Carenza medici: non c’è programmazione

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Carenza medici: non c’è programmazioneUna bomba ad orologeria è ormai innescata nella sanità pubblica del Paese e il tempo sta scorrendo velocemente senza quasi che i media, la politica e il grande pubblico ne abbiano consapevolezza. Solo tra gli addetti ai lavori sembra alzarsi alto il grido di allarme fatto proprio dal mondo delle organizzazioni sindacali di categoria nella loro interezza e, almeno in questo caso, senza divisioni al proprio interno. Il paventato pericolo di un progressivo impoverimento del personale medico operante nel sistema sanitario nazionale (Ssn) per il sopraggiungere di uno scalino pensionistico, è ormai una realtà concreta. Ragionando su dati Miur, Istat, Enpam e Fnomceo la realtà attuale per quanto riguarda le dinamiche pensionistiche evidenzia come circa 48mila medici nati nel decennio 1950-1960, ed oggi ancora attivi nel Ssn, hanno già maturato o matureranno i criteri previsti dalla legge “Fornero” nel decennio 2016-2025. Secondo i dati della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri i medici attivi in Italia al 2016, di età inferiore ai 70 anni, erano circa 354mila dei quali quasi 102mila unità attivi a vario titolo nelle aziende sanitarie locali.

Si tratta di una fascia di età per le quali il riscatto previdenziale degli anni di studi universitari era facilitato da un versamento economico mensile sostenibile; inoltre, l’assunzione avveniva precocemente dopo il conseguimento della laurea in Medicina e Chirurgia, dato che non vi era l’obbligo, come invece avviene attualmente, di possedere il titolo di specializzazione per essere assunti nel Ssn. A questa situazione consegue direttamente il rischio di un decadimento nella qualità dei servizi erogati proprio a causa della perdita di medici esperti e in possesso di elevate capacità professionali e di quella esperienza “sul campo” che è fondamentale per la tutela della salute di ognuno di noi. Nel decennio 2016-2025 i cessati attesi complessivi sono stimabili in oltre 55mila unità, un numero di poco inferiore rispetto a quello complessivo di nuovi specialisti che completeranno l’iter formativo specialistico nelle università nel decennio considerato, previsti in oltre 57mila, secondo un dato desumibile dalla media annuale dei contratti Miur degli ultimi tre anni: 5.711 contratti di formazione specialistica. Il dato però merita la massima attenzione perché, basandosi esclusivamente sul numero complessivo, questo risulta essere fuorviante poiché l’apparente equilibrio tra futuri cessati complessivi (medici ospedalieri-universitari-specialisti ambulatoriali) e futuri neo-specialisti, non potrà essere risolutivo a motivo dell’esistenza del doppio imbuto, formativo e lavorativo.

Nei prossimi dieci anni i numeri previsti di contratti specialistici Miur, considerando la media degli ultimi tre anni, garantiranno un equilibrio per le categorie degli universitari e degli specialisti ambulatoriali, non per gli specialisti dipendenti del Ssn, sia ospedalieri che territoriali. Questo si spiega perché la componente ospedaliera e dei servizi dipendente del Ssn che andrà in quiescenza sarà preponderante sulla componente degli universitari e specialisti ambulatoriali (oltre 47mila cessati Ssn versus gli oltre 8mila cessati per le altre due categorie intese in maniera accorpata per facilità di calcolo). Inoltre, se consideriamo quali tipologie di specialisti andranno in pensione, ci accorgiamo che per alcuni di essi, in maniera particolare internisti, pediatri, chirurghi generali e ginecologi, per non parlare della carenza attualissima e drammatica di medici dell’emergenza e pronto soccorso che rappresentano nel Ssn la prima linea di fuoco, e tutto questo per motivi noti che però l’evidenza insegna si è ancora restii ad affrontare (altri costi assicurativi, stipendi non adeguati alla complessità del lavoro ed ai rischi connessi, aumentato contenzioso medico legale, aumentata conflittualità con i pazienti a volte sfocianti in veri e propri atti di violenza nei confronti degli operatori).

È questo uno scenario estremamente complesso nel quale insistono, un ormai decennale mancato turnover che ha determinato gravi vuoti nelle dotazioni organiche e il già evidenziato mancato ricambio generazionale. Tali carenze sono ulteriormente emerse con la necessità di essere ottemperanti alle direttive europee sull’orario di lavoro come previsto con la Legge numero 161 del 30 ottobre 2014. A tutto ciò si aggiunge il mancato rinnovo del contratto ai medici e ai dirigenti, che accentuerà la fuga dei camici bianchi. Ci si lamenta che non ci saranno medici in futuro, eppure non ci sono stati sufficienti accantonamenti per dare dignità alla professione dei medici. La Cisl medici si batte da tempo per far comprendere che la sanità non è un costo ma un fattore produttivo. Dalla politica, dal ministro della Salute e dalle regioni sembra esserci disinteresse totale su questo tema. D’altra parte, i nostri medici non sono certo stimolati a rimanere in servizio, considerando che tra i fattori che invitano ad uscire dal Ssn vi è anche la bassa probabilità di raggiungere posizioni apicali, i cosiddetti primari, anche a motivo della costante diminuzione dei posti disponibili di direttore di struttura complessa a motivo degli accorpamenti o dell’abolizione di tali strutture per motivi economici o semplicemente politici.

Inoltre, l’età media dei nostri medici è di circa 55 anni e ad oggi non si è dato seguito ad una indicazione contrattuale a seguito della quale ai professionisti con più di 55 anni di età si sarebbero dovuti evitare i turni di guardia notturna. Cosa questa peraltro impossibile considerato che negli ospedali e nelle Asl la difficoltà di godere delle ferie e perfino dei turni di riposo è evidenza derivante anche dall’aumento della conflittualità tra professionisti ed aziende. È del tutto palese che un medico cui è stata tolta una valida aspettativa di carriera, privato di gratificazioni professionali anche di tipo economico, costretto dalla carenza di organici e dalla necessità nei servizi ospedalieri di garantire una assistenza nelle 24 ore con stressanti turni di guardia ed una gravosa mole di lavoro straordinario, in presenza di condizioni di elevato rischio professionale, appena ne ha la possibilità previdenziale si ritira in pensione ed inizia o continua a svolgere attività di tipo esclusivamente privata.

La gravità della situazione è tale che ogni anno aumenta il numero di medici che fanno domanda per lavorare all’estero e poi finiscono realmente per andare a lavorare in altri Paesi europei, negli Stati Uniti, e, molto recentemente, nei Paesi arabi attirati da stipendi assai elevati. Secondo i dati Istat, i professionisti del settore sanitario che hanno chiesto al ministero della Salute la documentazione utile per esercitare all’estero sono passati da 396 nel 2009 a 2.363 nel 2014 (+ 596 per cento). Il dato è talmente clamoroso che non può non fare riflettere. Ormai circa mille laureati o specialisti emigrano ogni anno. Peraltro, bisogna tenere conto che per formare ogni medico il Paese investe circa 150mila euro l’anno. In termini economici, è come se regalassimo un migliaio di “rosse di Maranello” all’anno agli altri Paesi europei ed extra europei. Chiaramente il danno che ne risulta è solo apparentemente di tipo esclusivamente economico perché ci impoveriamo in senso letterale di cervelli e di saperi professionali, sottratti allo sviluppo scientifico e culturale del nostro Paese, salvo poi, a sequenza regolare, pontificare sulla necessità di fare rientrare i cervelli nel nostro Paese. La soluzione è evidente: cerchiamo di non farli partire.

@vanessaseffer

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Tex, 70 anni di un mito in mostra a Milano

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Al Museo della Permanente di Milano fino al 27 gennaio del 2019 si tiene la mostra “Tex. 70 anni di un mito”, curata da Gianni Bono, storico e studioso del fumetto italiano, in collaborazione con la redazione di Sergio Bonelli Editore. Mai titolo è stato più appropriato per celebrare quello che è sicuramente il più amato eroe del fumetto di ideazione e produzione italiana. Ancora poche settimane per immergersi nell’epopea del West, della frontiera americana, e passare alcune ore in compagnia dei fedeli pards Kit Carson, Tiger Jack e Kit Willer “cavalcando” al loro fianco, lungo il continente americano nella continua sfida del bene contro il male rappresentato da: Mefisto.

È il 30 settembre 1948, quando nelle edicole italiane arriva il primo albo, nel formato a striscia di Tex, il personaggio con “due padri”, il creatore Giovanni Luigi Bonelli e il primo disegnatore Aurelio Galleppini. Nessuno può prevedere che il ranger con la camicia gialla diventerà l’amatissimo eroe del fumetto italiano e uno dei più longevi a livello mondiale, vantando numerosi tentativi di imitazione venuti meno nel volgere di “poche lune”, come avrebbe detto il grande e saggio amico Cochise capo della tribù Apache. A Galleppini si sono succeduti straordinari artisti della matita e del pennello e Tex è diventato un eroe, un mito, un’icona.

Un’impresa e un grande onore cimentarsi nella sfida di disegnare Tex variando, magari, alcuni tratti somatici ma senza intaccare, anche nella grafica, quel grande senso di giustizia che traspare in ogni singolo sguardo, in ogni singola ruga del volto. E la mostra di Milano è un gradito ritorno a casa del nostro eroe che ha valicato il confine, non quello messicano o canadese come nelle mille avventure di cui è stato protagonista. Va ricordata anche la precedente esposizione di Lugano nell’ottobre 2015. Chi abbia voglia di avventurarsi nella mostra milanese troverà in esposizione disegni, fotografie, oggetti rarissimi, nonché installazioni a tema, create, esclusivamente, per questo evento e che consentiranno di personalizzare il dialogo con il ranger. Si tratta di un paio di sorprese che ci faranno tornare il buon umore verso la fine del percorso. Prima di sederci di fronte ad una “bistecca alta tre dita ed una montagna di patatine fritte”. Per omaggiare l’immancabile richiesta di Tex Willer e Kit Carson, in occasione della sosta in qualche saloon per ritemprare lo stomaco. “Tex. 70 anni di un mito” è una mostra dedicata, non solo ai cultori del personaggio, ma anche a chi abbia intenzione di avvicinarsi, magari per la prima volta, al mondo fermo e risoluto di un eroe senza macchia e senza paura, che è riuscito a diventare, grazie alla passione e all’amore di milioni di appassionati lettori, un vero e proprio fenomeno di costume, un simbolo costante dell’antirazzismo ed il nemico acerrimo di ogni forma di ingiustizia.

Un in bocca al lupo a voi eroi che cavalcate nella prateria. A Tex, a Kit Carson, a Tiger e a Kit Willer, affinché dopo il lungo e polveroso percorso, possiate trovare un buon saloon per una birra ghiacciata e un albergo che sia almeno un po’ meglio di una catapecchia.

@vanessaseffer

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Sanità privata e sanità pubblica, ne parla Jessica Faroni

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Sanità privata e sanità pubblica, ne parla Jessica FaroniUna struttura sanitaria accreditata è una struttura privata che ha stipulato una convenzione con il Sistema sanitario nazionale (Ssn), dunque eroga le prestazioni sanitarie chiedendo al cittadino il solo pagamento del ticket. Ma come fa una struttura privata ad accreditarsi? È l’autorità sanitaria delle singole regioni ad individuare le strutture che secondo loro sono in grado di garantire il livelli essenziali di assistenza, di valutare l’idoneità delle stesse, di assicurarsi che siano qualificate e di accertarsi dell’efficacia e dell’appropriatezza dei risultati, fissando il volume massimo delle prestazioni da rendere nell’ambito della competenza territoriale della medesima azienda sanitaria locale.

Chiedo a Jessica Faroni, medico-chirurgo, neurologo, riconfermata presidente dell’Associazione italiana ospedalità privata Lazio (Aiop), manager sanitario e a capo del Gruppo Ini (Istituto neuro-traumatologico italiano) presente con dieci strutture accreditate nel Ssn nel Lazio e in Abruzzo, di farci comprendere meglio quali rapporti ci siano effettivamente fra il pubblico e il privato convenzionato, o meglio, accreditato.

Che differenza c’è fra l’ospedale pubblico e il privato accreditato?

Di fatto la sanità privata accreditata è una sanità pubblica con tutti quanti i doveri del pubblico, con la differenza che la proprietà è del privato. I criteri qualitativi devono essere gli stessi, perché si fornisce un servizio pubblico. La legge è uguale perché è sempre Sistema sanitario nazionale (Ssn). La differenza consiste nella proprietà: una è pubblica e l’altra è privata.

Che cosa funziona davvero e che cosa non funziona sia nell’ospedale pubblico che nel privato accreditato?

Entrambi risentiamo fortemente del problema del contratto di lavoro, poiché abbiamo i contratti nazionali. Il fatto è che è poco prevista sia la meritocrazia che il licenziamento di persone che effettivamente non ci dovrebbero stare. Quindi siamo costretti ad un ricambio molto lento e soprattutto a non usufruire di nuove risorse, uno dei motivi per cui assistiamo alla fuga dei cervelli dal nostro Paese. Noi non possiamo licenziare una persona su due piedi. Indubbiamente per noi è più facile gestire una struttura con trecento persone piuttosto che di 1.800, però siamo sottoposti esattamente alla stessa problematica.

E il personale come viene selezionato?

Esattamente come fa il pubblico. Tramite concorso. Poiché le figure che devono stare sia nel pubblico che nell’accreditato sono le stesse, con gli stessi titoli, con gli stessi curricula.

Vi capita, soprattutto fra il personale infermieristico, di dover attingere dall’estero?

Ancora qui nel Lazio questo tipo di utilizzo di lavoro è poco sviluppato, facciamo più uso delle cooperative. Nelle cooperative può capitare che qualcuno dell’estero ci sia. Ma non è un fenomeno così sviluppato, non come in alcuni posti del nord.

Ci sono troppi sprechi nel pubblico, nelle analisi, negli esami diagnostici.

Da noi va esattamente come nel pubblico. Perché essendo pagati noi con l’impegnativa quindi con la prescrizione, risentiamo al pari del pubblico. Tant’è che abbiamo anche noi le liste d’attesa lunghissime. E del fatto che c’è ad esempio un utilizzo sbagliato della medicina difensiva. Infatti questa oggi è il costo maggiore per l’Italia, in quanto si preferisce fare più analisi, visto poi il contenzioso che può scaturire da qualsiasi paziente. Per cui diciamo che è una protezione del medico. E anche questo crea liste d’attesa. Un medico di base che chiede una visita urgente, spesso lo fa perché suscettibile di pressioni da parte di un parente. Ci andiamo di mezzo tutti: medici di base, pubblico, privato accreditato. Poi noi, tra l’altro, abbiamo un budget e più di tanto non possiamo fare. Così le liste si allungano.

Le liste d’attesa sono un problema molto serio. Rappresentano uno dei motivi che scatenano le aggressioni contro i medici e gli operatori sanitari, sempre più frequenti. Come si può risolvere il problema?

Bacchetta magica a parte, ci sarebbero due rivoluzioni del sistema a mio parere. Innanzitutto, la richiesta dovrebbe essere fatta secondo altri criteri, non secondo pressioni o medicina difensiva, ma sotto la reale esigenza che ha il paziente. In secondo luogo, bisognerebbe investire un po’. Ad esempio, in America sono di uso frequente i referral, specialisti che “h24” stabiliscono se i pazienti debbano essere visitati o meno, facendo una selezione a monte. Nei provvedimenti che sono stati presi di aumentare le ore di lavoro e le aperture degli ambulatori, più si crea offerta e più le liste si allungano. Se io aprissi gli ambulatori delle cliniche e avessi libertà di budget, giorno e notte per tutta la settimana, li riempirei.

Che cosa manca alla struttura privata accreditata per sostituire appieno quella pubblica?

Non si possono sostituire. Non può esistere pubblico senza privato, né privato senza pubblico. È un lavoro assolutamente di supporto e complementare. È vero che ci sono esempi di strutture private come il San Raffaele di Milano che sono più che autonome e funzionano bene. Ma è anche vero che l’Italia è fatta da venti regioni che hanno leggi diverse. Faccio un esempio, qui nel Lazio è vero che ci sono molti privati ma tante specialistiche non le possiamo fare, e non potendole fare dobbiamo essere per forza di supporto a tutto quel mondo che ha quella specialistica che fa soltanto l’ospedale.

Invece l’ospedale cattolico funziona meglio della struttura pubblica o del privato accreditato?

Anche lì hanno gli stessi problemi nostri. Ma è chiaro il “Gemelli” ha un potere contrattuale diverso.

La struttura privata accreditata come si muove con i bambini e gli anziani?

Il 44 per cento della sanità privata accreditata fornisce cure di supporto alle categorie più deboli. Gran parte delle Rsa e gran parte dei bambini ex articolo 26 fanno capo al privato convenzionato e questo, è fondamentale, con costi minori rispetto al pubblico. Va capito che noi siamo uno Stato che investe poco in sanità perché siamo molto bravi. Sia nel pubblico che nel privato. Perciò parlo di complementarità. Se l’Umberto I si occupa di un’appendicite, un’altra struttura convenzionata ne fa tre, perché riusciamo di più a contenere i costi dando la stessa qualità. Se questo lo si pone sull’assistenza territoriale e sulle categorie deboli è evidente che lo Stato non si può permettere una spesa così grande su una popolazione debole che sta crescendo. Noi siamo il Paese più vecchio d’Europa. Non possiamo fare un investimento che poi non ci possiamo permettere. Per cui deve subentrare il privato, che riuscendo a lavorare con costi contenuti, può dare una qualità eccezionale sia nel pubblico che nel privato. Lo dice pure la relazione di Bloomberg, siamo tra i migliori al mondo utilizzando la metà dei soldi degli altri Paesi.

Qual è lo stretto rapporto pubblico-privato?

In realtà, sia nel pubblico che nel privato curiamo migliaia di persone e ciò avviene in perfetta armonia. Noi abbiamo la funzione di svuotare gli ospedali da tutto quello che è il cronico, ce lo prendiamo e questo avviene tramite fax, tra ospedali e strutture. Succede continuamente nel quotidiano, per migliaia di persone. Il paziente, nel momento in cui viene ricoverato in ospedale, viene curato a 360 gradi sia dal pubblico che dal privato.

Per queste comunicazioni usate ancora il fax?

Si, per essere più sicuri e lasciarne traccia. Se il Signor Rossi ha bisogno di essere spostato domattina, la caposala invia un fax a tutte le strutture private dei dintorni nella notte e bisogna che la mattina sia già stato trovato il posto. Quindi o c’è la telefonata fra i primari delle strutture o la richiesta via fax per cui rimane sempre una traccia. Il fax rende proprio l’idea del fatto pratico del rapporto che si innesca fra strutture.

@vanessaseffer

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Crotone: dottoressa aggredita davanti all’ospedale

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Crotone: dottoressa aggredita davanti all’ospedaleIeri a Crotone al termine del suo turno all’ospedale civile San Giovanni di Dio, un medico, che presta servizio presso l’unità complessa del nosocomio calabrese, appena uscita dalla struttura è stata aggredita da un cinquantenne crotonese che l’attendeva con il volto e la testa coperti da un cappuccio e da una sciarpa, colpendola al collo con un cacciavite. A salvarla da un altro fendente è stato un ambulante marocchino che sosta quotidianamente con la sua bancarella per vendere oggetti per automobili proprio davanti all’ospedale. Cercando di aiutare la dottoressa, lo straniero ha chiamato prima i sanitari che sono accorsi e l’hanno ricoverata in codice rosso e subito operata, e poi ha inseguito il malfattore bloccandolo su un bidone della spazzatura fino all’arrivo della polizia. La dottoressa, fortunatamente, non è in pericolo di vita.

A proposito dell’orrenda violenza subìta da un’altra dottoressa tempo fa a Trecastagni, in provincia di Catania, era intervenuto qualche tempo fa il segretario nazionale della Cisl Medici, Biagio Papotto: “Quello che a noi preme far notare è che non possiamo prendercela solo con il Governo centrale. La scarsità di risorse economiche, infatti, è grave e reale, ma da sola non può bastare a chiudere il discorso. Questo consentirebbe a tutti i poteri intermedi di riposare tranquillamente sugli allori, e invece la Cisl Medici vuole chiarire che non lascerà correre alcunché. Non accetteremo alibi di alcun tipo da parte di tutte quelle figure decisionali, Regioni, assessori alla Sanità, direttori generali e amministratori vari, che potrebbero e dovrebbero fare di più, molto di più. Anzi: che dovevano e potevano aver già fatto molto di più. Non siamo affezionati all’idea di dotare ciascun presidio di un vigilante. Questo aumenterebbe di sicuro i costi per la collettività, ma se fosse il rimedio risolutivo, ben venga. Però diverse articolazioni degli orari, presenze più concentrate, soluzioni logistiche più centrali e visibili, tutto questo potrebbe costare davvero poco e mostrare che qualcuno si guadagna in modo degno lo stipendio che percepisce senza correre il rischio che una donna-medico conosce ogni giorno. Ci prepareremo a costituirci parte civile in ogni procedimento giudiziario che scaturisse dalla trascuratezza delle amministrazioni locali. Ora basta. Quando si dice che il medico dona la vita non si intende di perderla”.

Nello stesso ospedale di Crotone, lo scorso agosto, venne brutalmente picchiato un anestesista da un’intera famiglia, che riteneva non avesse fatto abbastanza per salvare la vita al loro ragazzo. La vicenda aveva suscitato molto sdegno da parte della comunità e nei giorni successivi l’ospedale aveva provveduto ad aumentare per un po’ la sorveglianza interna ed esterna, ma poi tutto è rientrato nella solita normalità.

@vanessaseffer

 

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Fantastichini nel ricordo di Haber

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Una serata dedicata ad Ennio Fantastichini. Ieri sera al Cinema Farnese, Alessandro Haber ha dedicato la proiezione del suo film, “In viaggio con Adele”, al grande attore scomparso improvvisamente, sabato 1 dicembre, a 63 anni. La Casa del Cinema di Roma accoglie oggi amici e parenti di Fantastichini, per l’ultimo saluto. La camera ardente sarà aperta dalle ore 15 alle 19.30 presso la struttura del parco di Villa Borghese. È previsto un ricordo pubblico intorno alle ore 18. Alle ore 20, inoltre, verrà proiettato il film “Mine vaganti”, diretto da Ferzan Ozpetek, grazie al quale Fantastichini ha vinto nel 2010 il David di Donatello e il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista. Haber ha ricordato l’amico pronunciando parole meravigliose, e ricordando la loro lunghissima amicizia. Fantastichini è stato omaggiato da un lunghissimo applauso dai numerosi presenti che hanno affollato la sala.

“In viaggio con Adele” sarà presto in visione su Sky. Il lungometraggio interpretato da Haber e Isabella Ferrari è l’opera prima di Alessandro Capitani. Una commedia italiana dolcissima che sfiora la sindrome di Asperger. “Ci siamo tenuti molto larghi con questa malattia – sostiene Haber – nel senso che non abbiamo voluto definirla esattamente, una malattia neurodiversa. La protagonista è una persona che ha dei disturbi e che non ha nessun tipo di pudore. Una bambina cresciuta che ha assimilato nozioni, che vive in maniera molto istintiva, senza riserve. Come se fosse una ragazzina che dice sempre quello che pensa. Perché non ha sovrastrutture, non è stata contaminata dal perbenismo, dalle letture, da reticenze, da insegnamenti. È una “ragazzina” che cambia la vita al padre. Un egocentrico. Un famoso attore di teatro, vegano, preso solo dal suo lavoro, che non ha rapporti veri con nessuno. Un egoista, un opportunista, un uomo che “usa” le persone. Grazie ad un viaggio l’uomo capisce che la sua vita può cambiare in meglio, che ci sono cose più importanti come l’affetto, l’amore che è condivisione, che è dare, essere generosi. E queste due solitudini – quella del padre e della figlia – in qualche modo si riempiono improvvisamente, perché c’è amore. L’amore probabilmente può salvare il mondo. E lui in qualche modo si salverà da una vita intrisa di paura, di aridità. E scopre finalmente un sentimento puro, per cui rinuncia alla sua grande occasione, fare finalmente un film”.

Haber si commuove ricordando Fantastichini: “Sto pensando a Ennio. Ennio era mio fratello. Una persona con cui ho condiviso tutto. Mi sta nella testa, nel cuore, nella carne. Era un uomo meraviglioso, un artista unico, irripetibile, originale. Un amico sincero. Se fosse stata una donna sarebbe stata la mia amante, la mia donna. Io l’ho salvato quando era ragazzino. Aveva 25 anni e aveva fatto uno spettacolo meraviglioso con Margherita Buy: “La Stazione”. Aveva fatto altri film. Ma in certi momenti di scoramento ricordo – ho 8 anni più di lui – che voleva abbandonare questo mestiere. Perché non lavorava abbastanza. Stava male. Diceva che non ne valeva la pena. Io l’ho convinto e gli ho dato la forza e il coraggio di andare avanti, e di fargli capire che se uno ha talento deve avere pazienza, aspettare, lottare, perché il talento, poi viene premiato. Insomma, in qualche modo l’ho aiutato. Questo gli è servito e ci ha legato. Ma io l’ho fatto perché sentivo che da quella parte c’era tanta roba. Se n’è andato un uomo che aveva tante cose da dire. Mi viene in mente Lucio Dalla. Perché era onnivoro, intelligente, “avanti”. Aveva ancora tante di quelle cose da raccontare ancora, tante storie, che avrebbero riempito tutti noi”.

@vanessaseffer

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