Vanessa Seffer

Vanessa Seffer

Luci ed ombre del contratto sanitario, convegno a Genova

Il 21 febbraio la Cisl Medici a Genova per fare chiarezza sul nuovo Contratto e sul problema della carenza numerica dei medici.

 

Dopo oltre dieci anni a fine dicembre è stato firmato il Contratto della dirigenza medica e sanitaria 2016-2018 per i 130mila professionisti del Ssn.

Ma nei prossimi anni trovare un medico in Liguria e in tutto il Paese sarà come fare una caccia al tesoro. I nostri medici preparatissimi nel frattempo saranno andati all’estero dove vengono strapagati e noi italiani saremo costretti a rivolgerci ai medici stranieri per ovviare alle nostre carenze. Un quadro decisamente surreale che dimostra la “capacità” di programmazione dei nostri ultimi governi.

“Luci e ombre” dice nel titolo il Convegno organizzato a Genova il 21 febbraio il Segretario Generale della Cisl Medici Liguria, Dott.ssa Elisabetta Tassara, per mettere in chiaro le cose positive e quelle negative, del Contratto e l’annoso problema della carenza numerica dei medici.

Che cosa si ritiene negativo del Contratto?

Ciò che non è stato preso in considerazione, come le differenti carriere della dirigenza oppure al riconoscimento per certe professioni a rischio, come quello che viene fatto in Pronto Soccorso. Mancano i riconoscimenti dal punto di vista economico, è stato dato poco perchè il fondo permetteva questo, è stato stanziato poco per la Sanità. E si tratta di un contratto già scaduto e che deve essere già ridiscusso nel prossimo futuro.

E di positivo?

Si è previsto lo scatto dei vent’anni, visto che la carriera si è allungata tantissimo, quindi è previsto che ci sarà un adeguamento contrattuale. Prima l’ultimo scatto si fermava a quindici anni, siccome si pensa che dovremo lavorare probabilmente fino a quando saremo molto vecchi e si è predisposto lo scatto dei vent’anni. Sono aumentati poi sul fronte del disagio i compensi per le notti di 100 Euro per chi fa le notti di guardia normalmente e di 120 Euro per chi le fa in Pronto Soccorso, riconoscendo un pochino di disagio in più a chi lavora frontline, perchè è come andare in frontiera. Però si potrebbe fare di più, anzi molto di più. Comunque rispetto alla media europea siamo molto al di sotto e ci sono tanti motivi di discussione quindi. Ed è per questo che stiamo organizzando questo convegno aperto a tutti. Una discussione corale per capire in quale direzione migliorare per le nuove discussioni e cosa portare avanti perchè quello che vogliono le Regioni è spendere meno avere pochi medici e avere gli ospedali con noi che lavoriamo anche 50 ore a settimana. Però questa è una battaglia fra due fronti che la pensano in maniera completamente diversa. Coinvolgeremo coloro che influiscono sulle decisioni in merito a questi argomenti e sulla sanità ligure come il Dott. Quaglia e il Dott. Locatelli, rappresentanti della Regione Liguria, del Consiglio regionale, delle Direzioni generali, dell’Ordine dei medici, il Segretario generale della Cisl Medici Nazionale Biagio Papotto, tutti attori che fanno parte della Sanità, su un argomento scottante che è quello della carenza di personale, oltre che del contratto e come si pensa di risolvere.

Cosa pensa dell’assunzione degli specializzandi al terzo anno e del prolungamento a 70 anni dei medici in corsia?

Far lavorare chi ha superato i 42 anni di onorato servizio e arrivare fino a 70 anni a me sembra un po una sconfitta, noi ci battiamo anche per le pensioni. Ci sono persone che se la sentono ed hanno la fortuna di fare bene e vogliono continuare. Sicuramente da questo punto di vista non sono la soluzione del problema, nè una nè l’altra. Tra le due, se devo scegliere, preferisco l’assunzione dei giovani specializzandi, perchè anche noi come ospedale abbiamo la fortuna di avere specializzandi che frequentano il nostro reparto come altri e sono utilissimi, danno una mano in questo momento. Se uno potesse non solo partecipare alla loro formazione ma iniziare a fidelizzarli, perchè poi prendono e vanno via. Rispetto alla nostra generazione che non avevamo spazi lavorativi, io per andare a trovare lavoro sono dovuta uscire dalla mia Regione perchè non c’era spazio e non c’erano concorsi da anni ai miei tempi, sono andata a fare un concorso fuori Regione e sono rientrata dopo anni con la mobilità, questo per loro apre un fronte che li farà andare ovunque, se si pensa che ci stiamo svuotando, si calcolano seimila pensionati all’anno, nei prossimi cinque anni mancheranno trentamila medici dirigenti e l’Università non ha questi numeri, non ha questa formazione, perchè l’imbuto formativo con il numero chiuso dell’accesso in Medicina e il numero carente delle borse di formazione che è ancora peggio, perchè una volta che si laureano diecimila medici e mi metti l’imbuto formativo è la fine. In Liguria nei prossimi anni mancheranno 100 anestesisti, 100 pediatri, 100 medici di primo intervento in medicina d’urgenza PS; mancheranno chirurghi, ortopedici, questo per dare dei dati. Col nuovo contratto va affrontato questa challenge, una sfida che ci viene messa davanti sia come sindacalisti che come politici, come operatori e difensori del sistema e della professione salute.

@vanessaseffer

da DailyCases

Brindisi, medici aggrediti durante intervento in sala operatoria

 

Solo i nervi saldi dei medici hanno impedito una tragedia e presto la polizia è intervenuta dopo che i parenti di un paziente si erano introdotti in sala operatoria pretendendo di parlare con il primario. La grande preoccupazione del Segretario generale della Cisl Medici del Lazio, Dott. Luciano Cifaldi che da tempo chiede provvedimenti delle Autorità competenti

 

A Brindisi, nella notte fra il 30 e il 31 gennaio, un gruppo di persone ha aggredito il medico di guardia dell’ospedale Perrino e poi non soddisfatti, pretendendo la presenza del primario in quel momento impegnato in un intervento chirurgico, in spregio ad ogni principio di sicurezza, si sono introdotti in sala operatoria pretendendo un consulto con il professionista per il loro parente ricoverato, fermando l’intervento e i chirurghi che stavano operando un aneurisma dell’aorta. Solo i nervi saldi dei medici hanno impedito una tragedia e presto la polizia è intervenuta grazie alla prontezza di una guardia giurata, ma poteva finire molto male. Non è un film dell’orrore, è la realtà ed è accaduto in casa nostra, né in estremo Oriente, in Africa o chissà dove ci piacerebbe immaginarlo.

Siamo veramente alla frutta se in una sala operatoria possono introdursi degli estranei, nel bel mezzo di un intervento chirurgico, mentre chiunque di noi può essere sotto i ferri e aspettiamocelo a questo punto, non solo di notte ma a tutte le ore, pensando di poter aggredire i medici e il personale sanitario a piacimento. Descriviamo brevemente il blocco operatorio di un ospedale, luogo di cui fanno parte le sale operatorie, dove vengono effettivamente svolti gli interventi chirurgici. Un posto che non si ferma mai, vero centro di accoglienza, come il Pronto Soccorso italiano. Questi luoghi devono essere appositamente sterilizzati, hanno una stanza adibita al lavaggio e alla vestizione dell’equipe chirurgica. Vicino c’è una zona filtro, la sala del risveglio dei pazienti e altri spazi che necessitano per tutto il tempo necessario di una cosa sola, serenità, la più assoluta pace e tranquillità per svolgere uno dei compiti più delicati che si possano pensare: salvare delle vite umane.

Proprio qui, in un luogo che possiamo definire sacro, anche se non si curano le anime, forse, ma i corpi, abbiamo avuto l’ennesima prova della nostra vulnerabilità, l’ennesimo riscontro della solitudine dei medici e del personale sanitario. Parole, chiacchiere e tabacchiere di legno, ma pur sempre parole al vento. Qui di risultati ancora non se ne vedono. Ed è così che il Segretario generale della Cisl Medici del Lazio, Dott. Luciano Cifaldi ha commentato ed evidenziato i fatti accaduti a Brindisi visibilmente sconcertato e preoccupato: “Da molto tempo come Cisl Medici Lazio ci occupiamo di aggressioni ai medici e agli altri operatori sanitari e, personalmente, considerati tutti gli approfondimenti sul tema, pensavo di avere registrato nella mia mente episodi estremamente variegati e diversamente pericolosi. Ma la notizia che giunge da Brindisi, dove è stata interrotta l’intera equipe di sala operatoria, ha qualcosa di incredibile e di sconvolgente al tempo stesso”. Il Segretario della Cisl Medici Roma Capitale/Rieti Benedetto Magliozzi ha continuato: “La più fervida delle fantasie non sarebbe mai riuscita a prevedere che si potesse giungere a questo punto di degrado. È accaduto qualcosa di inimmaginabile che rappresenta uno specchio del degrado che sta vivendo la nostra società”. Il Segretario Cifaldi ha poi così concluso: “Stiamo freschi” si direbbe a Roma, se pensassimo di risolvere questo fenomeno solo con la prevenzione e gli strumenti della formazione e della comunicazione, qui si tratta di intervenire duramente, concretamente e nell’immediato. Ribadisco un concetto da me già espresso: non chiediamo derive autoritarie, ma è urgente che le Autorità non abbandonino alla deriva noi medici e tutti gli altri operatori”.

@vanessaseffer

Da DailyCases

Formello e la sopraffazione dei più deboli: parla il procuratore Menditto

Formello e la sopraffazione dei più deboli: parla il procuratore MendittoLa violenza contro le persone più deboli e indifese come i bambini, gli anziani, le donne, i malati, fa particolarmente rabbia, perché suscita sentimenti di indignazione e la necessità di sapere che c’è una giustizia che in qualche modo restituisca un poco di dignità alle offese, ai traumi, al dolore che è stato inflitto. Come è accaduto ancora nei mesi scorsi in una Scuola dell’infanzia di Formello, vicino Roma, dove numerosi bambini fra i 3 e i 5 anni sono stati presi per settimane a schiaffi, urla ed offese da due maestre, attualmente indagate e agli arresti domiciliari, cioè coloro che avrebbero dovuto contribuire alla loro formazione cognitiva e relazionale, che avrebbero dovuto stimolarne i sorrisi, l’apprendimento, la cura di sé, la voglia di giocare felici tutti insieme. Invece proprio da loro questi bambini sono stati traditi e violati. Il Gip del Tribunale di Tivoli ha accolto in tempi record la denuncia e la richiesta di applicazione della misura. Abbiamo chiesto al procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, chiarimenti su quanto accade nel territorio in merito a questo e ad altri casi di violenza contro chi non può difendersi.

I cittadini chiedono che le denunce siano accolte sempre in tempi brevi come in questo caso e certezza della pena, possibilmente “pene esemplari”.

Il caso di Formello è nato dalle denunce nei primi giorni di dicembre di alcuni attenti genitori che manifestavano dei sospetti sulla base dei comportamenti anomali dei loro piccoli, usavano improvvisamente parolacce, picchiavano le loro bambole, schiaffeggiavano i fratellini, usavano condotte violente durante il gioco a casa. Non possiamo rivelare il tipo di indagini svolte a seguito di questi sospetti, ma subito dopo la riapertura della scuola abbiamo iniziato le attività di intercettazione video e audio necessarie autorizzate dal Gip, intorno al 15 gennaio. Da lì abbiamo richiesto la misura cautelare. Ci siamo subito resi conto vedendo le immagini che c’erano dei comportamenti anomali. Prima ci siamo accertati che la prima maestra avesse questi comportamenti e poi che fosse coinvolta anche la seconda maestra. Abbiamo portato avanti l’attività di intercettazione ancora per diversi giorni e acquisito tutti gli elementi necessari per richiedere la misura cautelare e il Gip Aldo Morgigni ce l’ha data il 24 ore. L’abbiamo ricevuta la mattina ed eseguita nel pomeriggio del giorno stesso per evitare che accadesse a scuola e per dare il tempo alla preside della scuola di organizzarsi per coprire la classe e per il risalto della notizia. L’indagine in realtà è durata quindici giorni.

Tempi rapidissimi, questa è una cosa esemplare, come le pene che auspicano i cittadini. Come si fa ad ottenerle e a far smettere questo ciclo continuo di sofferenze inflitte ai più deboli: anziani, bambini, donne, questo è il clima del Paese in cui viviamo. Con lei abbiamo già affrontato il tema della violenza contro le donne, cosa suggerisce riguardo alla certezza della pena?

Noi abbiamo condotto uno studio statistico proprio nel circondario di Tivoli. Esistono studi nazionali dell’Istat, ma i nostri sono della Procura della Repubblica con l’Università di Torino, e abbiamo verificato che per i reati di maltrattamenti nell’85 per cento dei casi le vittime sono le donne. Quindi nella stessa percentuale gli indagati sono uomini. Poi c’è una percentuale di maltrattamenti ai danni dei bambini molto piccola e una percentuale di maltrattamenti molto piccola ai danni degli anziani. Queste le tre tipologie di persone maltrattate che abbiamo studiato e che corrispondono ai dati nazionali. Per i maltrattamenti dei bambini e degli anziani, gli indagati sono sia uomini che donne. Riguardo alle pene, essendo io pubblico ministero, per me va ripristinata la legalità. L’ideale sarebbe che il processo fosse veloce e che il primo obiettivo del processo fosse mettere in sicurezza le vittime, quindi applicare delle misure cautelari che consentano alla vittima di non subire più i maltrattamenti. Primo obiettivo dunque di noi Pubblici ministeri è intervenire velocemente, avere le denunce e mettere in sicurezza le vittime. Noi siamo il Pronto soccorso, per intenderci. C’è imposto anche dalle convenzioni internazionali, sia in favore delle donne, quella di Istanbul, sia in favore dei bambini, quella di Lanzarote. Dopo il processo deve essere rapido, non sempre abbiamo risorse umane e materiali in Tribunale per arrivare rapidamente ad una sentenza di condanna o assoluzione, perché tutti hanno diritto ad un processo. Riguardo alle pene esemplari do un dato oggettivo: i maltrattamenti erano puniti con una pena minima di 1anno e massima di 5 anni. Il legislatore poi ha aumentato la pena minima a 2 anni e la pena massima a 6 anni. Il legislatore con la legge sul Codice rosso aumenta ancora a 3 anni il minimo e a 7 anni il massimo. Questo chiarisce che secondo il legislatore le pene che sono inflitte dai giudici sono inadeguate. Alza i limiti perché verifica che le pene in concreto applicate dai giudici non corrispondono a quella che è la sensibilità sociale.

Ma il tema non è solo quello della pena che viene inflitta agli autori di questi reati di maltrattamenti e di stalking, è anche arrivare alla dissuasione della reiterazione del reato e assicurare una tutela complessiva della donna. Noi possiamo anche dare 5 anni di prigione, però una volta scontata la pena se la persona esce dal carcere e continua ad ossessionare o maltrattare la moglie non abbiamo raggiunto l’obiettivo. Quindi bisogna creare una serie di strumenti che anche dopo l’esecuzione della pena consentano di assicurare la tutela alla vittima. È quello che stiamo facendo alla Procura di Tivoli, adottando dopo la scarcerazione delle “misure di prevenzione”. Noi, mesi prima della scarcerazione, verifichiamo se questi condannati sono ancora pericolosi e se riteniamo che possono reiterare lo stalking, chiediamo la misura di prevenzione ed è loro imposto di nuovo il divieto di avvicinarsi alle parti offese.

Chi si comporta in questo modo nei confronti dei più deboli mette in conto il tempo che trascorrerà in carcere. Questo succede probabilmente anche per coloro che usano violenze contro i medici e gli operatori sanitari, un’altra moda che non tramonta come la zampa di elefante o il velluto a coste. Alcuni avvocati dicono di far pagare anche una pena pecuniaria come deterrente. Lei è d’accordo?

Se si sta immaginando una sanzione pecuniaria molto elevata, il senso di queste che noi registriamo in magistratura è che ci sono persone che non sono in grado di pagarle perché di solito non hanno un patrimonio. Negli Stati Uniti se non puoi pagare ed hai una pendenza con la legge, finché non hai estinto il debito, fai un lavoro socialmente utile e non ci sono alternative gentili. In Italia non è consentita questa soluzione, la Corte costituzionale non ce lo consente. Quindi ci vuole una pena adeguata e poi a queste persone penso debbano essere applicate delle misure che anche dopo l’esecuzione della pena le controllino, le misure di sicurezza o di prevenzione. In modo tale che la persona che commette questo tipo di reato sa di essere controllata per lungo tempo anche dopo e che se ripete quel tipo di condotta viene punita severamente. Serve un controllo continuo poiché si tratta di persone con un alto tasso di recidiva, un po’ come la criminalità organizzata. Chi partecipa ad un’associazione di stampo mafioso è probabile che ci rimarrà per un lungo tempo e anche dopo condanna e scarcerazione, continuerà a delinquere nello stesso modo. Probabilmente anche per questi reati ai danni dei medici e degli operatori sanitari, che sono in aumento e lo stiamo verificando, e per questo hanno bisogno di una tutela penale specifica e all’interno degli Istituti che sono previsti oggi, bisogna immaginare un’attenzione continua dello Stato per cui gli indagati non devono essere abbandonati ma devono essere controllati con delle misure che evitino la reiterazione del reato. Punterei più su questo, perché le sanzioni civili credo non possano dare i risultati sperati.

@vanessaseffer

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Lazio. “MEDICINA A KM 0” da domani sera…

Tutto ciò che vogliamo sapere sulla Sanità italiana in 20 puntate su Lazio TV. Un programma condotto da Vanessa Seffer e prodotto dalla Cisl Medici Lazio

Parte domani sera domenica 26 gennaio la trasmissione televisiva “Medicina a Km 0 ” su Lazio TV, dalle ore 20.30 circa, sul canale 12 del digitale terrestre. Prodotta dalla Cisl Medici Lazio, le 20 puntate previste puntano a rispondere a tutto ciò che vorremmo sapere sulla Sanità italiana e soprattutto del Lazio, per approfondire alcuni temi scottanti quali la sicurezza negli ospedali, la carenza numerica dei medici, le aggressioni ai medici e al personale sanitario, le liste d’attesa, il welfare, le problematiche legate al SSN, gli errori giudiziari, le fake news, i problemi legati alla disabilità, alla depressione e al suicidio, allo sport-salute, all’emergenza in Pronto Soccorso e molto altro ancora.

Risponderanno ospiti illustri del sindacato della Cisl Medici Lazio, del mondo medico, politico e giornalistico ed interverranno personalità del mondo dello sport e dello spettacolo.

Il programma, condotto da Vanessa Seffer, viene trasmesso dagli Studi di Gold TV presso il Tecnopolo Tiburtino di Roma. La regia è di Giuseppe Morelli.

@vanessaseffer

Da DailyCases

I fumi fanno male, bisogna vedere quali: parla Pagliari

I fumi fanno male, bisogna vedere quali: parla Pagliari Scrive il Campidoglio: “Considerato il persistere a Roma degli elevati livelli di inquinamento da Pm10, rilevati dalla rete urbana di monitoraggio e validati dall’Arpa Lazio, e la previsione di perdurante criticità per i prossimi giorni, è stata disposta per domani (oggi, ndr), 17 gennaio, la limitazione alla circolazione veicolare privata nella Ztl. Fascia Verde. La limitazione riguarderà tutti i veicoli privati alimentati a gasolio che non potranno circolare nella Ztl. Fascia Verde di Roma in due fasce orarie. Nello specifico l’ordinanza sindacale stabilisce la limitazione della circolazione dalle ore 7.30 alle 10.30 e dalle ore 16.30 alle 20.30 per tutti gli autoveicoli diesel da Euro 3 fino a Euro 6”.

Tanto l’inquinamento non accenna a diminuire, caro Campidoglio, e noi per questo siamo andati a cercarci un vero esperto della questione, nel caso servissero consigli utili a qualcuno e non si sapesse bene a chi rivolgersi. Abbiamo chiesto ad Enrico Pagliari, ingegnere dei trasporti, specializzato in pianificazione della mobilità e coordinatore dell’area tecnica dell’Aci, se questi blocchi del traffico possono servire a qualcosa: “Questi blocchi non sono scientificamente né tecnicamente giustificabili – spiega Pagliari – perché c’è stato un grosso progresso tecnologico delle auto soprattutto gli Euro delle ultime generazioni, i 6 e anche i 6 di prima e di seconda generazione. Quelle in vendita adesso sono gli ultimi modelli ed è dimostrato da prove concrete, dal progetto Green Ncap per i consumi e le emissioni dei veicoli. Un cugino di Euro Ncap che dà le stelle sulla sicurezza delle auto, che dopo una serie di test oggettivi indipendenti dal costruttore, da 5 stelle se il veicolo è sicuro, una stella se ci sono grossi problemi. Dallo scorso anno, sempre in quell’ambito, Aci è coinvolta direttamente perché è un socio del consorzio, sia di Euro Ncap che di Green Ncap, facciamo una serie di prove più severe di quelle delle normali omologazioni e indipendenti dai costruttori perché un organismo a sé stante, e diamo le stelle alla sostenibilità del veicolo, dando un giudizio complessivo e due sottogiudizi, uno relativo alle emissioni, quindi quanto inquina il veicolo e secondo l’efficienza se c’è un discorso di contenimento energetico. I diesel Euro 6 di seconda generazione vanno fuori scala, non emettono niente come si dice ingegneristicamente. Addirittura hanno emissioni confrontabili con i veicoli elettrici”.

Non c’è proprio nessuna forma di emissione?

Solo il rotolamento dello pneumatico sull’asfalto o la frenata con i freni a disco che emette delle polveri sottili che hanno sia il veicolo elettrico che quello alimentato tradizionalmente a benzina o diesel che sia. Le emissioni di un diesel come quello della Mercedes Gla hanno preso voti altissimi, paragonabili a quelli della Nissan Leaf completamente elettrica.

Quando è avvenuto il vero cambiamento negli anni per le nostre autovetture in termini di sostenibilità?

Il grosso salto tecnologico è avvenuto tra “Euro 3” e “Euro 4” dove c’è stato, se andiamo a vedere le tabelle di emissione da legge, sin dall’Euro 3 fino ad una riduzione di un 50 per cento di tutti gli inquinanti dal CO2 al NOX, alle polveri sottili. Allora come Aci, forti del discorso che il parco auto italiano purtroppo è vecchio, tra i più vecchi d’Europa, con un’età media di 11 anni e 4 mesi circa dati del primo gennaio 2019, lo vediamo dai nostri archivi poiché gestiamo il pubblico registro automobilistico che è un database con tutti i veicoli in circolazione in Italia e da questo emerge questa età delle autovetture che è più alta della media europea che è intorno ai 9 anni e la nostra è in invecchiamento come la nostra popolazione. Dal 2010, siamo passati da un’età media di 8 anni e qualche mese a più di 11 anni, l’ultimo dato acquisito. In questo parco auto ben il 35 per cento circa, più di un’auto su tre, è “Euro 0, 1, 2 o 3”. Quelle inquinano. Allora, piuttosto che andare a penalizzare le auto nuove, magari del signore che si è appena comprato la macchina con tanti sacrifici, un “Euro 6”, e che si vede bloccato il suo veicolo e ridotta anche la valenza economica del suo investimento, concentriamo su questo 35 per cento. Invece, con questo provvedimento si criminalizza il diesel, invece sicuramente un “Euro 4” se andiamo a vedere le tabelle inquina di più. Aggiungiamo poi che un veicolo nuovo è mantenuto meglio di un veicolo vecchio e sicuramente ha un rendimento in termini di emissioni migliore.

Nessuno più penserà di comprarsi un’auto nuova, a cosa serve fare il sacrificio di un prestito a lunga scadenza, già quando una macchina esce dal negozio perde una buona fetta del suo valore e in più va incontro a questi problemi inaspettati.

Certamente, con questi provvedimenti si ottengono gli effetti contrari, andrebbe rinnovato il parco auto ma così perché nessuno poi compra più una macchina nuova? Quindi rimaniamo con le macchine vecchie e seguitiamo a inquinare di più, non trascurando poi il discorso sulla sicurezza, perché il veicolo vecchio è anche più insicuro di quello nuovo. Abbiamo i nostri dati statistici che ci dicono che il conducente di un’auto di 11 anni o comunque di un’auto vecchia, ha una probabilità in caso di incidente rispetto ad un’auto nuova, di rimanere gravemente ferito o peggio rimanere morto, 5 volte superiore, quindi altro che sostenibilità.

Sembra poi che ad inquinare siano solo le automobili.

Bisogna agire in più direzioni, non si può quindi prescindere dal dire oggi chiudo e tutto il resto? Aria condizionata, riscaldamento, produzione di energia elettrica che viene prodotta con i fossili soprattutto in Italia e nella zona centrale, andrebbero presi provvedimenti anche sul traffico. Chiudere al traffico senza dare soluzioni alternative è un placebo, infatti in questi giorni sembra che nonostante il blocco sia aumentata la concentrazione delle polveri sottili, quindi non si è risolta la causa primaria. Sul traffico andrebbe fatta una pianificazione efficace, siamo d’accordo che ci sono troppe auto, ma non è che risolviamo il problema del traffico trasformando tutto il parco dall’oggi al domani in elettrico, non abbiamo risolto il problema delle congestioni. Andrebbe fatto un serio discorso organico di pianificazione verso forme di mobilità più sostenibili, dall’incentivare le percorrenze pedonali, incentivare l’uso delle biciclette, a limite con le opportune accortezze anche le nuove forme di mobilità microelettrica, ma soprattutto rafforzare il trasporto pubblico. Allora in un quadro organico di piano urbano dalla mobilità sostenibile dove ci sono veri e importanti interventi allora in quel caso posso paradossalmente arrivare a dire in alcune zone della città non passano più auto. Ci si sposta con queste altre modalità. Trovo più coerente un discorso programmatorio, pianificatorio che da anni non si vede, non fa parte dei cromosomi italiani che vivono sempre nell’emergenza, ma certe cose in realtà dovremmo pianificarle, programmarle per tempo. Poi ci tengo a dire riguardo alla nostra tipica incapacità di programmare per tempo i cambiamenti che questo avrebbe delle importanti ricadute economiche sulla nostra società. In Italia parecchia economia dipende dall’automotive, da tutto l’indotto. Non abbiamo più una casa costruttrice primaria, ma facciamo i freni per tutte le case costruttrici del mondo, i clacson, le tappezzerie, e così via. Il 90 per cento dei freni vengono da un’azienda di Bergamo, lo stesso i clacson che usa la Mercedes o una marca americana vengono da una fabbrica italiana, quindi c’è un indotto che andrebbe salvaguardato, andrebbero dati loro dei tempi per riconvertirsi e non agire di punto in bianco perché ci sono anche qui in gioco dei posti di lavoro.

@vanessaseffer

È l’alba di un nuovo razzismo?

È l’alba di un nuovo razzismo?La notizia si è diffusa pochi mesi fa, per circa un mese, fino al decesso della paziente. Una dozzina di rom si erano accampati nella sala d’aspetto del reparto di oncologia di un ospedale lombardo dove era ricoverata una congiunta. Il fatto aveva, per qualche ora, attirato l’attenzione dei media sia per l’evento in sé sia perché strumento di ping pong politico. Era una vicenda da prendere con le molle molto lunghe per evitare di venire poi accusati di essere, nella migliore delle ipotesi, politicamente scorretti se non addirittura razzisti.

Che non fosse un fake, nonostante il dubbio legittimo derivante proprio dalla lunga durata della permanenza in una struttura sanitaria di persone non degenti, lo dimostrava un successivo comunicato della Direzione sanitaria del presidio ospedaliero, che a quel punto non poteva sottrarsi alla curiosità diffusa e alla pressione dei media. Il comunicato evidenziava che appena informata la Direzione stessa aveva disposto l’intervento della sorveglianza interna e del posto di Polizia di Stato presente in Pronto Soccorso e la Questura visto il perdurare di atteggiamenti poco rispettosi nei confronti del personale e degli altri degenti e aveva inviato due pattuglie.

Infine, il comunicato ufficiale del nosocomio aggiungeva che “gli ospedali sono luoghi di cura. Purtroppo in tutta Italia assistiamo sempre più spesso a episodi di maleducazione e aggressività verso gli operatori”. Un mese di occupazione e alla fine una nota direzionale molto semplice e cauta. Cautela derivante dalla paura di innescare episodi di violenza? Cautela derivante dalla preoccupazione di non prestare il fianco ad attacchi mediatici anche strumentali in ragione della diversa etnia degli occupanti e quindi evitare l’accusa di razzismo? Entrambe le motivazioni possono essere valide considerato che l’Italia è terra di guelfi e ghibellini, di stracittadine calcistiche e di laceranti divisioni tra chi mette la cipolla nell’amatriciana e chi inorridisce al solo pensiero.

Poi, ecco sopraggiungere la notizia apparsa su un quotidiano del Trentino, e si innesca un’accesa polemica a seguito della affissione in Alto Adige di manifesti con un cadavere divenuto tale a seguito della non conoscenza della lingua tedesca da parte di medici italiani. A riaccendere una polemica non sopita la promulgazione di una legge provinciale che autorizzava i medici che conoscano solo il tedesco a esercitare nella provincia autonoma di Bolzano, bypassando, nel caso si tratti di medici stranieri, la normativa nazionale. Normativa che prevede il riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero da parte del ministero della Salute e poi, per l’iscrizione all’Ordine, l’accertamento della conoscenza della lingua e delle normative italiane.

“Medici che non parlano italiano possono comunque esercitare la professione a Bolzano senza l’equiparazione dei titoli, prevista per legge: lo permette una legge provinciale pubblicata a fine ottobre”. Così rilevava la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), che chiedeva al Governo di valutarne l’impugnazione, sottolineando che “anche l’Alto Adige fa parte del Servizio sanitario nazionale”. “Ma è un contrappasso dantesco, una ironia il cui senso ci sfugge, una ulteriore spallata se non all’unità d’Italia almeno alla unità del servizio sanitario nazionale?” – si chiedeva in un comunicato il segretario della Cisl Medici Lazio impegnato in quella battaglia di civiltà portata avanti per sensibilizzare l’opinione pubblica, la politica e le istituzioni contro le aggressioni ai medici ed agli operatori sanitari e ritenendo questa una forma diversa di aggressione di tipo mediatico e derivante anche dalle storiche divisioni in merito alla autonomia di quella area geografica.

Di questi ultimi giorni poi la notizia che ad alcune ginecologhe e pediatre somale, sudanesi, palestinesi e irachene di religione musulmana che hanno svolto attività lavorativa presso strutture private in Veneto, non sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro pur nella carenza più volte evidenziata di specialisti. La loro colpa sarebbe quella di avere coperto i capelli e parte del viso con un foulard o un velo, il hijab, e non stiamo dunque parlando del burqa, l’abito che nasconde quasi completamente il viso. La notizia necessita di approfondimento ma è meritevole di qualche riflessione. In Italia siamo solo impauriti o siamo diventati razzisti?

Sulla questione si è accesa la polemica ed una associazione di medici stranieri in Italia, ha lamentato un “atto di discriminazione” da parte dei malati che ai successivi controlli, chiedevano esplicitamente di essere controllati da medici italiani. Tutto ciò si inserirebbe, secondo l’associazione, in un fenomeno più ampio e complesso di “intolleranza verso gli stranieri, alimentato dai social e da una comunicazione, anche politica, aggressiva e offensiva”.

E non è mancata, su un argomento delicato e scivoloso, una voce solidale di chi, come la Cisl Medici Lazio, ha espresso preoccupazione per questa ulteriore evoluzione del pensiero negativo nei confronti dei medici che sembra basato questa volta sulla discriminazione di razza e di cultura. Ed ecco dunque riaffacciarsi, e neanche in maniera non evidente, una parolina che fa subito ricordare orribili fasi della storia ed altrettanto orribili comportamenti del genere umano rispetto ai propri simili con un colore della pelle diverso dal proprio o professanti un diverso credo religioso: la parola è razzismo, la presunta superiorità di una razza sulle altre, le discriminazioni sociali e violenze fino al genocidio.

Una parolina che davvero avremmo preferito non dovere leggere o ascoltare. Anche perché qui non si tratta solo del razzismo come fenomeno in generale che allontana non solo lo straniero e lo discrimina per colore della pelle e credo religioso, ma sta diventando un modo di pensare comune. Si manifesta con la scarsa tolleranza, come nelle aggressioni, ma anche nel linguaggio dei social e dunque tende ad estendersi ad una molteplicità di situazioni e ad una platea numerosa come la gioventù troppo spesso carente e poco solida nei riferimenti culturali e indubbiamente privi di quella memoria storica che si ha difficoltà a tramandare. Il medico viene rifiutato non per la eventuale sua incapacità ma perché individuo appartenente ad una particolare tipologia sociale o religiosa. Forse anche su questo ci sarebbe bisogno di una attenta campagna mediatica volta a sensibilizzare l’opinione pubblica ed anche questo è un segno del triste periodo di incertezze e di paure che stiamo vivendo.

@vanessaseffer 

Violenza in sanità, Cisl Medici: «Bene Speranza: sarà reato aggredire camici bianchi anche fuori da ospedali»

Le aggressioni ai medici diventeranno un reato anche fuori da ospedali e ambulatori. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, infatti, ha presentato un apposito emendamento che estende il campo di applicazione “della fattispecie penale anche agli episodi di violenza occorsi al di fuori delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private”. “L’obiettivo – ha aggiunto […]

 

Le aggressioni ai medici diventeranno un reato anche fuori da ospedali e ambulatori. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, infatti, ha presentato un apposito emendamento che estende il campo di applicazione “della fattispecie penale anche agli episodi di violenza occorsi al di fuori delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private”.

“L’obiettivo – ha aggiunto Speranza nel corso di un’audizione presso le commissioni congiunte di Camera e Senato – è sanzionare le lesioni subite a causa dell’adempimento delle funzioni in qualsiasi luogo le stesse vengano esercitate”. Lo scudo penale quindi, si estenderebbe dalle corsie ospedaliere fino alle emergenze urgenze per le strade, nelle guardie mediche e presso le abitazioni private, negli interventi di protezione civile, nei controlli dei cantieri, nelle imprese, negli stabilimenti di macellazione e trasformazione e negli allevamenti. La modifica entrerà nel Ddl sulla sicurezza degli operatori sanitari all’esame della Camera. Da questa settimana sarà deciso anche un ciclo di audizioni per confrontarsi sul fenomeno. Sarà convocato l’Osservatorio sulle aggressioni. Lo scorso anno solo a Napoli si sono verificati cento attacchi gravi al personale medico ed infermieristico. Oltre tremila in tutto il Paese.

“Siamo contenti che sia stato approvato un Decreto che istituisce la Consulta permanente per le professioni sanitarie e sociosanitarie – ha dichiarato Biagio Papotto, Segretario Generale della Cisl Medici Nazionale – Come ha detto il ministro Speranza, con l’ascolto e con il confronto si governa meglio. Confrontarsi con i rappresentanti dei medici, degli infermieri, dei farmacisti e di tutti i professionisti della salute sarà un’arma in più per governare meglio la situazione drammatica che viviamo quotidianamente per cui questo governo è chiamato a trovare una soluzione efficace. Lo Stato dovrà dare una risposta molto ferma nel prendere delle contromisure, perchè le aggressioni ai medici e al personale sanitario sono intollerabili. La violenza non è mai accettabile ma in particolar modo quando si rivolge a chi si prende cura ogni giorno delle persone, negli ospedali come negli ambulatori, per le strade e nelle case. Mi auguro che questa norma non tardi ulteriormente ad essere approvata e che faccia la differenza”.

@vanessaseffer

Da Sanità Informazione

 

Anno Nuovo, brutte abitudini consolidate. Il 2020 si apre con due aggressioni a medici in servizio

 
Napoli. Due nuovi episodi di aggressione a personale sanitario  dall’inizio del nuovo anno. Luciano Cifaldi, Segretario generale della Cisl Medici Lazio, rilancia l’allarme sul pericolo ormai insostenibile a danno di chi lavora per salvare vite umane

 

Proviamo a partire dalla fine e da quanto si apprende dagli organi di stampa. Poco dopo la mezzanotte del 31 dicembre una dottoressa di servizio al San Giovanni Bosco di Napoli è stata aggredita verbalmente e fisicamente con una bottigliata in faccia da un paziente, probabilmente psichiatrico; nella stessa città un medico intervenuto in aiuto di un paziente e a bordo di un’ambulanza, appena aperto lo sportello del mezzo è stato colpito da un petardo.  Due episodi di aggressioni a medici in poche ore allo scoccare del 2020

“Inaccettabili le aggressioni a chi ogni giorno si prende cura di noi. Bisogna approvare al più presto la norma, già votata al Senato, contro la violenza ai camici bianchi. Non si può aspettare”. E’ la dichiarazione del Ministro Speranza cui fa eco la Croce Rossa: “Qui a Napoli peggio che nei territori di guerra. L’aspetto più inquietante di questi nuovi episodi di aggressione a personale sanitario è che ci si abitui a questo stato di cose “

Non si arresta la violenza negli ospedali con aggressioni al personale sanitario.

“Non ci fermiamo neanche noi della Cisl Medici Lazio nel denunciare questi episodi criminali. Non vogliamo abituarci a questi continui episodi a costo di risultare ripetitivi e magari anche noiosi per qualcuno. Siamo tutti a rischio. Solidarietà ai colleghi di Napoli e l’augurio ai politici di una ottima digestione dei pranzi e delle cene di questi giorni festivi. A noi è rimasto sullo stomaco il ritardo nell’approvazione della specifica legge da parte della Camera dei Deputati dopo l’approvazione al Senato”. Così in un comunicato stampa Luciano Cifaldi, Segretario generale della Cisl Medici Lazio.

@vanessaseffer
Da DailyCases

La battaglia di Cisl Medici Lazio contro le aggressioni in sanità: nel 2020 si adottino soluzioni sensate

La guerriglia urbana incontrollata non dà tregua agli operatori della sanità e non consente a migliaia di professionisti di lavorare con serenità. È impensabile che i medici ogni giorno vadano al fronte, e rischino la propria vita

 

Nel 2019 la Cisl Medici Lazio ha condotto una vera e propria battaglia per sottolineare la gravità e l’incessare delle quotidiane violenze subite da medici e operatori sanitari sui posti di lavoro. Veri e propri assalti frontali fatti di parolacce, sputi, improperi, minacce, conditi spesso da atti delinquenziali come la rottura di oggetti o macchinari nei Pronto soccorso e nelle corsie, negli ambulatori e nelle ambulanze. Il più delle volte, per ovvie ragioni, sono le professioniste donne a farne le spese.

Ci sono stati episodi limite, dove purtroppo le cronache hanno dovuto riportare coltellate, spari di pistola, aggressioni fisiche. Un bollettino di guerra che non ha una specifica collocazione territoriale: per una volta, non ci sono differenze fra il Nord, il Centro ed il Sud. In caso di aggressioni ai medici, “tutto il mondo è paese”.

La Cisl Medici Lazio nel 2019 ha incessantemente portato avanti un’azione di sensibilizzazione sul fenomeno, una battaglia di civiltà che non si fermerà nel 2020, anzi incrementerà l’esposizione mediatica perché davvero si trovino soluzioni “sensate”. Il dottor Luciano Cifaldi, oncologo e segretario generale della Cisl Medici Lazio, ha coinvolto in maniera trasversale rappresentanti politici e delle istituzioni, come i prefetti del Lazio. Diverse testate giornalistiche, sia di settore sia di orientamento politico caratterizzato, hanno dimostrato una concreta sensibilità sul tema ampliando il grido di allarme che è stato raccolto e rilanciato anche dai medici della Cisl di Roma Capitale e delle altre province del Lazio.

Questa guerriglia urbana incontrollata non dà tregua agli operatori della sanità e non consente a migliaia di professionisti di lavorare con serenità. E non si tratta di professionisti qualunque, ma dei nostri medici, veri eroi in un mondo, quello della Salute, fatto di tagli, di blocco del turnover, di problematiche legate al contratto nazionale e di carenza di personale, a cui troppo spesso si chiede di lavorare il doppio o il triplo delle ore che dovrebbero essere previste.

Il 2020 sarà un anno in cui la Cisl Medici Lazio darà battaglia su questo tema, perché è impensabile che i medici ogni giorno vadano al fronte, e rischino la propria vita.

@vanessaseffer

Da Sanità Informazione

Un laboratorio per non confondere l’opinione con la scienza, parla Garofano

Un laboratorio per non confondere l’opinione con la scienza, parla Garofano In pochi anni dalla sua fondazione il Centro regionale antidoping “Alessandro Bertinaria”, incastonato nelle mura dell’ospedale San Luigi di Orbassano a Torino, è diventato uno dei centri di eccellenza europei in fatto di analisi tossicologiche e biochimico-cliniche, superando la sua mission iniziale, andando ben oltre la sua natura di struttura “olimpica”, poiché nato in occasione delle XX Olimpiadi invernali e IX Giochi paralimpici invernali di Torino 2006, dimostrando subito capacità imprenditoriali tali da poter vivere anche oltre quell’evento. Fino a diventare un riferimento nazionale dove effettuare test ed analisi autoptiche per tribunali e procure, forze dell’ordine, Asl, enti pubblici, per le medicine legali, per reati di varia natura, connessi al traffico di droga o incidenti stradali. In pochi anni il centro si è accreditato come primo laboratorio di tossicologia del Paese. È il più grande centro in Europa per le analisi che si effettuano sul capello. Nel centro vengono gestiti circa 60 mila campioni di diverse matrici l’anno, per 300mila determinazioni. Ne parliamo con il direttore sanitario del centro, il professor Paolo Garofano, anche responsabile del Laboratorio di biologia e genetica forense del centro. Sua la progettazione e la messa in opera del prestigioso e innovativo laboratorio, fiore all’occhiello del centro.

Professore, può spiegare al grande pubblico cos’è la genetica forense?

Si tratta dello studio delle tracce trovate sulla scena del crimine e la loro caratterizzazione, perciò l’estrapolazione di un certo profilo genetico, questa l’attività principale. L’altra attività è quella banalissima della diagnosi di parentela che si fa civilisticamente per cercare di capire se c’è un legame di parentela tra due persone che magari non si conoscono oppure per accertarlo in caso di contenzioso. Poi ci sono delle nuove discipline accessorie che cominciamo ad utilizzare, come l’identikit genetico, cioè dalla traccia riuscire a capire quali sono i tratti somatici in un soggetto, gli occhi, i capelli, alcuni tratti del viso come gli zigomi, il mento, le labbra, questo però è un po’ più a livello sperimentale, fa parte sempre della genetica forense ma è ancora in fase sperimentale. Poi l’ultima attività che facciamo, sempre ancora a livello sperimentale, il cosiddetto Ancestry, l’ultima nata di genetica forense che si occupa delle relazioni di popolazione, da dove si viene dal punto di vista ancestrale.

Molti casi giudiziari sono balzati alla cronaca per l’efferatezza dei delitti. Poi è guerra tra i periti. Quale è oggi l’impatto della genetica forense sui grandi casi giudiziari?

È estremamente alto, a volte a mio avviso esagerato! Il cosiddetto “Csi effect” ha enfatizzato l’attenzione sulle scienze forensi in generale e “deformato” le aspettative. Molte volte la prova genetica è determinante soprattutto se contestualizzata correttamente e supportata da altri tipi di attività investigative (intercettazioni, telecamere, testimonianze), altre volte diviene oggetto di scontro tra consulenti o periti che diviene mediatico. L’accreditamento di laboratorio tende a rendere tutto più oggettivo e meno discutibile ed è questo il livello al quale tutti dovrebbero tendere per evitare di confondere l’opinione con la scienza.

Un cognome piuttosto famoso, il suo. Le pesa essere il nipote di Luciano, già comandante dei Ris di Parma, oggi star della comunicazione nei casi di cronaca nera oltre che consulente di parte in numerosi processi, o no?

In passato, forse. Perché questo non mi ha permesso nell’immediatezza di farmi valutare per quello che ho fatto, per il mio percorso professionale e per quello che sono. Nel senso che io ho avuto questo modello che è stato mio zio dal punto di vista dell’immaginario. Io poi ho fatto un altro percorso: mi sono laureato in medicina ed ho svolto tutta la mia attività fin da quando ero studente in un laboratorio, fino ad ora, lavorando prima con le mani e poi ricoprendo cariche dirigenziali anche diverse da quelle mediche, come evidenziato sul mio curriculum; sono stato un dirigente pubblico, ho spaziato nella genetica forense degli alimenti, perciò spesso mi presentano come il “nipote di”, ma adesso ho anche una mia connotazione e professionalità ben distinta dal mio legame di parentela.

Che cosa è una banca dati forense?

Ce ne sono di molte tipologie. Se parliamo di genetica è la banca dati nella quale sono inseriti i profili genetici delle persone indagate. È molto complicato, c’è una legge, la 85 del 2009 che disciplina la banca dati, che serve per immagazzinare dati che possono essere genetici, possono essere banca dati dattiloscopiche per le impronte digitali, ma esistono banche dati forensi di altro genere, faccio un esempio: in alcuni paesi ci sono quelle del cosiddetto profilo ambientale, di quegli isotopi chimici e radioattivi che sono nel terreno, che individuano il terreno; ci sono banche dati forensi dei semi agricoli; oppure dei semi degli animali da riproduzione; sono degli archivi il cui dato archiviato può essere di vario genere. Parlando di genetica forense umana, le due maggiori sono quelle relative alle impronte dattiloscopiche e i profili genetici.

Non credo che nel suo lavoro possa esserci qualcosa che la stupisca o la sconvolga. Tuttavia c’è stata un’esperienza professionale o un episodio che ha lasciato il segno?

Quando si entra in un caso si entra in modalità professionale, perciò obbligatoriamente lasci da parte l’emotività che poi magari torna quando si scrive la consulenza o quando si valutano i dati. Devo dire che c’è stato un episodio, l’uccisione di un neonato partorito in casa clandestinamente, che mi ha dato molto da pensare sulla natura umana, ma capitano casi di tutti i generi, da persone tagliate a pezzi e messi in una valigia lasciata in un bosco, piuttosto che arti rinvenuti nei posti più impensati o stanze familiari dove apparentemente senza motivi validi si è generata una ferocia che non puoi pensare che lì si poteva uccidere qualcuno. Ma se dovessi dire che devo pensare con paura o con emotività a qualcosa, l’unico episodio è quello del neonato.

Questo centro che lei dirige non è solo un riferimento per gli episodi che accadono in Italia, ma anche per i casi che accadono nel resto d’Europa. Come è il rapporto con i magistrati italiani e con le corti straniere, che differenza c’è e se è il caso, anche con la politica, con la polizia giudiziaria.

Non ci sono capitati casi di genetica forense extracomunitari, ma sulla tossicologia sì. Ci capita di fare analisi sul capello, anche per grandi Paesi come gli Stati Uniti. Il rapporto con i magistrati italiani è essenzialmente di fiducia, perciò se c’è un rapporto con noi significa che si fidano di noi e collaboriamo molto volentieri con quello che fanno. Con le Forze dell’ordine anche, ovviamente abbiamo dei competitors che sono i Ris e la Polizia scientifica, ma competitor per modo di dire, perché se ci sono una serie di reati considerati minori che non perseguono più, che poi sono la maggior parte, le aggressioni, i furti, cose che paradossalmente rappresentano se andiamo a vedere le statistiche quasi il 90 per cento dei reati e lo stato tende più a non perseguire. In questo senso abbiamo una grande collaborazione con le forze dell’ordine, perché chi investiga sulla strada chiede risposte per poter chiudere il cerchio. Magari fanno molte attività e poi si vedono negata la possibilità di fare le analisi e spesso spingono i magistrati a darle a noi o ci chiedono direttamente di farle per loro conto.

Ma questi dati, nella banca dati, restano per sempre oppure vengono distrutti dopo venti, trent’anni?

Ci sono numerose modalità sia d’immissione che di cancellazione. Noi come Stato italiano siamo forse il più complicato al mondo in questo. La lunga gestazione che c’è stata della legge ha portato poi a delle storture, perché quando si ha un dato genetico, soprattutto di qualcuno che delinque, sarebbe opportuno averlo per sempre. Come dico sempre, i nostri dati anagrafici, le foto e tantissimi altri dati sensibili, girano liberamente per la rete senza un reale filtro, mentre i dati genetici che potrebbero per assurdo risolverti un caso a distanza di anni magari vengono cancellati. Gliene racconto una che è il paradosso di tutto: pensi che una delle prime volte che ho trattato un cold case, si trattava di un serial killer che si chiamava Minghella, che ha ucciso nel nord Italia un numero molto considerevole di donne, generalmente prostitute, ad iniziare dalla fine degli anni Settanta fino alla fine degli anni Novanta. Lui ha avuto diverse condanne all’ergastolo. Il suo Dna, malgrado la banca dati fosse già attiva, non era inserito. Allora sono dovuto andare in carcere a prenderlo io, c’è stata anche una diatriba sul fatto che lui si potesse opporre o meno, ma insomma, nel sistema italiano il prelievo del Dna per coloro che vanno in carcere viene fatto all’uscita della misura di sicurezza e non all’entrata. Perciò, siamo nel paradosso, che gli ergastolani non vengono mai prelevati e molti casi che potrebbero essere risolti a tavolino così non lo sono.

Incredibile.

Abbastanza.

Perché oggi un giovane medico dovrebbe decidere di fare il medico forense? Qual è un motivo di attrattiva visto che probabilmente la passione quando ci si iscrive in Medicina penso subentri dopo.

Qui rientra in gioco mio zio. Io da adolescente volevo fare il pilota d’aereo e mi si prospettò invece la possibilità di entrare in Accademia di sanità militare. Fu il primo concorso che vinsi ed entrai. Essere medico militare comporta di divenire automaticamente medico legale e questo mi avrebbe aperto una serie di porte che a me non interessavano molto, in medicina se non avessi fatto il genetista avrei fatto il chirurgo perché mi piacciono le cose manuali o tecnologiche. Mi sono iscritto all’Università nel 1985 e nello stesso anno sono state scoperte le sequenze del Dna che poi avrebbero permesso di estrapolare il profilo genetico e poi un po’ per l’immagine di mio zio a quel tempo e un po’ per questo e per l’opportunità da studente che avevo di frequentare un laboratorio, ho lasciato l’Esercito al terzo anno prima di firmare per la carriera definitiva, ed ho scelto questa strada rimettendomi in gioco. Sapevo cosa avrei fatto, negli ospedali militari non c’erano molte prospettive, stavano chiudendo, non avrei potuto fare né il chirurgo né il genetista. Quindi è la vita che in qualche modo ti porta a fare una scelta.

Che cosa ha portato lei di nuovo e di diverso alla Genetica forense dato che la vita l’ha portata fino a lei? 

L’ho vista nascere dalle basi nel laboratorio dove io mi sono formato come esperienza di base, è cresciuta nella Polizia e Carabinieri in epoca pionieristica, poi si è un po’ fermata. Quando io sono giunto a poter incidere sull’ambiente mi sono domandato cosa mancasse e mancavano tante cose, oltre al funzionamento della Banca dati mancava la cosa principale che era riuscire a interpretare le tracce complesse. Sono la maggior parte delle tracce che si trovano sul luogo del reato e che consistono principalmente in commistioni di più soggetti, per esempio Dna di più persone, oppure Dna cosiddetto degradato o a bassa concentrazione dal quale è possibile estrapolare solo un profilo parziale. Per dare un’idea questo è circa il 70 per cento di tutto quello che esce fuori dalle tracce genetiche perciò un po’ di tempo fa rimaneva indeterminato, si facevano delle indagini e queste cose non venivano attribuite. Io, un po’ con le attribuzioni internazionali, un po’ con l’utilizzo di forze provenienti da altre discipline, dalla statistica, dall’ingegneria, anche dal settore che produce strumenti e reagenti, mi sono inventato un metodo che per primo mette insieme tutte queste cose e riesce a discriminare le tracce più complesse. Perciò oggi io dirigo il laboratorio che in Italia e nel mondo è tra i più titolati a fare questo tipo di attività.

Esiste oggi, con tutta questa tecnologia a disposizione sempre in evoluzione, il reato o delitto perfetto?

Il delitto perfetto non esiste in assoluto. Abbiamo comunque molta strada da fare, ci sono ancora tantissime cose che dobbiamo scoprire alle quali non possiamo dare una connotazione reale, una per tutte è ad esempio il datare una traccia. Perciò oggi tiriamo fuori profili genetici anche dalle tracce da contatto, cioè basta toccare un bicchiere, un foglio, qualsiasi oggetto, una maniglia e la traccia rimane lì per moltissimo tempo. Ma non posso sapere se è lì durante il delitto o cinque anni prima era lì. Questo fa una grandissima differenza. Perciò il delitto perfetto vacilla in questo senso perché qualche errore si può fare sempre, calcolando che la genetica è solo una parte del tutto dell’investigazione ed esistono ancora dei limiti che vanno colmati.

Ma con buona pace di chi compie un reato, chi lo commette prima o poi verrà preso o no?

Prima o poi sì, il tempo ci insegna che quello che sapevamo trent’anni fa oggi non è più sufficiente, basta prendere dei reperti di quell’epoca e tirar fuori quelle risposte che allora non eravamo in grado di dare ma oggi sì. Probabilmente tra dieci, vent’anni ne daremo di più di quelle che diamo oggi.

@vanessaseffer