Focus sulle violenze a carico degli operatori sanitari

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Focus sulle violenze a carico degli operatori sanitariNon si fermano i casi di aggressione negli ospedali. L’ultimo episodio lo scorso fine settimana a Civitavecchia: a farne le spese è stato un infermiere aggredito da un paziente in crisi di astinenza da alcool.

Abbiamo chiesto alla dottoressa Tiziana Frittelli, direttore generale del Policlinico di Tor Vergata e presidente di Federsanità Anci, cosa ne pensa della proposta lanciata dal segretario della Cisl Medici Nazionale, Biagio Papotto, di costituirsi parte civile come azienda interessata qualora un dipendente restasse coinvolto in un episodio di violenza durante l’orario di lavoro.

Sono molto d’accordo – ha dichiarato la Frittelli – giuridicamente trovo la proposta molto corretta. Qualunque datore di lavoro veda lesionato il proprio patrimonio più importante, i suoi dipendenti, a prescindere da qualunque altra valutazione etica, può e deve intervenire contro chi ha commesso un atto così vile. All’interno dell’azienda lo scorso anno abbiamo speso 200mila euro per fare dei lavori in Pronto soccorso su segnalazione del nostro risk manager insieme al responsabile per la prevenzione della sicurezza, che ha monitorato tutti gli episodi di violenza intervenuti all’interno dell’azienda; abbiamo notato che uno dei punti deboli era che gli operatori più all’esterno fossero poco protetti e sono stati effettuati dei lavori per metterli in sicurezza. Stiamo inoltre facendo un corso di formazione di difesa personale per i nostri operatori, finalizzato a riconoscere i comportamenti aggressivi e a gestire in sicurezza i comportamenti a rischio. Ho anche istituito una “Unità di benessere psicofisico” diretta da uno psichiatra, che coinvolge altri professionisti per supportare i nostri operatori, anche per il benessere organizzativo.

Come affronta questo stesso tema come presidente di Federsanità?

Con molto impegno. Da sempre mi angoscia la frattura culturale che si sta creando fra il settore pubblico della salute e il cittadino. Sono davvero orgogliosa di lavorare nel nostro sistema salute, che è sicuramente tra i migliori del mondo in termini di risultati rispetto alle risorse utilizzate; ma nonostante questo si è creata questa frattura, che è solamente culturale e incomprensibile. Perché si picchia un medico o un operatore sanitario? Negli ultimi cinquant’anni, una figura sacra come quella del medico, cui ci si rivolgeva come uno dei riferimenti fondamentali della comunità, sembra venuta meno. Oggi la pubblicità parla solo di risarcimenti e malasanità, pagata però dal fondo sanitario che serve per le stesse cure. Morale della favola: l’investimento in comunicazione tra operatori sanitari e cittadini/utenti del servizio mira a dare informazioni sbagliate. Come Federsanità siamo in attesa di una ricognizione che abbiamo chiesto a tutte le nostre aziende associate sui fenomeni di aggressione per prevenirle e per supportare le aziende stesse con una politica comune. Stiamo progettando una iniziativa molto forte a tal riguardo.

Che differenza c’è tra violenza fisica e violenza verbale?

La violenza fisica va da sé che è molto grave, ma quella verbale non è meno grave e a volte non ha un minore impatto. Immagini un ospedale come quello che dirigo che si trova in una zona molto degradata socialmente, seppure parliamo di una struttura bellissima, ben tenuta. Se qualcuno ci guarda male insinua talvolta dei dubbi. In ambito professionale avere su di sé la rabbia, il rancore, la sfiducia, la violenza morale e verbale provoca spesso un irrigidimento in alcuni operatori tale da innescare una spirale che bisogna bloccare prima. Bisogna quindi parlare di buona sanità. I media pongono l’accento in prevalenza sui fatti negativi, mai sul fatto che noi curiamo gratuitamente anche l’ultimo arrivato fra gli extracomunitari. In questo Paese, magari in ritardo, ma tutti si curano. Abbiamo ancora molto da raschiare a livello di ottimizzazione di sprechi, ma nessuno dice mai che in questo Paese c’è un’evasione fiscale tale per cui soltanto una quota fra il 50 e il 60 per cento della popolazione si autogestisce la quota a carico, mentre gli altri stanno a carico di quella parte di popolazione che paga le tasse. Oggi nelle orecchie del cittadino non c’è la percezione di un sistema che è fra i migliori al mondo, che ha portato l’aspettativa di vita media a 82 anni, che il Pronto soccorso è sempre aperto 24 ore su 24 anche quando la richiesta è inappropriata. Non c’è questa percezione. L’idea è solo quella che c’è la malasanità. Allora dobbiamo essere coesi, perché in ballo c’è un servizio fra i migliori del Paese, che è un biglietto da visita.

Perché c’è differenza fra Nord e Sud del paese nella Sanità?

Perché al Sud c’è meno controllo sociale. Perché è la parte del Paese più allo sbando, con molti più problemi, più evasione fiscale se possibile, e dove il rispetto delle regole è più basso.

Il Policlinico Tor Vergata ha 500 posti letto. Il primo luglio del 2014, quando la Frittelli vi ha preso servizio come direttore generale, ha trovato un’azienda con un deficit di meno 73 milioni e il 2017 chiuderà verosimilmente con meno 37 milioni. Spendono meno e producono di più, che in un’azienda è ciò che conta.

@vanessaseffer

 

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Violenze contro gli operatori sanitari: l’intervista a Papotto (Cisl Medici)

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Violenze contro gli operatori sanitari: l’intervista a Papotto (Cisl Medici)Perché rischiare la vita per curare? “Ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica sul posto di lavoro è considerato un problema di salute pubblica nel mondo” secondo il National Institute of Occupational Safety and Health. Una cosa che accomuna tutti i Paesi del mondo su questo tema è il fatto che spesso la maggior parte degli avvenimenti di violenza (l’85 per cento delle volte) non viene denunciata da chi li subisce, più che altro per paura, a meno che non vi siano lesioni a documentare i fatti. C’è poi l’annosa questione sulla definizione di cosa o come definire una violenza o “quando” la si possa definire tale, vivendo spesso in una situazione ambientale che propende a sminuire, tesa ad assolvere o, peggio, incapace di riconoscere certi abusi. L’invito è a non minimizzare. Il primo capitale delle Istituzioni è il capitale umano.

Durante il convegno della Cisl Medici, dal titolo “Il benessere lavorativo, definizione e percorsi” svoltosi a Napoli lo scorso fine settimana, il segretario nazionale della Cisl Medici, dottor Biagio Papotto, ha pronunciato parole decise e molto significative sul tema della violenza contro gli operatori sanitari. La categoria più vessata è quella infermieristica, perché più frequentemente a contatto col paziente; le donne medico sono particolarmente a rischio. I medici, è quanto emerso dalle interviste e dalle indagini sugli atti di violenza compiuti in molte città italiane da nord a sud, risultano maggiormente esposti ad atti di aggressione presso i servizi ambulatoriali, nelle guardie mediche, nei Pronto soccorsi o durante i servizi notturni a domicilio.

La violenza verbale interessa tutti gli attori che operano nella sanità: dagli insulti alle minacce, dalle intimidazioni allo stalking. Episodi di varia entità che hanno messo in crisi tutti gli operatori sanitari. Un problema che affonda le sue radici in gravissimi problemi culturali e sociali.

“Questa escalation di avvenimenti ha fatto in modo che noi della Cisl Medici prendessimo una posizione fortissima – ha detto il segretario nazionale Papotto – abbiamo scritto al ministro e abbiamo chiesto e ottenuto un tavolo permanente per quanto riguarda la sicurezza sul posto di lavoro. Abbiamo coinvolto la Fnomceo (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) e metteremo in mora i direttori generali che non provvederanno per tutto ciò che riguarda la sicurezza sui posti di lavoro, come telecamere, posti di polizia interni alle strutture, perché il medico che esce tutti i giorni da casa per salvare delle vite, certamente per questo non può perdere la sua. Una delle iniziative che prenderemo tempestivamente sarà che i direttori generali delle aziende sanitarie dovranno immediatamente costituirsi parte civile a fronte di episodi di violenza nei confronti degli operatori sanitari. Il pericolo è che il lavoratore aggredito venga abbandonato senza avere nessuno alle spalle, l’azienda che lo difenda o gli stessi sindacati”.

Alla domanda postagli se la Cisl Medici possa costituirsi parte civile essa stessa insieme all’azienda sanitaria di appartenenza dell’operatore sanitario da difendere, il dottor Papotto risponde: “Non so se il sindacato stesso possa farlo, per questo chiederò agli avvocati se sarà possibile studiare una formula, ma costringeremo le aziende a costituirsi parte civile, e se possiamo anche noi entrare attivamente nella difesa dei lavoratori lo faremo. Speriamo che il nuovo ministro appena insediatosi ci convochi in fretta e che poi predisponga una legge ad hoc a tutela degli operatori sanitari e dei medici in particolare”.

@vanessaseffer

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Rems, presìdi sanitari o prigioni bianche? (seconda parte)

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Rems, presìdi sanitari o prigioni bianche? (seconda parte)Nella Asl Roma 5 di Tivoli si è tenuto il primo tavolo italiano di discussione sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), con la significativa partecipazione di una rappresentanza delle persone assistite nelle strutture, oltre che dei sindaci in rappresentanza della cittadinanza ospitante le strutture, degli operatori sanitari e aziendali, del Garante dei detenuti.

Per la prima volta ci si è seduti tutti insieme allo stesso tavolo per valutare le attività in corso e per discutere dei problemi da affrontare. Purtroppo a questo tavolo, per una problematica improvvisa, mancava la Procura che ha un ruolo importante in questa vicenda; non bisogna dimenticare inoltre che sebbene la riunione fosse in una Asl specifica, quella di Tivoli, nelle Rems ci vanno persone provenienti da ogni parte della regione. È importante la partecipazione degli organismi giudiziari, anche quelli che istruiscono i procedimenti, perché uno dei problemi più gravi è di lavorare sempre nella più stretta necessità. Abbiamo chiesto al Garante dei detenuti, Stefano Anastasìa (nella foto), presente alla riunione, una sua opinione sulla situazione obiettivamente anomala che vivono buona parte delle persone ospitate nelle Rems, molte delle quali ancora in attesa di una decisione definitiva da parte della magistratura sulle loro condizioni di salute mentale, sulla loro pericolosità sociale, come se fossero, diciamo, in una sorta di misura cautelare.

“È una situazione effettivamente anomala – spiega Anastasìa – rispetto alla quale c’è una difficoltà degli stessi operatori delle Rems ad avviare un piano terapeutico significativo, perché si tratta di persone che l’indomani potrebbero essere pienamente giudicate responsabili del fatto, tornare nell’istituto penitenziario, oppure addirittura essere prosciolte, assolte ed essere liberate, quindi questa è una difficoltà vera, che incide notevolmente sulla lista d’attesa, e su questo versante è importante una sensibilizzazione da parte della magistratura, quella che istruisce i procedimenti e decide sull’incapacità di intendere e di volere per evitare che troppo facilmente ci sia un’associazione tra malattia mentale e pericolosità sociale. Di fronte al presunto autore di reato che abbia problemi di salute mentale più o meno evidenti, la reazione in qualche modo immediata da parte degli organi giudiziari è quella di predisporre una misura cautelare, in questo modo le Rems si saturano facilmente”.

Ma è una mancanza di sensibilità governativa o degli organi giudiziari?

Secondo me è una preoccupazione da parte della magistratura che quando c’è un reato commesso da un presunto malato mentale ha come naturale propensione di mettere in qualche modo in sicurezza e sotto custodia queste persone e si ricorre con eccessiva facilità all’internamento nelle Rems, quindi è un problema culturale della magistratura; ma anche la società ha questi timori.

Ci sono poche Rems? Come si risolve il problema delle liste d’attesa?

Per un versante riducendo le persone indirizzate alle Rems, che sono immaginate dal legislatore come un’estrema ratio, quindi non tutti i malati di mente e gli autori di reato devono andarci. Bisogna avere una particolare pericolosità sociale, tale per cui non possono essere seguiti attraverso altre forme di cure e terapia o magari altre strutture. Qui si apre un altro versante: accanto alle Rems i dipartimenti di salute mentale devono in qualche modo sostenere una capacità di accoglienza da parte di residenze e strutture terapeutiche sul territorio che non necessariamente devono avere le caratteristiche delle Rems, cioè non necessariamente devono essere delle strutture chiuse. E’ chiaro che in assenza di questa capacità di presa in carico sul territorio tutto finisce sulle Rems e le Rems non reggono.

Perché al Nord non ci sono liste d’attesa?

Questo dipende da una diversa capacità di organizzazione dei servizi sul territorio. Non è che al Nord ci sia una maggiore capienza nelle Rems. La regione Lazio ha 91 posti in Rems sui 600 che ci sono in Italia, parliamo di una regione che non avendo 1/6 della popolazione italiana ha quasi 1/6 dei posti in Rems. Laddove ci sono servizi di salute mentale sul territorio che possono prendere in carico persone che abbiano commesso reati minori, seguirli e se necessario ospitarli in strutture terapeutiche territoriali, le Rems non si affollano. Viceversa, laddove il territorio non offre queste possibilità tutto viene rivolto alle strutture contenitive delle Rems. Si rischia di cadere dalla padella alla brace, in fondo gli ospedali giudiziari che sono stati chiusi erano questo. Se si vuole dare seguito a quella riforma bisogna essere capaci di costruire una capacità di presa in carico del territorio nel suo complesso, che riduca i tempi di permanenza per esempio in Rems. Quando gli operatori della Rems ritengono che il paziente sia maturo per lasciare la struttura in assenza di una struttura familiare solida, di una ospitalità, non si sa dove mandarle queste persone. Dopo 6 mesi-un anno si può rivalutare la pericolosità sociale e riconoscere che la persona può stare in una struttura residenziale terapeutica sul territorio, ma per far questo è necessario che il territorio sia attrezzato, accogliente.

Quanti incontri sono previsti, a quando il prossimo tavolo?

Non abbiamo uno scadenziario preciso, ma realisticamente quattro volte l’anno.

Tra i partecipanti al tavolo tecnico anche una rappresentanza dei pazienti. Si rendono conto dell’importanza data loro in questa circostanza?

Mi è sembrato che fossero ben consapevoli dell’importanza di questa partecipazione, che hanno utilizzato per rappresentare i problemi che hanno dentro. Ci hanno costretto ad ascoltare le loro problematiche di ordine pratico e organizzativo, della possibilità di svolgere attività di studio e di formazione al lavoro. Dopo aver superato i momenti di scompenso ritengono di dover superare anche queste sfide.

La riforma della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e la nascita delle Rems non si può esaurire in questo semplice cambiamento, da quei grandi istituti a queste piccole strutture. Ma comporta una diversa modalità di funzionamento di tutti i servizi di salute mentale. Il lavoro è molto lungo e va esteso a tutti i servizi di salute mentale, sul territorio, dentro gli istituti di pena, dentro le Rems. La riforma è a tutto campo, questa è la sfida che abbiamo davanti, con tutta la fatica del caso.

Per adesso il passo del “tavolo del dialogo” delle parti in causa, voluto dal Commissario straordinario della Asl Roma 5, Giuseppe Quintavalle, ha dato stimoli a una nuova forma di collaborazione che certamente porterà maggior chiarezza, obbligando ciascuno degli attori in campo a fare il suo lavoro, al meglio.

@vanessaseffer

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Rems, presìdi sanitari o prigioni bianche? (prima parte)

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Rems, presìdi sanitari o prigioni bianche? (prima parte)   Dal 2015, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Queste strutture sanitarie accolgono di fatto autori di reati molto gravi essendo affetti da disturbi mentali ed essendo conseguentemente socialmente pericolosi. La gestione interna delle Rems è di esclusiva competenza sanitaria, quindi delle Asl. Qui le persone vengono curate, non recluse, quindi si tratta di “pazienti”. Il tempo massimo di permanenza nella Rems non può essere superiore al massimo della pena prevista del reato del paziente. Qui, pertanto, dovrebbero intervenire in modo essenzialmente perfetto le parti in causa: i medici, la magistratura, la politica.

Nel Lazio ci sono cinque Rems: due a Palombara Sabina e una a Subiaco dipendenti dalla Asl Roma 5 di Tivoli; due a Pontecorvo e Ceccano dipendenti dalla Asl di Frosinone. 91 posti in tutto con 70 persone in lista d’attesa solo nel Lazio, 400 nel Paese, dal Lazio in giù.

“Questo dipende da tanti fattori – ci spiega il primario psichiatra dottor Giuseppe Nicolò, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 5 – la tempistica nelle Rems dipende in parte dal sanitario e in parte dal giudice. Il paziente rimane da noi 3-4 mesi, abbiamo un tempo di permanenza medio che supera di poco l’anno solare, una media di 380 giorni, oppure tempi molto prolungati che superano gli 800 giorni.

Mentre i pazienti sono in lista d’attesa, nel frattempo dove si trovano?

I pazienti in attesa di Rems sono un problema nazionale. Alcuni essendo stati giudicati incapaci non punibili non possono stare in carcere, ma alcuni sono reclusi. Magari qualcuno di questi mentre si trova in carcere può mettere in atto comportamenti suicidari e questo è un problema gravissimo oltre che una disgrazia, perché si trova in un posto dove non dovrebbe stare. Altri invece sono in libertà e questo crea un altro tipo di problema, perché la misura di sicurezza serve a proteggere la società solo dalle eventuali azioni criminose del soggetto che ha un disturbo mentale. Succede solo in alcuni casi che abbiamo disponibilità per qualche soggetto e che questo sia irrintracciabile. I tempi di attesa possono variare da alcuni mesi all’anno.

Queste strutture sanitarie accolgono persone affette da disturbi mentali gravi, socialmente pericolose. Autori di omicidi, anche efferati. Queste persone vanno curate e poi reinserite nella società, come scritto nella norma. Che vuol dire, che alcuni di questi pazienti spariscono?

Essendo a piede libero, alcuni di questi soggetti che non sono stati inseriti all’interno delle Rems possono darsi alla fuga. Eventi rari ma possono verificarsi. I pazienti che vengono da noi invece intraprendono un trattamento farmacologico, un trattamento riabilitativo e una riabilitazione in senso lavorativo. Così alcuni pazienti possono davvero reinserirsi in un ambito sociale. Ma la realtà vuole che circa il 62 per cento dei pazienti dimessi dalle Rems finiscono in strutture riabilitative meno intensive, come le comunità terapeutiche; ciò significa che quando la situazione è molto grave già aver ottenuto che il soggetto aderisca ad alcune regole e svolga una serie di attività quotidiane è un grosso risultato. Con molta onestà non possiamo pensare a una integrazione totale per questi pazienti con sintomi così gravi.

Come si svolge la vita all’interno di una Rems, i pazienti hanno spazi, uscite autorizzate, attività collettive?

Sì, i pazienti hanno uscite autorizzate due o tre volte alla settimana, fanno attività sportive in strutture vicine e hanno qualche permesso di tornare a casa dai familiari quando è possibile. Tanta psicoterapia, terapie di gruppo, valutazioni testologiche, riabilitazioni.

I cittadini in questo caso di Palombara Sabina o di Subiaco non sono dubbiosi o impauriti di avere queste presenze intorno?

Non è mai successo nulla, i nostri utenti sono ben curati e trattati. Poi ci muoviamo in condizioni di massima sicurezza avendoli osservati per un periodo di circa sei mesi, pertanto i rischi possono essere ritenuti gestibili. In tre anni di attività non abbiamo avuto alcun evento spiacevole.

Un punto fondamentale è anche l’accordo con la Prefettura di competenza nell’area dov’è ubicata la Rems per avere uno standard di sicurezza all’altezza.

Quando usciamo avvertiamo i carabinieri che ormai ci conoscono molto bene, però è fondamentale che le nostre uscite le facciamo da soli, nessuno ci dà la scorta perché sarebbe anti-terapeutico.

Quanti operatori avete, e sono altamente specializzati?

Ottantuno operatori nelle nostre tre strutture Rems, 27 operatori per ciascuna. I pazienti sono solo uomini, perché la normativa penitenziaria non prevede condizioni miste. Hanno tutti una ventina d’anni di storia psichiatrica complessa. Molti sono immigrati, o con bisogni complessi, per cui la situazione si complica perché servono mediatori culturali, o c’è necessità di darli in carico a più operatori che svolgono servizi diversi. I pazienti hanno un basso livello culturale nel senso che il livello di scolarità è molto basso, hanno anche invalidità, la gran parte è singolo o divorziato, hanno sviluppato una resistenza ai trattamenti.

Sarebbe stato opportuno seguire questo tipo di persone già anni prima?

Questo doveva essere già stato fatto, spesso vi è stato un fallimento di un progetto territoriale che non ha retto più di tanto.

Avete da poco costituito un tavolo tecnico, prima esperienza in Italia con il dottor Quintavalle, vostro commissario straordinario, che ama sperimentare.

Riproduce in piccola scala in una condizione diversa il tavolo che sta nelle carceri, che mette a confronto i vari attori di questo scenario: la Procura della Repubblica, il Garante dei detenuti, i sanitari, i sindaci in rappresentanza della popolazione e tutta una serie di componenti che ci possono aiutare a valutare a 360 gradi quale potrebbe essere la migliore offerta per questi pazienti.

@vanessaseffer

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Parlamentari in salute

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Parlamentari in saluteLa XVIII legislatura ha tagliato il nastro e non vediamo l’ora di vedere come cambierà il vento almeno per quanto riguarda la situazione della sanità. I disservizi del Sistema sanitario nazionale (Ssn) non sono mai diminuiti, anzi, al contrario, sono aumentati. Il Paese è sempre più spaccato, con un Nord dove gli ospedali sembrano funzionare meglio e un Sud dove perlopiù arrancano e in cui le liste d’attesa sono lunghissime e da accettare con rassegnazione, dove se ti dice bene per fare una tac possono passare tre anni.

Ma adesso che la sanità in Parlamento può contare su 59 veri professionisti della salute tra confermati e new entry possiamo pensare di sperare in miglioramenti e non in tagli, sprechi, commissariamenti o incarichi inventati. Possiamo augurarci, ad esempio, che la metà dei pasti delle corsie degli ospedali non finisca nell’immondizia o che il 40 per cento dei farmaci che abbiamo a casa non vada nella spazzatura perché scaduto, oppure che ci siano attese di mesi o anni per gli esami diagnostici.

Adesso abbiamo 37 medici, 8 farmacisti, 4 biologi, 4 psicologi, 2 fisioterapisti, 2 infermieri, un assistente sociale e un operatore sanitario che si occuperanno di legiferare per risolvere gli episodi di corruzione di cui è affetta la sanità nazionale e sappiano mettere ordine a tutto questo. Di questi, 35 siederanno alla Camera dei deputati e 24 al Senato. Il partito più rappresentativo è il Movimento 5 Stelle con 28 parlamentari nei due rami del Parlamento, a seguire Forza Italia con 10 rappresentanti, poi la Lega con 9 e il Partito Democratico con 6.

 

Camera dei deputati

 

I medici: Rossana Boldi (Lega); Fabiola Bologna (M5S); Mario Alejandro Borghese (Maie); Guido De Martini (Lega); Graziano Delrio (Pd); Paolo Ficara (M5S); Giulia Grillo (M5S); Nicola Grimaldi (M5S); Marco Marin (FI); Rosa Menga (M5S); Silvana Nappi (M5S); Nicola Provenza (M5S); Paolo Russo (FI); Doriana Sarli (M5S); Paolo Siani (Pd); Giorgio Trizzino (M5S); Manuel Tuzi (M5S); Leda Volpi (M5S); Alberto Zolezzi (M5S).

I farmacisti: Roberto Bagnasco (FI); Giuseppe Chiazzese (M5S); Marcello Gemmato (FdI); Caterina Licatini (M5S); Andrea Mandelli (FI); Carlo Piastra (Lega);

Altre professioni sanitarie: Massimo Enrico Baroni (M5S), psicologo; Maria Teresa Bellucci, (FdI) psicologa; Elena Carnevali (Pd), fisioterapista; Andrea Cecconi (M5S), infermiere; Giuseppe D’Ambrosio (M5S), fisioterapista; Ilaria Fontana (M5S), biologa; Elena Lucchini (Lega), biologa; Stefania Mammì (M5S), infermiera; Francesca Troiano, (M5S) psicologa; Lorenzo Viviani (Lega), biologo.

 

Senato della Repubblica

 

I medici: Antonio Barboni (FI); Paola Binetti (Ncl); Caterina Biti (Pd); Roberto Calderoli (Lega); Maria Domenica Castellone (M5S); Luigi Di Marzio (M5S); Emilio Floris (FI); Albert Laniece (Autonomie-Psi-Maie); Giuseppe Mangialavori (FI); Gaspare Antonio Marinello (M5S); Raffaele Mautone (M5S); Pino Pisani (M5S); Gianni Pittella (Pd); Maria Rizzotti (FI); Rosellina Sbrana (Lega); Marco Siclari (FI); Pierpaolo Sileri (M5S); Laura Stabile (Forza Italia).

I farmacisti: Elena Cattaneo (Maie); Gianfranco Rufa (Lega).

Altre professioni sanitarie: Elena Fattori (M5S), biologa; Laura Garavini (Pd), assistente sociale; Barbara Guidolin (M5S), operatore socio-sanitario); Raffaella Fiormaria Marin (Lega), psicologa.

Cinquantanove politici che finalmente sappiano che costo abbia un ago nel Lazio, in Campania, in Lombardia o in Sicilia, quanto un lettino operatorio e a quanto ammonta lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri. Diamo loro il tempo di ambientarsi, perché nessuno è mai disposto ad aprire bocca e a rispondere su questi temi.

 

@vanessaseffer

 

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