Ecco perché il MUOStro di Niscemi è illegale e abusivo

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Il terminale terrestre del MUOS, il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare delle forze armate USA in costruzione a Niscemi, è un’opera “in contrasto” col vincolo paesaggistico, “priva di valida autorizzazione” e, quindi, “abusiva ed illegittima”. Ad affermarlo il procuratore della Repubblica di Caltagirone Francesco Paolo Giordano, che ha pure rilevato come le autorizzazioni concesse della Regione siciliana “non appaiono esaurienti e presentano carenze di approfondimento, studio, analisi e valutazione”. Il 17 settembre scorso il dottor Giordano ha così richiesto ed ottenuto il sequestro preventivo dei cantieri, anche se poi il Tribunale di Catania ha annullato in tempi record il provvedimento emesso dal Gip di Caltagirone, Salvatore Acquilino. Adesso sarà la Cassazione a doversi pronunciare sulla veridicità e la legittimità delle conclusioni dei magistrati calatini. La decisione è attesa entro la fine del 2012.

I lavori di realizzazione del MUOS erano iniziati il 18 luglio 2011 presso la stazione Naval Radio Transmitter Facility (NRTF) della Marina militare USA, all’interno della riserva naturale orientata denominata “Sughereta di Niscemi”, inserita nella rete ecologica Natura 2000 come Sito di Importanza Comunitaria (SIC) contrassegnato dal n. ITA050007. Un’area d’incomparabile bellezza e dallo straordinario patrimonio ecologico che invece di essere difesa e preservata è stata irrimediabilmente deturpata dalle ruspe e dalle colate di cemento. “L’opera intrapresa, oltre ad insistere in area soggetta a vincolo paesaggistico e caratterizzata da divieto di nuove edificazioni, è comunque priva del nulla osta del Comune di Niscemi”, annota la Procura di Caltagirone. “L’amministrazione avrebbe dovuto, sin dall’inizio, non concedere l’autorizzazione per evidente contrarietà del progetto alle prescrizioni del vincolo paesaggistico”.

A motivare la richiesta di sequestro dell’area, la scarsa attenzione delle autorità militari italiane e statunitensi alle denunce di “irregolarità” delle opere da parte dei magistrati. Il 27 luglio 2012, in particolare, il dottor Giordano aveva inutilmente invitato il Comandante italiano di Sigonella e l’US Navy a sospendere i lavori. “Sussiste il fondato pericolo che la libera disponibilità della costruzione abusivamente intrapresa possa aggravare le conseguenze del reato”, spiega il procuratore. “La prosecuzione dei lavori del MUOS protrae gli effetti dannosi dei manufatti e non c’è alcuna garanzia di osservanza dei limiti tabellari dell’inquinamento elettromagnetico”.

Il procedimento penale trae origine da un esposto presentato dal Comune di Niscemi il 14 settembre 2011. Dopo una serie di accertamenti con sopralluoghi tecnici e rilievi foto-planimetrici sono stati emessi sei avvisi di garanzia nei confronti del direttore dei lavori, l’ingegnere Giuseppe Leonardi (originario di Paternò) e dei rappresentanti legali delle società esecutrici e delle ditte subappaltarici Francesco Maria Giovannetti (Monterotondo), Maria Rita Condorelli  (Catania), Adriana Parisi (Lageco Srl di Catania), Concetta Valenti (Piazza Calcestruzzi di Niscemi), Carmelo Puglisi (C.R. Impianti di Motta Sant’Anastasia). I sei devono rispondere dei reati previsti e puniti dall’art.44 del Testo Unico del 6 giugno 2001 (disposizioni legislative e regolamenti in materia edilizia) e dagli artt.142 e 146 del decreto legislativo n. 24 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) “perché, in concorso fra loro e con altri soggetti non ancora identificati, senza la prescritta autorizzazione assunta legittimamente o in difformità di essa” hanno eseguito i lavori per la realizzazione del MUOS “in violazione delle prescrizioni di cui al decreto istitutivo della Riserva naturale e del regolamento inerente”.

Il terminale terrestre USA venne approvato dal Ministero della Difesa con nota del 31 ottobre 2006, ma furono richiesti agli alleati la “conformità” del progetto alla normativa tecnica italiana e, prima della messa in funzione del sistema, la certificazione che le emissioni elettromagnetiche “rientrino nei parametri stabiliti dalle vigenti leggi”. Prima volta nella storia della presenza in Italia delle basi militari USA e NATO, il Comando US Navy dovette chiedere alle autorità regionali competenti l’autorizzazione all’avvio dei lavori. Il 9 settembre 2008 si tenne a Palermo la conferenza di servizi ai sensi della legge n. 6 del 2001 a cui parteciparono l’Assessorato regionale territorio e ambiente, la Soprintendenza dei Beni culturali, l’Ispettorato Forestale di Caltanissetta (ente gestore della riserva), il Comune di Niscemi e i rappresentanti della Marina militare USA e del 41° Stormo dell’Aeronautica di Sigonella. Il parere favorevole al progetto fu unanime anche se furono richieste alcune prescrizioni (l’installazione di idranti anti-incendio lungo la strada tagliafuoco, ecc.). “Il provvedimento finale adottato in seguito alla conferenza di servizi risulta illegittimo e va disapplicato in quanto viziato sul piano procedurale e sul piano sostanziale, perché oggettivamente privo di motivazione e di un’esauriente istruttoria”, rileva la Procura della Repubblica di Caltagirone. “Nel testo del verbale vi sono considerazioni generiche, connotate dall’utilizzo di clausole di stile nonché meramente ripetitive del dato normativo, prive di qualsivoglia analisi circa l’impatto che in concreto l’intervento era in grado di determinare sull’ambiente circostante, o meglio sul contesto paesaggistico”. Per i magistrati, la conferenza di servizi avrebbe dovuto rilasciare una specifica autorizzazione paesistica, come previsto dalla legislazione vigente per tutte le opere statali, comprese quelle destinate alla difesa nazionale. Nessun accenno poi alla compatibilità dell’opera con la tipologia del vincolo all’epoca esistente, vale a dire l’inclusione nella Zona B del decreto istitutivo della riserva, “dove erano possibili soltanto gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia di opere preesistenti”.

Ancora più grave quanto accaduto successivamente. Nel dicembre del 2009 il Comune di Niscemi revocò in autotutela il nulla osta rilasciato, ritenendo “necessario e opportuno” il riesame della proposta progettuale sia per quanto riguardava la valutazione dell’art. 5 del DPR n. 357 del 1997 (relativo alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), sia per le valutazioni riguardo l’emissione delle onde elettromagnetiche del MUOS, richieste alle autorità preposte e mai pervenute all’ente. Il primo profilo di carattere ambientale si basava sulla circostanza che dopo l’adozione del PRG da parte del Comune, l’allora assessore Rossana Interlandi, con decreto del 30 dicembre 2009, aveva disposto la riperimetrazione dell’area su cui sarebbe insistito il MUOS. Così essa veniva a ricadere in Zona A, soggetta a norme ancora più restrittive rispetto al passato. Secondo il decreto istitutivo della Riserva di Niscemi, in Zona A è fatto divieto infatti di “realizzare nuove costruzioni ed esercitare qualsiasi attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ivi comprese l’apertura di nuove strade o piste, la modifica plano-altimetrica di quelle esistenti, la costruzione di elettrodotti, acquedotti, linee telefoniche o di impianti tecnologici a rete”. Proprio quanto richiesto e autorizzato per l’installazione del terminale del sistema satellitare. In ogni caso, come sottolinea il dottor Giordano, dopo la riperimetrazione, le opere del MUOS “avrebbero dovuto essere nuovamente esaminate dagli organismi competenti, in quanto non ancora eseguiti e iniziati i relativi lavori”. La stessa Regione avrebbe potuto esercitare il potere di autotutela, revocando l’autorizzazione. “Come ha statuito la giurisprudenza amministrativa, il potere di autotutela è doveroso con riferimento ad ipotesi di provvedimento che risulti in contrasto con interessi a tutela rafforzata, come l’interesse alla tutela dell’ambiente”, aggiunge il procuratore di Caltagirone. “D’altronde l’interesse dell’amministrazione militare era recessivo all’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente in quanto ancora gli impianti, alla data delle riperimetrazione, non erano stati edificati e non era iniziata nemmeno la costruzione”. Un ulteriore “difetto di valutazione e di istruttoria” è documentato dal fatto che nei provvedimenti dell’1 e 28 giugno 2011 che hanno dato il via ai lavori, la Regione non ha menzionato minimamente l’intervenuta riperimetrazione della riserva. Da qui il ricorso al TAR del Comune di Niscemi per ottenere la sospensione di efficacia delle autorizzazioni, poi rigettato sia in primo che in secondo grado. “In buona sostanza, il TAR ha liquidato la questione, non ancora in sede di merito, affermando che parrebbe dubbia la possibilità di revoca del nulla osta”, spiega Giordano. “Tuttavia non appare condivisibile tale tesi in quanto se sopravviene un fatto nuovo che determina la necessità di rivalutare le prevedenti determinazioni, è in potere della pubblica amministrazione esprimere il proprio dissenso sia pure successivamente. Ciò deriva come corollario del principio di buon andamento della pubblica amministrazione e dal dovere di adeguare le proprie valutazioni alle novità che sopraggiungono medio tempore”. Come se ciò non bastasse, secondo quanto rilevato il 26 maggio 2011 dal Comune di Niscemi, sarebbe stata commessa un’ulteriore violazione di legge: il progetto del MUOS, essendo ricadente in area SIC, doveva essere sottoposto previamente alla valutazione di incidenza ambientale. Peccato però che della VIA non esiste traccia.

Di fronte a tutte queste considerazioni, l’amministrazione militare si è sempre difesa affermando che i lavori del MUOS erano una mera “continuazione delle attività già in essere nell’area”, con riferimento all’esistenza dal 1991 a Niscemi di un centro di comunicazione radio della Marina degli Stati Uniti d’America. Tuttavia, sempre secondo la Procura di Caltagirone “è dubbio che le nuove opere possano essere una continuazione delle precedenti, in quanto si tratta di una nuova stazione, e al riguardo basterebbe riflettere sull’enorme divario della scala delle frequenze fra l’esistente (46 Khz) e il nuovo sistema, che trasmetterà a 31 Ghz, pari a 31 milioni di Khz, con conseguente aumento delle radiazioni”.

Proprio relativamente ai potenziali effetti negativi delle onde elettromagnetiche, i magistrati calatini hanno riscontrato notevoli contrasti di valutazione “di cui l’amministrazione che ha rilasciato l’autorizzazione non ha tenuto conto”. Un tema tutt’altro che secondario, data la stretta vicinanza degli impianti con l’abitato di Niscemi (appena 6,2 Km. anche se i primi agglomerati edilizi significativi sono situati ad una distanza di circa due chilometri dal costruendo MUOS). Mentre lo studio commissionato dalla Regione siciliana alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Palermo ha attestato la non pericolosità del sistema satellitare e la misurazione dell’ARPA dei campi elettromagnetici generati dagli impianti militari esistenti avrebbe accertato valori “al di sotto” dei 6 V/m consentiti dalla legge, lo studio dei professori Zucchetti e Coraddu del Politecnico di Torino ha invece documentato alti rischi di “irraggiamento accidentale” e di “danni gravi e irreversibili anche per brevi esposizioni” per la popolazione.

“Nelle valutazioni conclusive del Politecnico di Torino si afferma che è opportuno un approfondimento delle misure, con l’avvio immediato di una procedura di riduzione a conformità, finalizzata alla riduzione delle emissioni, e il blocco di ogni ulteriore installazione”, spiega la Procura. “Alla luce di tali valutazioni appare del tutto insoddisfacente la nota del 14 novembre 2008 del Ministero della Difesa secondo il quale il rischio all’esposizione del personale è minimo ed improbabile, la distanza di sicurezza dell’emissione elettromagnetica pericolosa sarà imposta mediante l’installazione di una recinzione di sicurezza, la misurazione dell’inquinamento da radio frequenze sarà eseguita appena i sistemi saranno installati e pronti ad operare. Ma appare insoddisfacente anche la motivazione dell’autorizzazione del 28 giugno 2011, la quale, sul punto fa riferimento allo studio della facoltà di Ingegneria di Palermo che appare quantomeno limitativo in quanto si occupa solamente del rischio di esposizione agli operatori e non agli abitati circostanti”. Un altro “importante profilo” di illegittimità dell’autorizzazione rilasciata dalla Regione poiché “nessuna approfondita disamina è stata operata sotto il profilo del pericolo alla salute pubblica per effetto dei campi elettromagnetici”.

Di ragioni per il presidente Rosario Crocetta a revocare in autotutela tutte le autorizzazioni concesse dal predecessore Lombardo ce ne sono abbastanza. Che aspetta ancora?

Di Antonio Mazzeo

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Se non ora quando: ‘Italia sia un Paese per donne’

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“Vogliamo siano candidate ed elette numerose donne, forti, autorevoli e rappresentative della realtà delle italiane, che si impegnino a superare le discriminazioni e le diseguaglianze e a modificare la realtà e l’immagine delle donne nel nostro Paese. Ad agire per un’effettiva democrazia paritaria nelle istituzioni, nella vita economica e sociale, nelle relazioni familiari e nella informazione. Per fare dell’Italia una nazione più giusta, più forte, più coesa, più autorevole in Europa e nel mondo”.

“Se Non Ora Quando” si presenta all’appuntamento elettorale del 2013 con un Manifesto che chiede a tutte le forze politiche di impegnarsi per un’Italia nuova che faccia spazio alle donne, e una campagna multimediale dal claim: “Se crescono le donne, cresce il Paese”. In tutta Italia, oggi, i comitati che aderiscono alla rete di Se Non Ora Quando hanno organizzato incontri per presentare il manifesto, lo spot per invitare a votare donna e la videoinchiesta che da domani, in tutto il Paese, chiederà alle donne di raccontare le condizioni in cui vivono e il paese che vorrebbero. Sono precise le richieste che le donne di Se non ora quando – il gruppo di donne, di diverso orientamento culturale, religioso, politico, promotrici della manifestazione del 13 febbraio 2011 che portò in piazza un milione di persone – chiedono ai partiti e ai movimenti politici “per meritarsi il voto delle italiane”.

Innanzitutto “la formazione di liste paritarie per raggiungere l’effettiva parità tra uomini e donne, 50 e 50, nei luoghi di decisione pubblica. Poi,la riduzione drastica dei costi della politica, trasparenza e democrazia nella vita interna dei partiti politici e l’inserimento nei programmi di alcune misure, come un welfare che consenta l’occupazione femminile e offra alle famiglie indispensabili servizi di cura per bambini, persone anziane e disabili. Ancora, politiche contro la precarietà lavorativa di giovani e donne; l’estensione dell’indennità di maternità e del congedo di paternità obbligatorio; il contrasto della violenza contro le donne e del femminicidio; la ridefinizione del servizio pubblico radiotelevisivo in funzione di una nuova idea di cittadinanza, per una rappresentazione rispettosa e plurale delle donne; la promozione di una cultura di genere a tutti i livelli dell’educazione; la pienezza dei diritti civili per tutte le donne, omosessuali ed eterosessuali, italiane e straniere, e la cittadinanza per chi nasce in Italia; la difesa e l’applicazione della 194 (aborto) su tutto il territorio; l’obbligo di valutazione dell’impatto di genere di tutti i provvedimenti legislativi e governativi, in linea con le raccomandazioni europee”. Se non ora quando lancia anche una campagna di mobilitazione attraverso l’uso degli strumenti video.

L’iniziativa, intitolata “Un paese per donne: le parole per dirlo”, sarà una rappresentazione corale delle condizioni, delle idee e dei desideri delle donne, dal Sud al Nord. Come sono le giornate delle donne? Quali sono i loro bisogni e desideri? Cosa vogliono dalla politica? A queste domande risponderanno in una videoinchiesta le donne di tutta Italia, e le interviste saranno pubblicate sul sito di Snoq e confluiranno in un filmato finale. Infine, Se non ora quando presenta anche una campagna sociale a favore delle pari opportunità. “Se Crescono le Donne, Cresce il Paese” è una campagna multimediale che, grazie al patrocinio della Fondazione Pubblicità Progresso, verrà pianificata sulle emittenti nazionali e su tutti i media locali che vorranno ospitarla.

Testimonial d’eccezione, Claudia Pandolfi e Valentina Lodovini.

Ansa.it

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Coldiretti: 6,2 mln di italiani non hanno da mangiare

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Una famiglia su 3 ha tagliato a tavola

In 12 mesi è raddoppiata – dal 6,7 al 12,3 per cento – la quota di italiani che non possono permettersi un pasto completo adeguato almeno ogni due giorni. E’ quanto emerge da un’elaborazione della Coldiretti dei dati Istat relativi al “Reddito e condizioni di vita”. La Coldiretti evidenzia che sono salit

i a 6,2 milioni gli italiani che “vanno ben oltre il rischio di povertà e non hanno denaro a sufficienza neanche per alimentarsi adeguatamente”. La situazione peggiore si registra tra i pensionati dove la percentuale sale al 16,5%; il record negativo viene raggiunto tra le persone sole con più di 65 anni: 21%, più di 1 su 5.Dall’analisi emerge peraltro – sottolinea la Coldiretti – che più di una famiglia su tre (35,8 per cento) dichiara di aver diminuito la quantità e/o la qualità dei prodotti alimentari acquistati rispetto all’anno precedente, mentre tra il 2010 e il 2011 la quota di famiglie che acquistano generi alimentari presso l’hard discount è aumentata, soprattutto nel Mezzogiorno (dall’11,2 al 13,1 per cento). Gli italiani indigenti che hanno ricevuto pacchi alimentari o pasti gratuiti attraverso i canali no profit che distribuiscono le eccedenze alimentari hanno raggiunto – sottolinea la Coldiretti – quasi quota 3,7 milioni, il massimo dell’ultimo triennio. “E’ necessario rompere questa spirale negativa aumentando il reddito disponibile soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione” ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini nel sottolineare “la necessità di sostenere la ripresa dei consumi”.
Ansa 10/12/2012
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RITORNARE ALLO STATUTO di Pasquale Hamel

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1. Le critiche e la ragione

Il 1 gennaio 1897, mentre imperversava una delle più gravi crisi del primo cinquantennio del Regno d’Italia, Sidney Sonnino – intellettuale e politico cui si deve, insieme a Leopoldo Franchetti, la prima grande inchiesta che mise a nudo i mali della Sicilia ed il ruolo devastante delle sue classi dirigenti – sulla prestigiosa rivista Nuova Antologia, scrisse un lungo articolo che sarebbe stato ricordato nella storia politica del nostro Paese, soprattutto, per il suo titolo provocatorio. “Torniamo allo Statuto”. Era quello, anche, un richiamo perentorio che l’autore rivolgeva ai politici del tempo, una proposta densa di rigore e di valori, con la quale si auspicava un ritorno alle regole in termini formali ma, anche, un ritorno alla prassi della buona politica contro una deriva schizofrenica, fatta di corruzione e abusi, che troppo spesso portava a confondere fini con strumenti.
Scriveva, infatti, fra l’altro, Sonnino: “ê ora il momento di raccogliersi e considerare con occhio sereno il cammino percorso in un mezzo secolo di storia parlamentare. […] Senza dubbio alcuno, il parlamentarismo, quale si esplica in Italia, è ammalato; e conviene studiarne le condizioni ed approntare i rimedi, se non vogliamo vedercelo intisichire nelle mani, minato dall’indifferenza o dal disprezzo della nazione. […]. Ogni giorno si fa più viva in tutti la coscienza della fondamentale verità, che la semplice riunione, il cumulo degli interessi particolari, sia pure rappresentati da tanti singoli aggruppamenti a base territoriale, non ci dà l’espressione sincera dell’interesse generale della nazione, né ci fornisce gli elementi sufficienti per tutelarlo e garantirlo. […]”
Pur tenendo conto dei contesti e delle proporzioni e, soprattutto, delle tematiche differenti, Sonnino si opponeva al proporzionalismo e temeva l’ingresso di socialisti e cattolici in Parlamento, stesso invito si potrebbe ripetere oggi, nel momento in cui il degrado generale e la crisi della rappresentanza, procura scoramento fra i cittadini e genera come conseguenza una profonda sfiducia nell’istituzione regionale siciliana. Un invito che lo si dovrebbe sostanziare, però, di contenuti concreti e razionali. Che, in ogni caso, dovrebbe rifuggire sia da certe tentazioni neosicilianiste, che vorrebbero scaricare la responsabilità della grave situazione attuale sulla mancata attuazione dello Statuto regionale siciliano, sia da quelle fondamentaliste che sono portate ad addebitare tutti i mali isolani alla stessa Autonomia speciale e che, in ragione di ciò, ne chiedono, a gran voce, e mi permetto di aggiungere, irresponsabilmente, l’abolizione. Diciamo subito che ci schieriamo su una linea mediana, proprio quella che definisco della “richiamata razionalità” che non accetta e che considera anzi sbagliato buttare l’acqua sporca con il bambino, cioè il volere cancellare, con un colpo di spugna, la stessa Autonomia. Ma che rifiuta, però, il mediocre sicilianismo di maniera agitato da chi non conosce o non vuole conoscere la storia, vera, di questa terra.
Dire, infatti, che sia stata la mancata attuazione dello Statuto ad avere impedito alla Sicilia di vincere la sua battaglia per lo sviluppo mi sembra un evidente falso storico, come falso storico sarebbe negare che la Sicilia abbia goduto di una condizione finanziaria privilegiata tale da metterla in una condizione di esclusivo favore rispetto alle altre aree del Paese. Essa ha infatti avuto, nel tempo, una disponibilità di risorse che, utilizzate bene, avrebbero potuto dar corpo a quelle positive potenzialità che lo Statuto stesso, con buona pace di tutti, garantisce.
Così, ci sembra anche giusto dire che é un altrettanto falso storico affermare che il problema siciliano, fatto soprattutto di ritardi e di occasioni mancate e perfino di imperdonabile spreco, sia, tout court, figlio di quello Statuto regionale del ’46 – che Giuseppe Giarrizzo definisce un modesto prodotto giuridico – che ha dato vita all’Autonomia regionale siciliana.
In quest’ultimo caso, mi pare che, con una certa superficialità, potrei dire con stile tutto italiano, si addebiti una patologia che appartiene al sistema politico ad uno strumento che, in se e per se, è perfino neutro, basta scorrere le norme per rendersene conto, e la cui qualificazione, in termini positivi o negativi, dipende da chi, in effetti, lo utilizza.
Voglio esemplificare per non cadere nel genericismo, come invece usano fare taluni detrattori dello stesso Statuto, fra i quali vi é anche qualcuno che – scusate la digressione polemica – al di là dei suoi meriti, ne é stato gratificato ed oggi sputa sul piatto nel quale ha mangiato. Voglio ricordare, a me stesso e a tutti noi, i cambiamenti epocali della struttura socio-economica della Sicilia che proprio l’Autonomia regionale, e quello Statuto, ha indotto. Mi riferisco, in primo luogo, alla riforma agraria degli anni cinquanta. Una riforma che ha avuto suoi limiti e che, anche se ha colpevolmente garantito alcune parti e alcuni interessi a scapito di altri ( in questo caso gli agrari, cioè i grandi proprietari ) e che, anche in ragione di ciò, purtroppo, non ha segnato un futuro per tale comparto è innegabile, tuttavia, che abbia determinato un radicale mutamento del volto della Sicilia.
Quella riforma, obiettivo centrato delle forze moderate e progressiste, è stata, come ha sostenuto Francesco Renda, forse involontariamente, il maggior contributo alla modernizzazione dell’isola dal 1812 ai nostri giorni.
La sua attuazione infatti si è manifestata come un’eccezionale strumento di mobilità sociale.
Grazie a quella riforma, epilogo del “lungo attacco al latifondo”, mutuo il titolo dal bel volume di Tino Vittorio, si è definitivamente chiuso il capitolo non certo esaltante della Sicilia del latifondo e dei conseguenti rapporti arcaici che lo sostenevano.
Per curiosità riferisco che il retorico ed enfatico Benito Mussolini, definiva il latifondo come “tempo di vergogna e inciviltà, da chiudere definitivamente per trasformare la Sicilia in una terra libera e pura per sempre”.
E, con un salto di oltre un decennio, voglio ricordare, ad explificandum, un altro episodio significativo di questa storia lunga e controversa di oltre sessantacinque anni.
Quanti oggi parlano di lotta alla mafia e praticano, purtroppo, troppo spesso un’antimafia parolaia, imputando, acriticamente, alla Autonomia la responsabilità di essere stata anche strumento che ha favorito i perversi rapporti con questo fenomeno sociale devastante, proprio costoro dimenticano che mentre qualcuno insisteva, anche in buona fede e per un malinteso sicilianismo, a negare l’esistenza della Mafia, fu proprio la mozione, approvata nel marzo del 1962 dall’Assemblea regionale siciliana, che consentì una svolta decisiva nella lotta al fenomeno criminale che, purtroppo per noi, ancor oggi, come si leggeva nel testo della stessa mozione ” esercita una deleteria influenza sulla vita economica e sociale dell’isola”.
Essa, infatti, sbloccò l’impasse nel quale si trovava allora il Parlamento nazionale sul tema dell’approvazione di quei provvedimenti antimafia che avrebbero previsto, fra l’altro, l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso.
Sappiamo bene, che proprio la Commissione antimafia ha posto in termini nuovi, il tema della lotta alla mafia determinandone l’auspicato salto di qualità.
Nessuno può infatti negare. che i provvedimenti più efficaci, e per tutti la legge Rognoni-La Torre, sono stati effetti delle iniziative e dei dibattiti della stessa Commissione.
E vado ancora avanti per ricordare, quella che vorrei definire la felice stagione della settima e ottava legislatura, per essere chiari, quella che vide protagonisti come Piersanti Mattarella, Angelo Bonfiglio o Pancrazio De Pasquale, e non solo.
Sfido, coloro che genericamente chiedono l’abolizione dello Statuto, a smentire che, in quegli anni, l’Autonomia sia stata realmente un’opportunità, che cioè abbia spiegato i suoi effetti positivi a favore della Sicilia. Ai superficiali detrattori, bisogna ricordare che quella lunga stagione produsse testi normativi innovativi, tali da farne, perfino,riferimento per la stessa legislazione nazionale. Una legislazione che metteva soprattutto ordine e che colpiva gli interessi poco limpidi che avevano consentito di far scempio del territorio. Non è casuale che il presidente Fasino, cui si intestò l’impegno della riforma urbanistica, fosse stato punito nella consultazione elettorale del 1981, e non fosse stato rieletto. Non bisogna dimenticare che proprio Piersanti Mattarella si propose, allora, come campione di un modo diverso del fare politica fondato proprio sul rigore etico. La sua “politica delle carte in regola”, la sfida alle inadempienze politico amministrative, la lotta al malaffare ed alla mafia, la presa di coscienza della necessità di una legittimazione morale per essere considerati credibili e potere battere i pugni sui tavoli decisionali fu un forte richiamo al cambiamento. E che quelle del giovane presidente della Regione non fossero solo belle parole senza esito pratico, lo sanzionò il tragico evento consumatosi quel mattino del 6 gennaio del 1980 nel quale, come scriveva San Paolo”, egli terminò la sua corsa” fermato, proprio, da chi giudicava pericolosa l’azione politica di rinnovamento della quale si era fatto esecutore.
E’ chiaro, dunque, che iI problema del degrado etico e sociale – che peraltro, anche se non é una scusante, investe tutto il Paese e coinvolge anche quelle Regioni che, fino a qualche anno fa, erano considerati esempi di efficienza e trasparenza – non è causato dallo Statuto in se ma da coloro che hanno utilizzato lo Statuto in modo distorto e per fini che non erano quelli del corretto governo del territorio nella direzione, del bene comune.
L’atto d’accusa non va, dunque, rivolto allo strumento Statuto ma alle classi politiche, ai partiti alla, poca accorta, selezione della rappresentanza che genera, come scriveva Macchiavelli, “cattiva politica”.
E, senza offesa per nessuno, quest’atto d’accusa va esteso perfino ad una società civile poco accorta e vigilante e, perfino in alcuni settori, magari compiacente.

2. Non una difesa acritica

E riprendiamo il nostro iniziale invito, al tornare allo Statuto.
Un invito che non significa altro se non un ritorno allo spirito che animò quella felice stagione che ha permesso di costruire l’architettura costituzionale dello Stato repubblicano – della quale lo Statuto regionale é anche parte – e che ha permesso la costruzione della democrazia nel nostro Paese, ma anche quelle strutture economico e sociali che, nonostante l’attuale crisi, ci danno ancora la possibilità di sperare per il futuro.
Il discorso investe dunque, come abbiamo detto, principalmente il modo in cui sono selezionati i ceti politici, la rappresentanza politica, un tema che ci fa comprendere come sia imprescindibile l’autoriforma della politica, quella autoriforma che tutti auspichiamo per superare la deriva qualunquista e demagogica che, come uno tsumami, rischia, oggi più di ieri, di travolgere tutto.
Ma tornare allo Statuto significa anche porre, a monte, il problema di quale idea di Regione desideriamo avere e in base ad essa lavorare per la riforma dello stesso Statuto. Sicuramente, a nostro avviso, appare prevalente la necessità del superamento di quei caratteri che hanno fatto dello Statuto uno strumento autoreferenziale piuttosto che strumento funzionale allo sviluppo. E’ chiaro, infatti, che l’impostazione riparazionista, idea forte di un padre dell’Autonomia quale fu Enrico La Loggia che ne ha ispirato la filosofia, non appare più sostenibile. Come non è più sostenibile l’idea di una Sicilia che si chiude in isolamento, orgogliosa della sua storia identitaria, alimentando quella pretesa che, “al di qua del Faro”, nell’isola, possa e debba esserci un’Italia diversa.
Un’ipotesi di questo genere non ce la consente il mondo globale nel quale siamo tutti immersi, non ce lo consente l’essere parte di una comunità, parlo dell’Unione europea, dove vengono assunte decisioni che non trovano neppure limiti nella sovranità statuale, immaginiamoci in quelli del sistema autonomistico.
Il superamento, dunque, di quella concezione, oggi più formale che effettuale, dichiarata dallo Statuto e sintetizzata nelle formule “Sicilia senza Italia” o “Sicilia senza mezzogiorno”, mi pare, che non possa né debba essere eluso.
Con lucidità anticipatrice, ad esempio, Mario Mineo, uno dei più intelligente fra i consultori, scriveva già nel ’45 :”Ho sempre tenuto presente che il problema siciliano non é che un aspetto particolare del problema meridionale…” e aggiungeremmo noi, “di quello italiano”. Purtroppo per un pezzo della storia autonomista questo limite non fu avvertito, almeno fino a quando un gruppo di lucidi politici siciliani, soprattutto, nei primi anni settanta ne fece momento della propria proposta politica.
Proprio allora era stata, infatti, completata l’architettura costituzionale dello Stato delle autonomie con il varo delle Regioni.
Quei politici, rompendo con il passato isolazionista, avevano appunto approfittato della felice occasione della realizzazione delle regioni a statuto ordinario per dare vita a delle assise di approfondimento, le cosiddette Conferenze delle regioni meridionali, uno strumento di confronto per avviare un tavolo di collaborazione che consentisse, alla fine, di presentare una proposta unitaria del Mezzogiorno e per il Mezzogiorno, di cui la Sicilia è parte, e parte importante.
E, proprio rinnegando la concezione isolazionista che aveva segnato la storia regionale, Piersanti Mattarella, alla IV Conferenza di Catanzaro, ribadiva che “il problema principe del Sud fosse quello di assumere una parte e pressante iniziativa unitaria “.
Consentitemi un ricordo personale. Proprio in quella esaltante assise del 1977 ebbi una piccola parte perché mi fu dato l’incarico di scrivere il documento della Regione siciliana. Ebbi allora l’occasione di conoscere e frequentare personaggi del calibro di Piersanti Mattarella, Pancrazio De Pasquale, Mario D’acquisto..e vi assicuro che ne ho tratto arricchimento.
Purtroppo quelle iniziative e quel fervore riformatore si arrestò ben presto e forse per la mancanza di alcuni di quegli uomini che l’avevano promosso.
Ma non ci si può fermare al passato, bisogna guardare al futuro, e cioè chiedersi quale idea per la Regione, che cosa deve essere, a nostro avviso l’Autonomia oggi.
La risposta che offriamo non é certo quella che, nei fatti, si è affermata soprattutto negli ultimi anni. Non si può più coltivare l’idea di una autonomia recipiente di provvidenze dove attingere disordinatamente. Quanto, piuttosto, di una Regione centro propulsore di politica economica coerente con le aspettative e le vocazioni dell’isola che ponga in chiaro la sua missione, cioè la crescita civile e sociale dell’isola.
Una Regione leggera, che traccia le linee generali sulle quali intervenire, riservandosi in quanto detentrice di una visione generale dei problemi dell’isola, la funzione di ente di programmazione, che rinuncia , cioè, alle incombenze attuative dei programmi sulle quali dovrebbe limitarsi ad esercitare un controllo di coerenza e di legittimità.
Una Regione la quale, piuttosto, che contrapporsi allo Stato – ricordo la stigmatizzazione di Pancrazio De Pasquale, sulla pretesa della Regione di essere essa stessa Stato – si trovi proprio a collaborare con lo Stato, e con la stessa Unione Europea cui lo Stato ha ceduto e continua a cedere parte della propria sovranità, una collaborazione necessaria a stabilire le compatibilità e la coerenza delle scelte di programma relativamente agli stessi interessi nazionali e a quelli regionali. Una Regione che faccia proprio il principio di sussidiarità, verticale, peraltro implicitamente richiamato dallo Statuto del ‘ 48, tale da creare un nuovo rapporto tra i diversi enti del territorio. Ma che adotti anche il principio della sussidarietà orizzontale, relativa ai rapporti fra la sfera pubblica e quella privata, il che significa che il potere pubblico non debba avere il monopolio degli interessi collettivi dovendo limitarsi ad intervenire solo quando i singoli e le formazioni sociali non riescano a soddisfare, da soli, efficacemente quegli interessi. Ed in questo senso una Regione che, dunque, rivisiti le prerogative derivanti dalla competenza “esclusiva”, peraltro in gran parte superata dalla prassi visto che in molti casi le normative statali vengono ad applicarsi in Sicilia in ragione di quel limite indicato alle competenze dell’art. 14 costituito dalle “riforme economico sociali”. Un trend che i provvedimenti di natura finanziaria, vedi ad esempio quelli della spending review, necessitati dalla crisi economica del Paese, hanno consolidato.
Una rinuncia alla Istituzione apparato, struttura autoreferenziale che, come affermava criticamente Sturzo, si rappresentava come “pantomima dell’amministrazione centrale”, a favore di una regione centro di elaborazione e dibattito politico che soddisfa la domanda di partecipazione e democrazia delle popolazioni isolane.
E’ questa, a mio modo di vedere, la sfida sulla quale le forze politiche, ma anche le classi dirigenti dell’isola, nel loro complesso, si debbono misurare per riconquistare, ed é questo il vero e urgente problema , quella fiducia dei cittadini amministrati destinatari delle scelte di governo. Una fiducia che, purtroppo, in questi anni, come ben sappiamo, si è praticamente azzerata.

 

Pasquale Hamel

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