Violenza agli operatori sanitari, parla il risk manager Sabatelli

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Violenza agli operatori sanitari, parla il risk manager SabatelliGli operatori dei servizi sanitari presentano un rischio significativo di subire atti di violenza durante la propria attività lavorativa. Si tratta di un fenomeno così rilevante che il ministero della Salute ha emanato una specifica raccomandazione sull’argomento e ha inserito la “morte o grave danno in seguito a violenza su operatore” fra gli eventi sentinella che devono essere segnalati attraverso il flusso Simes. La Regione Lazio nello scorso luglio ha istituito l’Osservatorio regionale per la sicurezza degli operatori Sanitari e ha recentemente approvato un “Documento di indirizzo sulla prevenzione e la gestione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari” elaborato dal Centro regionale rischio clinico. Per queste ragioni abbiamo voluto sentire Giuseppe Sabatelli, coordinatore del Centro e risk manager della Asl Roma 5.

Dottore, qual è l’obiettivo del documento?

Il documento risponde alla necessità di fare chiarezza su un fenomeno complesso come quello degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari. Al contempo, cerca di fornire alle strutture sanitarie indicazioni e strumenti pratici per valutare correttamente il rischio di aggressione e migliorare la sicurezza dei propri operatori, attraverso interventi strutturati e organizzati. Per fare questo il gruppo di lavoro si è basato su due assunti principali. Innanzitutto, abbiamo chiarito che si tratta di un problema di sicurezza del lavoro che va affrontato secondo quanto previsto dal Decreto legislativo 81 del 2008: il rischio di subire un’aggressione sul posto di lavoro va valutato e gestito dalle organizzazioni al pari di qualsiasi altro rischio lavorativo. Il secondo punto fermo è stato quello di considerare gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari come reati da perseguire, fatti salvi casi limitati e specifici.

Ci sono dati che consentono di quantificare il fenomeno?

Non è facile definire le esatte dimensioni del fenomeno. Una delle cause di tale difficoltà è legata alla genericità delle definizioni. Il termine “violenza sul posto di lavoro”, infatti, comprende eventi molto diversi tra loro: dai comportamenti incivili alla mancanza di rispetto nei confronti degli operatori, dagli insulti alle minacce verbali, fino all’aggressione fisica, con esiti anche drammatici. Alla difficoltà di trovare un accordo su cosa si intenda con il termine “violenza sul posto di lavoro” si aggiunge un’estrema diversificazione nelle modalità di raccolta dei dati, per cui le evidenze disponibili sono difficilmente confrontabili e danno risultati molto diversi fra loro. Per questo motivo nel documento abbiamo deciso di considerare come atti di violenza a danno degli operatori sanitari qualsiasi forma di aggressione verbale, fisica o psicologica praticate sul lavoro da parte di soggetti esterni all’organizzazione, escludendo gli episodi di violenza fisica e psicologica da parte di colleghi o superiori. Un altro motivo che rende difficile una corretta quantificazione del fenomeno è poi legato alla scarsa propensione delle vittime a segnalare e denunciare gli episodi di violenza a causa di fattori di tipo sociale e culturale ma anche per i limiti dei sistemi di reporting che, è opportuno ricordarlo, sono su base volontaria.

Sono disponibili dati regionali?

Sì, e una parte rilevante del documento è riservata alla loro analisi. Si tratta dei dati che ormai da anni tutte le strutture sanitarie regionali caricano su un portale dedicato al fine di soddisfare il flusso Simes ministeriale. Nel periodo dal 2012 al 2017 sono stati segnalati sul portale 553 atti di violenza a danno di operatori, con un valore medio annuo di circa 90 episodi. Dall’esame dei dati non sono emerse differenze significative nella percentuale di segnalazione provenienti da donne e uomini pur in presenza di una lieve prevalenza delle prime. È emersa invece una decisa prevalenza delle aggressioni fisiche che sfiorano il 67 per cento del totale. Relativamente agli esiti, in quasi la metà dei casi non viene segnalato alcun danno a carico dell’operatore coinvolto, almeno nell’immediatezza della segnalazione, mentre in oltre il 42 per cento dei casi sono segnalati danni lievi. In poco più dell’8 per cento degli eventi sono segnalati danni da moderati a severi. In oltre il 64 per cento dei casi l’aggressore è il paziente, nel 17,5 per cento dei casi è un parente o visitatore del paziente. In poco più del 3 per cento gli atti di violenza vengono perpetrati da soggetti esterni, senza motivo apparente.

Quali sono le figure professionali maggiormente a rischio?

Le figure più a rischio sono certamente rappresentate da quelle maggiormente coinvolte nelle attività clinico-assistenziali: infermieri, operatori sociosanitari e medici. Tuttavia anche altri operatori sanitari possono essere vittima di violenza. Nel documento abbiamo perciò ritenuto opportuno allargare la definizione di “operatori” anche ad altri soggetti: psicologi, farmacisti, assistenti sociali, tecnici sanitari, personale dei servizi di trasporto d’emergenza, studenti e specializzandi, volontari, senza dimenticare il personale di front office e dei servizi di vigilanza, e qualunque altro lavoratore di una organizzazione che eroga prestazioni sociosanitarie che subisca un atto di violenza sul posto di lavoro.

Quali sono le strutture e i servizi maggiormente esposti al fenomeno?

Le evidenze disponibili sembrano indicare che il fenomeno sia maggiormente rilevante nei servizi di emergenza-urgenza, nelle strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali, nei luoghi di attesa, nei servizi di geriatria e nella continuità assistenziale. I dati regionali confermano, almeno in parte, questo quadro: il 23 per cento delle segnalazioni è relativa all’area di emergenza-urgenza, seguita dalla assistenza psichiatrica e delle dipendenze patologiche (oltre il 20 per cento). Di particolare rilevanza anche il dato relativo al trasporto di emergenza, che rende conto del 21 per cento delle aggressioni totali. In oltre il 13 per cento dei casi non è stato invece possibile risalire alla struttura di accadimento.

Il documento contiene anche strumenti che le strutture sanitarie possono utilizzare per la valutazione e la gestione del rischio?

Tutti i documenti dal Centro regionale rischio clinico sono pensati ed elaborati al fine di supportare le strutture sanitarie tramite strumenti immediatamente applicabili nelle diverse realtà. Nello specifico, al fine di consentire alle strutture di elaborare un Piano per la Prevenzione degli atti di Violenza da inserire all’interno del Documento di valutazione dei rischi previsto dal Decreto legislativo 81 del 2008, il testo è stato corredato da una serie di checklist tradotte e adattate da un recente documento dell’Occupational and Safety Health Administration americana. Utilizzando queste checklist, ovviamente adattandole agli specifici contesti, le organizzazioni potranno definire, nell’ambito dei diversi setting assistenziali individuati, quali siano gli interventi strutturali, tecnologici, organizzativi e professionali per ridurre le dimensioni del fenomeno. Sono state tradotte e adattare anche checklist per l’autovalutazione del rischio aggressione da parte delle singole unità operative. Inoltre abbiamo cercato di fornire indicazioni chiare sugli aspetti infortunistici e legali.

Quali sono i risultati prevedibili derivanti dall’effettiva implementazione del documento di indirizzo?

Ovviamente non è realistico pensare che un documento possa azzerare gli atti di violenza. Si tratta di un problema i cui determinanti riguardano ambiti che vanno ben oltre le possibilità di intervento delle organizzazioni sanitarie. Preferisco considerarlo un contributo che definisce in maniera chiara ambiti di intervento e ruoli, che dà indicazioni pratiche e di policy e che, soprattutto, si inserisce all’interno di un percorso regionale iniziato con la istituzione dell’Osservatorio. In quella sede ritengo che potranno essere messe proficuamente a fattor comune le energie e le competenze di tutti gli attori coinvolti al fine di definire e condividere ulteriori strumenti di intervento che coinvolgano non solo gli operatori ma anche i cittadini.

@vanessaseffer

 

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Violenze contro i medici, parla Spandonaro

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Violenze contro i medici, parla Spandonaro L’attitudine dell’uomo è quella di ammalarsi. Presto o tardi, ciascuno di noi ha a che fare con un medico, un Pronto soccorso o una guardia medica. Una delle poche certezze che ha il cittadino italiano è quella di trovare nel nostro Paese un Pronto soccorso aperto 24 ore su 24. Qui vengono prestate le prime cure a tutti i casi di urgenza ed emergenza gratuitamente con spazi dedicati alla breve osservazione. I numerosi casi di violenza contro i medici e gli operatori sanitari segnalati in questi ultimi mesi hanno dato vita a un nuovo fenomeno sociale. Molti medici, infatti, temono le reazioni dei pazienti. Un problema che va affrontato da varie sfaccettature. Pertanto questo argomento merita un adeguato approfondimento con Federico Spandonaro, professore di Economia e Management sanitario presso l’Università di Tor Vergata e presidente di “Crea Sanità”, il Consorzio per la Ricerca economica applicata in sanità, per avere un punto di vista tecnico e per spiegarci come migliorare l’immagine della sanità italiana, essendo una delle migliori al mondo, agli occhi del cittadino italiano.

Professore, cosa ne pensa di quanto accade ormai quasi quotidianamente in Italia a danno dei nostri medici e dei nostri operatori sanitari?

A volte ci si dimentica delle “dimensioni” del fenomeno Sanità; quasi tutti gli italiani hanno avuto almeno una volta un contatto con il Sistema sanitario nazionale, altri decine se non centinaia di contatti. Gli operatori della sanità sono circa un milione fra diretti e indiretti. Stiamo parlando di una grossa percentuale della società. È chiaro che se io applico dei tassi di devianza, che saranno quelli medi della società italiana, verrà fuori un numero di problemi molto rilevante. Le truffe nella sanità? Su un milione di dipendenti, facendo una media con la devianza che c’è in Italia, scopriamo che qualche migliaio di potenziali disonesti si annidano anche là. Prima di dire che ci sono delle acuzie, dico sempre che bisogna guardare alle “dimensioni”.

Viene meno il patto fra il medico e il cittadino/paziente, viene messa in discussione la “mission” del medico.

Il nostro Sistema sanitario nazionale (Ssn) è uno dei più efficienti al mondo, uno dei migliori nel dare i risultati. Quello su cui siamo carenti, e lo sanno tutti, è l’organizzazione. Le persone si esasperano perché stanno ore ad aspettare senza che nessuno dica loro cosa sta succedendo. Questa è la parte dove si può migliorare. Una buona prestazione clinica è la prima cosa, ma bisogna dare anche un servizio adeguato agli anni che viviamo. Oggi si paga per avere servizi e ciò significa avere la giusta diagnosi, la giusta terapia, ma anche non far sentire l’utente abbandonato.

Quindi nel nostro sistema c’è qualcosa che non va?

Si parla sempre delle liste d’attesa. Basta vedere com’è un ospedale italiano fra le 8 del mattino e le 13.

Perché c’è una differenza enorme fra nord e sud del Paese?

Non brilla nessuno dal punto di vista delle attese. Di contro, il cittadino è convinto di avere diritto a tutto senza mai prendersi nessuna responsabilità.

I master che lei organizza nel campo dell’economia, della politica e del management sanitario si tengono in aule stracolme anche di direttori generali, direttori sanitari e amministrativi di aziende sanitarie. Il pesce puzza sempre dalla testa professore, se una di queste figure non funziona tutto il sistema va a rotoli. È così?

Sicuramente, ma è anche vero che noi abbiamo fatto dei cambiamenti epocali. Chi ha mai formato i clinici a usare l’informatica, e così tutti gli altri? Abbiamo fatto una rivoluzione introducendo strumenti di controllo di gestione. Quando avevamo un apparato amministrativo che aveva una cultura di tipo umanistico venivano tutti da Giurisprudenza, dal Diritto amministrativo, le cose erano facilitate nell’apprendimento sia per noi docenti che per i discenti. Adesso, come è noto, le cose sono cambiate e non posso dire in meglio. Questo rende la vita difficile a noi che ci adoperiamo nell’interesse comune e a chi cerca di avvalersi dei nostri sforzi. Di nuovo c’è una carenza di formazione per cui è vero che il pesce puzza sempre dalla testa, ma è vero anche che la testa non ha avuto il tempo o le risorse per formarsi adeguatamente.

Quindi c’è un problema politico? A pretesto del debito pubblico, argomento che viene ignorato quando gli uomini di potere hanno interesse a farlo, la formazione e la sanità sono i settori che hanno patito di più i tagli nei finanziamenti, sforbiciate mortificanti per gli operatori.

L’Italia negli ultimi anni ha fatto dei miracoli per le ragioni che tutti conosciamo, per il problema del debito pubblico. La sanità ha dato certamente il contributo più grande. Aver tagliato 30 miliardi dei fondi non vuol dire che questi siano diminuiti, vuol dire che non sono aumentati per 15 anni e se andiamo a vedere quella che era la previsione del 2008, oggi avremmo dovuto avere 30 miliardi di euro in più. Quindi c’è stato un taglio che è quello che ha permesso in larga misura di risanare i conti della sanità da una parte e non aggravare il debito pubblico; la sanità ha dato un contributo enorme a questa operazione e a tutte le leggi, anche a quelle più di riforma. Penso alla Balduzzi, che ha inciso fortemente in ambito sanitario coinvolgendo ogni categoria di lavoratori. Nell’incipit dice: “A parità di spesa…”. Ma come si fanno cambiamenti a parità di spesa? Solo nel libro dei sogni.

@vanessaseffer

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Rapporto medico-paziente: l’intervista a Federico Gelli

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Rapporto medico-paziente: l’intervista a Federico GelliÈ il medico più citato d’Italia perché la sua legge 8 marzo 2017 n. 24 ha cambiato le “Disposizioni in materia delle cure e della persona assistita nonché in materia della responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, così recita nell’incipit. Federico Gelli con la sua norma ha ridefinito il rapporto medico-paziente, permettendo ai professionisti di svolgere il loro lavoro con maggior serenità e garantendo ai pazienti maggior trasparenza ed eventuali risarcimenti in tempi brevi.

“Ho fatto quello che mi sentivo di fare – spiega Gelli – mettendoci tanta energia ed impegno. Gli avvocati la interpretano come una modifica normativa, ma non lo è. È soprattutto una scommessa culturale e devo dire che girando il Paese questo messaggio sta passando perché incontro moltissime persone, le sale sono sempre piene, e sono tantissime le tesi di laurea che vengono svolte su questa legge”.

I medici sono molto contenti di pagare un premio assicurativo più basso grazie a lei.

Il risultato importante è che garantiamo la certezza delle cure a tutti i cittadini del Paese, il sistema deve riorganizzarsi in modo da mettersi nell’ottica della prevenzione del rischio, che è la vera scommessa. Poi c’è la tutela dei professionisti, la diminuzione dei premi assicurativi, i risparmi sulla medicina difensiva. Ma la cosa più importante è la sicurezza delle cure e della persona assistita, poi della professione sanitaria, questo è l’obiettivo.

In Italia abbiamo una delle migliori sanità del mondo, ma noi tendiamo a sminuirla.

Sono stato a Lione recentemente a parlare ai francesi all’assemblea di Sham, la grande mutua pubblica francese, assicuratori in Italia e nel resto del mondo, e hanno apprezzato tantissimo. Hanno una legge simile alla mia varata nel 2002/2003 che ha bisogno di qualche aggiornamento e si volevano ispirare alla mia legge.

Nel nostro Paese si parla troppo spesso ultimamente di violenza nei confronti dei medici e degli operatori sanitari. Si stanno sollevando voci importanti, volevo sentire la sua su questo tema dal momento che da tanti anni si occupa per il suo partito di sicurezza e legalità e sapere secondo lei quando una violenza si può definire tale.

È molto difficile definire una violenza, chi svolge un’attività professionale front office, è più esposto a violenze verbali o purtroppo anche fisiche e psicologiche. Forse il primo lavoro da fare è proprio quello di censire, definire con certezza quando si tratta di violenza. Una delle proposte che mi sembrano più calzanti, e questo ragionamento potrebbe finire in un disegno di legge, porterebbe il medico e il lavoratore dipendente della struttura ospedaliera ad acquisire il titolo di pubblico ufficiale durante il periodo della sua attività lavorativa. Questo determinerebbe un inasprimento automatico delle pene nei confronti di coloro che si atteggiano in maniera violenta nei confronti degli operatori sanitari e nello stesso tempo darebbe un elemento di maggiore garanzia. Il pubblico ufficiale è colui che svolge per nome e per conto della collettività un servizio pubblico. Credo potrebbe essere una prima proposta concreta.

Il segretario nazionale della Cisl Medici, Biagio Papotto, ha proposto pochi giorni fa che le aziende sanitarie si costituiscano parte civile a protezione dei propri operatori sanitari aggrediti durante le ore di lavoro. Lei cosa ne pensa?

Penso sia un proposito positivo, anch’esso un aiuto concreto a favore dei medici e degli operatori. Credo che però la chiave risolutiva di questo fenomeno dev’essere affrontato in termini di modelli organizzativi e di percorsi tutelati. Questo fenomeno ha avuto un incremento soprattutto negli ultimi tempi per un aumento molto alto delle patologie psichiatriche e del diminuito ruolo e delle grandi difficoltà delle strutture sanitarie psichiatriche che normalmente contenevano questi soggetti. Quindi ne abbiamo di più in libera circolazione sul territorio che si approcciano alle strutture sanitarie per i loro bisogni, solo che il loro approccio ovviamente, data la condizione psichiatrica è spesso problematico. Poi sicuramente è legato al fatto che spesso molti presìdi sanitari sono isolati, in condizioni particolari ed essendo insicuri possono tentare un malintenzionato, soprattutto nei confronti di operatori femminili, medici donne, medici di guardia. Allora la prima cosa da fare è ripensare, e lo dico come responsabile di Federsanità Anci sul tema del rischio in sanità, ai nostri percorsi e ai nostri modelli organizzativi delle strutture sanitarie. Soprattutto gli accessi ai pronto soccorso, ai luoghi di primo intervento, agli ambulatori, devono guardare non solo ad una capacità di risposta immediata ai cittadini alle loro domande, al triage, devono anche pensare che tra quei cittadini ci può essere anche un malintenzionato. Quindi ci vuole un sistema che possa prevedere un percorso di sicurezza dove il cittadino venga veicolato, passando da un meccanismo di garanzia e di tutela. Credo sia questa la scommessa da fare, quindi quando andiamo a disegnare i nostri spazi sanitari dovremmo avere un occhio di riguardo soprattutto per alcune situazioni, ovviamente non sto parlando delle grandi strutture dove ci sono decine di professionisti, sistemi di vigilanza, ma rifletto sull’ambulatorio del medico di guardia posto in un distretto isolato. Riassumendo: pubblico ufficiale per l’inasprimento delle pene, l’azienda che si costituisce parte civile e l’idea di un modello organizzativo che tenga conto dei percorsi di sicurezza per gli operatori specie dislocati in territori remoti, per risolvere secondo me il problema della violenza contro i medici e gli operatori della salute.

Il dottor Gelli è attualmente impegnato anche per gli eventi legati ai quarant’anni della Legge Basaglia che chiuse i manicomi in Italia, per vedere cosa resta della legge. Si parla di circa 20 milioni di cittadini curati fuori dai manicomi come accennava lui stesso del resto, con poche risorse e con strutture in grandissime difficoltà.

@vanessaseffer

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Focus sulle violenze a carico degli operatori sanitari

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Focus sulle violenze a carico degli operatori sanitariNon si fermano i casi di aggressione negli ospedali. L’ultimo episodio lo scorso fine settimana a Civitavecchia: a farne le spese è stato un infermiere aggredito da un paziente in crisi di astinenza da alcool.

Abbiamo chiesto alla dottoressa Tiziana Frittelli, direttore generale del Policlinico di Tor Vergata e presidente di Federsanità Anci, cosa ne pensa della proposta lanciata dal segretario della Cisl Medici Nazionale, Biagio Papotto, di costituirsi parte civile come azienda interessata qualora un dipendente restasse coinvolto in un episodio di violenza durante l’orario di lavoro.

Sono molto d’accordo – ha dichiarato la Frittelli – giuridicamente trovo la proposta molto corretta. Qualunque datore di lavoro veda lesionato il proprio patrimonio più importante, i suoi dipendenti, a prescindere da qualunque altra valutazione etica, può e deve intervenire contro chi ha commesso un atto così vile. All’interno dell’azienda lo scorso anno abbiamo speso 200mila euro per fare dei lavori in Pronto soccorso su segnalazione del nostro risk manager insieme al responsabile per la prevenzione della sicurezza, che ha monitorato tutti gli episodi di violenza intervenuti all’interno dell’azienda; abbiamo notato che uno dei punti deboli era che gli operatori più all’esterno fossero poco protetti e sono stati effettuati dei lavori per metterli in sicurezza. Stiamo inoltre facendo un corso di formazione di difesa personale per i nostri operatori, finalizzato a riconoscere i comportamenti aggressivi e a gestire in sicurezza i comportamenti a rischio. Ho anche istituito una “Unità di benessere psicofisico” diretta da uno psichiatra, che coinvolge altri professionisti per supportare i nostri operatori, anche per il benessere organizzativo.

Come affronta questo stesso tema come presidente di Federsanità?

Con molto impegno. Da sempre mi angoscia la frattura culturale che si sta creando fra il settore pubblico della salute e il cittadino. Sono davvero orgogliosa di lavorare nel nostro sistema salute, che è sicuramente tra i migliori del mondo in termini di risultati rispetto alle risorse utilizzate; ma nonostante questo si è creata questa frattura, che è solamente culturale e incomprensibile. Perché si picchia un medico o un operatore sanitario? Negli ultimi cinquant’anni, una figura sacra come quella del medico, cui ci si rivolgeva come uno dei riferimenti fondamentali della comunità, sembra venuta meno. Oggi la pubblicità parla solo di risarcimenti e malasanità, pagata però dal fondo sanitario che serve per le stesse cure. Morale della favola: l’investimento in comunicazione tra operatori sanitari e cittadini/utenti del servizio mira a dare informazioni sbagliate. Come Federsanità siamo in attesa di una ricognizione che abbiamo chiesto a tutte le nostre aziende associate sui fenomeni di aggressione per prevenirle e per supportare le aziende stesse con una politica comune. Stiamo progettando una iniziativa molto forte a tal riguardo.

Che differenza c’è tra violenza fisica e violenza verbale?

La violenza fisica va da sé che è molto grave, ma quella verbale non è meno grave e a volte non ha un minore impatto. Immagini un ospedale come quello che dirigo che si trova in una zona molto degradata socialmente, seppure parliamo di una struttura bellissima, ben tenuta. Se qualcuno ci guarda male insinua talvolta dei dubbi. In ambito professionale avere su di sé la rabbia, il rancore, la sfiducia, la violenza morale e verbale provoca spesso un irrigidimento in alcuni operatori tale da innescare una spirale che bisogna bloccare prima. Bisogna quindi parlare di buona sanità. I media pongono l’accento in prevalenza sui fatti negativi, mai sul fatto che noi curiamo gratuitamente anche l’ultimo arrivato fra gli extracomunitari. In questo Paese, magari in ritardo, ma tutti si curano. Abbiamo ancora molto da raschiare a livello di ottimizzazione di sprechi, ma nessuno dice mai che in questo Paese c’è un’evasione fiscale tale per cui soltanto una quota fra il 50 e il 60 per cento della popolazione si autogestisce la quota a carico, mentre gli altri stanno a carico di quella parte di popolazione che paga le tasse. Oggi nelle orecchie del cittadino non c’è la percezione di un sistema che è fra i migliori al mondo, che ha portato l’aspettativa di vita media a 82 anni, che il Pronto soccorso è sempre aperto 24 ore su 24 anche quando la richiesta è inappropriata. Non c’è questa percezione. L’idea è solo quella che c’è la malasanità. Allora dobbiamo essere coesi, perché in ballo c’è un servizio fra i migliori del Paese, che è un biglietto da visita.

Perché c’è differenza fra Nord e Sud del paese nella Sanità?

Perché al Sud c’è meno controllo sociale. Perché è la parte del Paese più allo sbando, con molti più problemi, più evasione fiscale se possibile, e dove il rispetto delle regole è più basso.

Il Policlinico Tor Vergata ha 500 posti letto. Il primo luglio del 2014, quando la Frittelli vi ha preso servizio come direttore generale, ha trovato un’azienda con un deficit di meno 73 milioni e il 2017 chiuderà verosimilmente con meno 37 milioni. Spendono meno e producono di più, che in un’azienda è ciò che conta.

@vanessaseffer

 

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Violenze contro gli operatori sanitari: l’intervista a Papotto (Cisl Medici)

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Violenze contro gli operatori sanitari: l’intervista a Papotto (Cisl Medici)Perché rischiare la vita per curare? “Ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica sul posto di lavoro è considerato un problema di salute pubblica nel mondo” secondo il National Institute of Occupational Safety and Health. Una cosa che accomuna tutti i Paesi del mondo su questo tema è il fatto che spesso la maggior parte degli avvenimenti di violenza (l’85 per cento delle volte) non viene denunciata da chi li subisce, più che altro per paura, a meno che non vi siano lesioni a documentare i fatti. C’è poi l’annosa questione sulla definizione di cosa o come definire una violenza o “quando” la si possa definire tale, vivendo spesso in una situazione ambientale che propende a sminuire, tesa ad assolvere o, peggio, incapace di riconoscere certi abusi. L’invito è a non minimizzare. Il primo capitale delle Istituzioni è il capitale umano.

Durante il convegno della Cisl Medici, dal titolo “Il benessere lavorativo, definizione e percorsi” svoltosi a Napoli lo scorso fine settimana, il segretario nazionale della Cisl Medici, dottor Biagio Papotto, ha pronunciato parole decise e molto significative sul tema della violenza contro gli operatori sanitari. La categoria più vessata è quella infermieristica, perché più frequentemente a contatto col paziente; le donne medico sono particolarmente a rischio. I medici, è quanto emerso dalle interviste e dalle indagini sugli atti di violenza compiuti in molte città italiane da nord a sud, risultano maggiormente esposti ad atti di aggressione presso i servizi ambulatoriali, nelle guardie mediche, nei Pronto soccorsi o durante i servizi notturni a domicilio.

La violenza verbale interessa tutti gli attori che operano nella sanità: dagli insulti alle minacce, dalle intimidazioni allo stalking. Episodi di varia entità che hanno messo in crisi tutti gli operatori sanitari. Un problema che affonda le sue radici in gravissimi problemi culturali e sociali.

“Questa escalation di avvenimenti ha fatto in modo che noi della Cisl Medici prendessimo una posizione fortissima – ha detto il segretario nazionale Papotto – abbiamo scritto al ministro e abbiamo chiesto e ottenuto un tavolo permanente per quanto riguarda la sicurezza sul posto di lavoro. Abbiamo coinvolto la Fnomceo (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) e metteremo in mora i direttori generali che non provvederanno per tutto ciò che riguarda la sicurezza sui posti di lavoro, come telecamere, posti di polizia interni alle strutture, perché il medico che esce tutti i giorni da casa per salvare delle vite, certamente per questo non può perdere la sua. Una delle iniziative che prenderemo tempestivamente sarà che i direttori generali delle aziende sanitarie dovranno immediatamente costituirsi parte civile a fronte di episodi di violenza nei confronti degli operatori sanitari. Il pericolo è che il lavoratore aggredito venga abbandonato senza avere nessuno alle spalle, l’azienda che lo difenda o gli stessi sindacati”.

Alla domanda postagli se la Cisl Medici possa costituirsi parte civile essa stessa insieme all’azienda sanitaria di appartenenza dell’operatore sanitario da difendere, il dottor Papotto risponde: “Non so se il sindacato stesso possa farlo, per questo chiederò agli avvocati se sarà possibile studiare una formula, ma costringeremo le aziende a costituirsi parte civile, e se possiamo anche noi entrare attivamente nella difesa dei lavoratori lo faremo. Speriamo che il nuovo ministro appena insediatosi ci convochi in fretta e che poi predisponga una legge ad hoc a tutela degli operatori sanitari e dei medici in particolare”.

@vanessaseffer

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