.

Chi li sceglie questi direttori generali?

In generale i direttori generali rispondono alla Regione.

La Regione e il ministero della Salute come fanno a sapere se ci sono o meno e quali di queste problematiche?

Convocano i direttori generali che danno certi indirizzi, ma certe abitudini è difficile cambiarle. Non è che si possono trasformare dei reparti di Medicina dove, a seconda della patologia, hanno 15 giorni di degenza media. Non si può chiedere di colpo con una disposizione di farli diventare da 10 giorni di degenza media; è un processo lento che ha bisogno di personale nuovo, di giovani, perché quando abbiamo contemporaneamente problemi di personale e di posti letto la situazione diventa difficile.

Quanto deve stare mediamente ricoverato un paziente per essere curato bene, reagire bene alle terapie, per poi lasciare il posto letto ad un altro paziente? Quali sono i tempi giusti?

I tempi giusti senza parlare di pezzi di carta, reali, per un paziente appena arrivato, sono di 6/8 ore per decidere se ricoverarlo o meno, e allo scadere delle 24 ore il posto letto lo dovrebbe avere. Se io adesso ho 40 pazienti in attesa di ricovero (ma ne abbiamo avuti anche 100), allora 100 malati o 50 in attesa di ricovero, sono l’equivalente di due o tre divisioni. I malati invece stanno lì. Io non ho l’organico o i posti letto di tre divisioni, ma devo curare quelli che arrivano! Io non faccio né l’amministratore né il politico, penso che sia difficile per tutti. Non conosco i problemi che sono in capo agli altri, se lei interroga i responsabili dei vari dipartimenti le diranno le stesse cose.

Ci potrebbe essere un problema legato all’accorpamento di alcuni reparti?

Se uno riduce – perché c’è il piano di rientro e dobbiamo risparmiare – la disponibilità di letti ma lascia gli stessi spazi e vabbè, quando c’è un momento di crisi aggiunge altri letti, ma se uno vuole veramente risparmiare deve accorpare i reparti, in maniera tale da limitare il personale.

Che ne pensa del caso di Nola che ha suscitato grande stupore, è un problema di tutto il territorio italiano?

Non è solo un problema italiano. Se lei va sul web e clicca “overcrowding” (sovraffollamento) vedrà che è un problema più diffuso di quanto si pensi nei Paesi occidentali. Anche in Francia con un sistema sanitario di assoluta eccellenza, come hanno dimostrato con la risposta che hanno dato al terrorismo, hanno dei problemi. A Nola hanno avuto 260 accessi in un ospedale da cento posti letto. È come se io avessi avuto 1000 accessi. Hanno fatto il massimo di quello che potevano fare. A Nola l’effetto Lampedusa c’è stato in maniera precisa. Sono arrivati quei pazienti e loro li hanno curati al meglio che potevano. Le prime critiche sono state assolutamente ingenerose.

@vanessaseffer

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Il primo licenziamento con la Legge Madia

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Applicata la legge nei confronti di un amministrativo di 54 anni, che prestava servizio presso uno degli sportelli dove si paga il ticket al Policlinico Umberto I, il più grande ospedale di Roma. M.M. timbrava e se ne andava, in barba ai suoi colleghi che dovevano coprire il suo turno e alla faccia delle migliaia di persone che disperatamente cercano un lavoro da svolgere dignitosamente.

Segnalato al direttore, M.M. è stato immediatamente richiamato e pare che in quella occasione non abbia neppure cercato di discolparsi. Il caso è stato velocemente inviato all’istruttoria disciplinare della Procura della Repubblica e della Corte dei conti, che nel giro di poche settimane hanno rilevato il dolo e permesso al dg dell’Università di firmare il licenziamento.

Qui nessuno è stato promoveatur ut amoveatur perché ritenuto “scomodo”, quindi da allontanare con lo stratagemma di una promozione, per eliminare chi ha sollevato il caso della pessima condotta dell’impiegato. Perché il male da estirpare era l’uomo che ha ingannato i suoi colleghi e superiori, l’istituzione per cui avrebbe dovuto lavorare e i cittadini onesti.

Quindi risalta all’occhio la circostanza di una dirigenza del Policlinico Umberto I che funziona, efficiente, e certamente “libera”, perché non introdotta politicamente ma per merito. Solo in casi così, che paiono un’eccezione, si può pensare che tutto funzioni.

Dunque, chi sono i dirigenti dei nostri Enti pubblici? Che tipo di provenienza hanno e perché loro stanno lì e non altri, cosa li rende così speciali? Quali sono i metodi per scegliere un direttore generale, la dirigenza degli enti? Quanti corsi, scuole, propongono studi in base ai quali si può diventare dirigenti? Possibile che da luglio la Legge Madia sia stata applicata solo adesso per la prima volta e che il caso del Policlinico Umberto I, che applaudiamo da giorni sui media come se fosse una enormità e non la normalità, sia il primo da allora?

Ci viene da pensare ai casi eclatanti tipo Sanremo, in cui quel tizio corpulento che andava al Comune a timbrare in mutande o inviava la moglie, ripresa in pigiama, a timbrare per lui. Oppure il caso di Milazzo e tutti quei numerosissimi casi in giro per il Paese, compresa Roma, dove molti timbravano fino a 10 cartellini per parare le spalle ai colleghi.

Di chi è la colpa di tutto questo? Se la dirigenza non funziona non possiamo auspicare cambiamenti in una direzione virtuosa.

@vanessaseffer

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Enzima Nox2, ne parla il prof. Francesco Violi

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Identificato da un gruppo di ricercatori dell’Università “La Sapienza di Roma” un enzima chiamato Nox2, che favorisce l’arteriosclerosi e quindi l’occlusione dell’arteria carotide, causa di ictus. Il team, diretto dal professor Francesco Violi, Ordinario di Medicina Interna e direttore della Prima Clinica medica del Policlinico Umberto I di Roma, ha condotto anni di studi che hanno portato all’eccezionale scoperta. La formazione di una placca che ostruisce il passaggio del sangue impedendo di raggiungere i distretti di irrorazione periferica, il sistema nervoso centrale, è una condizione frequente soprattutto fra chi ha fattori di rischio, specie l’ipertensione, il diabete, il colesterolo alto, chi fuma e chi ha familiarità per malattie cerebrovascolari come l’ictus. Non c’è una differenza di età. Anche una persona giovane che ha il diabete deve fare il test, così come chi non ha fattori di rischio ma ha la familiarità per ictus. La ricerca è stata pubblicata su “Atherosclerosis Thrombosis Vascular Biology”, la rivista scientifica ufficiale dell’American Heart Association.

Studi durati cinque anni, da quando i ricercatori hanno esaminato pazienti affetti da carenza ereditaria dell’enzima Nox2, cioè della malattia granulomatosa cronica con deficit completo (che attacca i bambini maschi, in quanto legata al sesso). Successivamente le indagini sono state estese anche alle loro mamme (che hanno un deficit parziale con un’attività del 50 per cento di questo enzima). La raccolta dei dati è avvenuta nei centri italiani specializzati che studiano questa malattia – molto rara nei bambini (un caso su un milione di soggetti che vanno incontro continuamente a infezioni) – che hanno permesso ai ricercatori della Sapienza di Roma (nella foto) di studiarli, valutarne l’attività, la dilatazione delle arterie e poi lo spessore della carotide, l’arteria che va al cervello. Questi dati sono stati confermati da un gruppo di studiosi americani un anno dopo dalla scoperta dei ricercatori della Sapienza, attraverso la risonanza delle carotidi.

Si arriverà al farmaco professor Violi?

Sì, ma la cosa principale è mettere a punto il metodo che noi al Policlinico Umberto I abbiamo per individuare i soggetti che possono essere a rischio, per cui è ipotizzabile che quando l’enzima è molto attivato il rischio di placca è maggiore. Il secondo aspetto è il farmaco che penso troveremo nel giro di uno/due anni.

Che indagini si fanno per scongiurare la presenza di una placca?

Analisi del sangue e delle urine e un’ecografia. Poi si misura l’enzima e se questo è elevato dice che la placca può progredire di più rispetto a chi ha un enzima la cui attività non è molto alta.

Quando si deve operare una placca?

Quando è al 70 per cento di stenosi anche in assenza di segni clinici.

Chi ha un’ostruzione del 35/40 per cento può condurre una vita normale?

Normalissima, ma deve controllarsi spesso.

Una placca operata può riformarsi?

Certamente, dopo l’intervento di rimozione va tenuta sotto controllo.

Come si può prevenire la placca alla carotide, si può evitare?

Controllare la pressione e fare in modo che resti bassa, questo è il fattore di rischio principale. Poi cerchiamo di capire se si può intervenire farmacologicamente qualora l’enzima fosse aumentato, per ridurre l’attività. Non sappiamo ancora se altri strumenti possono essere efficaci: alcuni tipi di dieta, lo sport, il fumo, tutte cose che vedremo nel prossimo futuro.

Ci spieghi bene la faccenda dell’enzima.

L’enzima ce lo abbiamo tutti. Serve perché uccide i batteri, ma è presente anche nelle arterie. Era noto il suo effetto battericida perché è un enzima che produce radicali di ossigeno che servono per uccidere i batteri che con i virus provocano le infezioni, come la polmonite, le cistiti. Non avere l’enzima predisporrebbe ad infezioni gravissime. Quei bambini che abbiamo analizzato muoiono per banali infezioni. Le loro mamme sono invece portatrici sane (hanno un’attività ridotta del 50 per cento), quindi non vanno incontro a malattie infettive. In questo modo abbiamo potuto studiare due attività ridotte diverse, una totale e una parziale, però in tutti e due i casi rispetto al gruppo di controllo, questi soggetti avevano un minore inspessimento della carotide. L’originalità della ricerca è che noi siamo partiti da un enzima che serve per i leucociti, ma siccome c’è nelle arterie, siamo andati a studiare queste comprendendo che quando l’enzima è poco espresso c’è meno inspessimento della carotide. Questo sta ad indicare che l’enzima predispone ad un aumento dello spessore della carotide. L’enzima di solito ce l’abbiamo tutti. Ci sono persone che ce l’hanno di più e, fra questi, quelli che lo esprimono di più sono quelli più a rischio di arteriosclerosi carotidea. In questo senso, questa scoperta servirà come primo aspetto per mettere a punto un sistema diagnostico per cui si potrà attraverso un prelievo di sangue misurare la Nox2 che, se fosse elevata, presenterebbe un soggetto a rischio, che se avesse già una placca, sapremo quanto velocemente progredirà. Poi si penserà al farmaco.

Quando ha iniziato a studiare questo processo?

Quindici anni fa studiando le cellule del sangue. Volevo studiare l’effetto dell’enzima sulle piastrine. Poi ho pensato all’arteriosclerosi.

@vanessaseffer

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