Violenza agli operatori sanitari, parla il risk manager Sabatelli

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Violenza agli operatori sanitari, parla il risk manager SabatelliGli operatori dei servizi sanitari presentano un rischio significativo di subire atti di violenza durante la propria attività lavorativa. Si tratta di un fenomeno così rilevante che il ministero della Salute ha emanato una specifica raccomandazione sull’argomento e ha inserito la “morte o grave danno in seguito a violenza su operatore” fra gli eventi sentinella che devono essere segnalati attraverso il flusso Simes. La Regione Lazio nello scorso luglio ha istituito l’Osservatorio regionale per la sicurezza degli operatori Sanitari e ha recentemente approvato un “Documento di indirizzo sulla prevenzione e la gestione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari” elaborato dal Centro regionale rischio clinico. Per queste ragioni abbiamo voluto sentire Giuseppe Sabatelli, coordinatore del Centro e risk manager della Asl Roma 5.

Dottore, qual è l’obiettivo del documento?

Il documento risponde alla necessità di fare chiarezza su un fenomeno complesso come quello degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari. Al contempo, cerca di fornire alle strutture sanitarie indicazioni e strumenti pratici per valutare correttamente il rischio di aggressione e migliorare la sicurezza dei propri operatori, attraverso interventi strutturati e organizzati. Per fare questo il gruppo di lavoro si è basato su due assunti principali. Innanzitutto, abbiamo chiarito che si tratta di un problema di sicurezza del lavoro che va affrontato secondo quanto previsto dal Decreto legislativo 81 del 2008: il rischio di subire un’aggressione sul posto di lavoro va valutato e gestito dalle organizzazioni al pari di qualsiasi altro rischio lavorativo. Il secondo punto fermo è stato quello di considerare gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari come reati da perseguire, fatti salvi casi limitati e specifici.

Ci sono dati che consentono di quantificare il fenomeno?

Non è facile definire le esatte dimensioni del fenomeno. Una delle cause di tale difficoltà è legata alla genericità delle definizioni. Il termine “violenza sul posto di lavoro”, infatti, comprende eventi molto diversi tra loro: dai comportamenti incivili alla mancanza di rispetto nei confronti degli operatori, dagli insulti alle minacce verbali, fino all’aggressione fisica, con esiti anche drammatici. Alla difficoltà di trovare un accordo su cosa si intenda con il termine “violenza sul posto di lavoro” si aggiunge un’estrema diversificazione nelle modalità di raccolta dei dati, per cui le evidenze disponibili sono difficilmente confrontabili e danno risultati molto diversi fra loro. Per questo motivo nel documento abbiamo deciso di considerare come atti di violenza a danno degli operatori sanitari qualsiasi forma di aggressione verbale, fisica o psicologica praticate sul lavoro da parte di soggetti esterni all’organizzazione, escludendo gli episodi di violenza fisica e psicologica da parte di colleghi o superiori. Un altro motivo che rende difficile una corretta quantificazione del fenomeno è poi legato alla scarsa propensione delle vittime a segnalare e denunciare gli episodi di violenza a causa di fattori di tipo sociale e culturale ma anche per i limiti dei sistemi di reporting che, è opportuno ricordarlo, sono su base volontaria.

Sono disponibili dati regionali?

Sì, e una parte rilevante del documento è riservata alla loro analisi. Si tratta dei dati che ormai da anni tutte le strutture sanitarie regionali caricano su un portale dedicato al fine di soddisfare il flusso Simes ministeriale. Nel periodo dal 2012 al 2017 sono stati segnalati sul portale 553 atti di violenza a danno di operatori, con un valore medio annuo di circa 90 episodi. Dall’esame dei dati non sono emerse differenze significative nella percentuale di segnalazione provenienti da donne e uomini pur in presenza di una lieve prevalenza delle prime. È emersa invece una decisa prevalenza delle aggressioni fisiche che sfiorano il 67 per cento del totale. Relativamente agli esiti, in quasi la metà dei casi non viene segnalato alcun danno a carico dell’operatore coinvolto, almeno nell’immediatezza della segnalazione, mentre in oltre il 42 per cento dei casi sono segnalati danni lievi. In poco più dell’8 per cento degli eventi sono segnalati danni da moderati a severi. In oltre il 64 per cento dei casi l’aggressore è il paziente, nel 17,5 per cento dei casi è un parente o visitatore del paziente. In poco più del 3 per cento gli atti di violenza vengono perpetrati da soggetti esterni, senza motivo apparente.

Quali sono le figure professionali maggiormente a rischio?

Le figure più a rischio sono certamente rappresentate da quelle maggiormente coinvolte nelle attività clinico-assistenziali: infermieri, operatori sociosanitari e medici. Tuttavia anche altri operatori sanitari possono essere vittima di violenza. Nel documento abbiamo perciò ritenuto opportuno allargare la definizione di “operatori” anche ad altri soggetti: psicologi, farmacisti, assistenti sociali, tecnici sanitari, personale dei servizi di trasporto d’emergenza, studenti e specializzandi, volontari, senza dimenticare il personale di front office e dei servizi di vigilanza, e qualunque altro lavoratore di una organizzazione che eroga prestazioni sociosanitarie che subisca un atto di violenza sul posto di lavoro.

Quali sono le strutture e i servizi maggiormente esposti al fenomeno?

Le evidenze disponibili sembrano indicare che il fenomeno sia maggiormente rilevante nei servizi di emergenza-urgenza, nelle strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali, nei luoghi di attesa, nei servizi di geriatria e nella continuità assistenziale. I dati regionali confermano, almeno in parte, questo quadro: il 23 per cento delle segnalazioni è relativa all’area di emergenza-urgenza, seguita dalla assistenza psichiatrica e delle dipendenze patologiche (oltre il 20 per cento). Di particolare rilevanza anche il dato relativo al trasporto di emergenza, che rende conto del 21 per cento delle aggressioni totali. In oltre il 13 per cento dei casi non è stato invece possibile risalire alla struttura di accadimento.

Il documento contiene anche strumenti che le strutture sanitarie possono utilizzare per la valutazione e la gestione del rischio?

Tutti i documenti dal Centro regionale rischio clinico sono pensati ed elaborati al fine di supportare le strutture sanitarie tramite strumenti immediatamente applicabili nelle diverse realtà. Nello specifico, al fine di consentire alle strutture di elaborare un Piano per la Prevenzione degli atti di Violenza da inserire all’interno del Documento di valutazione dei rischi previsto dal Decreto legislativo 81 del 2008, il testo è stato corredato da una serie di checklist tradotte e adattate da un recente documento dell’Occupational and Safety Health Administration americana. Utilizzando queste checklist, ovviamente adattandole agli specifici contesti, le organizzazioni potranno definire, nell’ambito dei diversi setting assistenziali individuati, quali siano gli interventi strutturali, tecnologici, organizzativi e professionali per ridurre le dimensioni del fenomeno. Sono state tradotte e adattare anche checklist per l’autovalutazione del rischio aggressione da parte delle singole unità operative. Inoltre abbiamo cercato di fornire indicazioni chiare sugli aspetti infortunistici e legali.

Quali sono i risultati prevedibili derivanti dall’effettiva implementazione del documento di indirizzo?

Ovviamente non è realistico pensare che un documento possa azzerare gli atti di violenza. Si tratta di un problema i cui determinanti riguardano ambiti che vanno ben oltre le possibilità di intervento delle organizzazioni sanitarie. Preferisco considerarlo un contributo che definisce in maniera chiara ambiti di intervento e ruoli, che dà indicazioni pratiche e di policy e che, soprattutto, si inserisce all’interno di un percorso regionale iniziato con la istituzione dell’Osservatorio. In quella sede ritengo che potranno essere messe proficuamente a fattor comune le energie e le competenze di tutti gli attori coinvolti al fine di definire e condividere ulteriori strumenti di intervento che coinvolgano non solo gli operatori ma anche i cittadini.

@vanessaseffer

 

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