La schiavitù in Mauritania: parla Biram Dah Abeid

Share

La schiavitù in Mauritania: parla Biram Dah Abeid Biram Dah Abeid ha un volto sorridente, uno sguardo deciso e una forza incrollabile. Con lui, in questo progetto di ricostruzione del suo Paese, la Mauritania, per sradicare l’analfabetismo, causa principale della schiavitù di un terzo della popolazione del Paese, la sua affettuosa moglie Leila, che contrariamente alle abitudini e alle usanze mauritane, lui porta con sé nelle occasioni pubbliche, nei viaggi, nei suoi incontri con la gente. Leila ha la fortuna di avere accanto a sé un marito che le consente di rappresentare le ingiustizie del suo Paese, pieno di privazioni e con un atteggiamento ben definito nei confronti della donna, parlando lei stessa con loro, con i bambini, ma anche con gli uomini, perché con il suo esempio il lavoro del marito sia più efficace. Una leggenda arabo-berbera del XII secolo ha raggirato il loro popolo e lo ha soggiogato con la paura di andare all’inferno se non avessero servito i loro padroni: “Nella notte dei tempi due musulmani andarono nel deserto portando con loro il Corano. Iniziò a piovere molto forte. Uno dei due strinse forte al petto il libro sacro per proteggerlo. L’altro, l’empio, prese il libro sacro e si protesse la testa con quello, ma la pioggia lo scolorì. Il libro sacro cominciò a perdere l’inchiostro e quell’uomo diventò nero. L’altro invece essendo più santo rimase bianco poiché aveva protetto il libro, nascondendolo dall’acqua, salvando la parola sacra”. Nasce così il mito che i neri per andare in paradiso devono servire i bianchi, altrimenti andranno all’inferno. Questa è la catena mentale che li attanaglia, figlia dell’ignoranza. La missione di Biram sin da quando era molto giovane è di rendere gli schiavi isolati dalla loro condizione di analfabetismo, povertà e mancanza di assistenza, consapevoli della possibilità di una vita libera dalla servitù. Suo avversario in questo durissimo percorso è Mohamed Ould Abdel Aziz, il generale che con un colpo di stato ha assunto la Presidenza del Paese dal 2008, che è appoggiato dalla l’élite arabo-berbera che schiavizza un terzo della popolazione mauritana. Biram Abeid viene da questi definito “colui che divide”, perché insegna con il suo operato ai mauritani un altro punto di vista che li separa dal loro padrone.

L’intervista che mi ha concesso Biram Abeid, si è tenuta a Roma nello studio dell’avvocato Alessandro Gioia, che si occupa di diritti umani e che segue la causa della Mauritania da molti anni. Si sono conosciuti durante un viaggio in Senegal, in occasione di una visita a Dakar, da allora l’avvocato Gioia è uno dei riferimenti italiani del presidente Abeid.

Sua nonna era una schiava, invece suo padre è nato libero. Come mai?

Sì. La religione dice che se la madre è schiava il figlio nasce schiavo, ma io non lo accetto. Il padrone della nonna paterna era molto malato, così chiese al Marabù, la figura religiosa musulmana più alta della comunità, cosa potesse fare per guarire. Lui gli consigliò di fare un’offerta a Dio, un sacrificio per riscattare la sua salute: doveva liberare uno schiavo se avesse voluto guarire. Avrebbe dovuto liberare mia nonna, invece il suo padrone ha deciso di rendere libero il bambino che aveva in grembo, mio padre, che quindi è nato libero. Mentre mia nonna è rimasta schiava fino alla sua morte. Mio padre a vent’anni ha sposato una schiava e da lei ha avuto due figli, un maschio e una femmina. Il padrone della prima moglie di mio padre ha venduto la prima moglie di mio padre e i suoi due primi figli, un maschio e una femmina. Per questo mio padre non si è mai dato pace e per questo più avanti ha deciso di non rifarsi una vita con una schiava ma con una donna libera. Così più avanti ha sposato mia madre, che è morta nel 2004. La prima moglie e il figlio maschio sono morti e la mia prima sorella l’abbiamo ritrovata. Mio padre è stato molto male per ciò che è successo.

Dove ha studiato presidente?

Le prime scuole le ho fatte nel villaggio dove sono cresciuto. Io non conosco con esattezza l’anno della mia nascita perché non sono nato in ospedale o in casa, eravamo nomadi.

Suo padre ha voluto che lei studiasse perché potesse combattere la schiavitù nel suo Paese con la cultura, con la conoscenza e non con atti di forza. Ma lei è stato l’unico fra i suoi fratelli e le sue sorelle ad avere questa opportunità. Come mai?

Mio padre ha avuto con mia madre altri dodici figli, io sono l’undicesimo. Quando avevo 8 anni mio padre mi ha mandato a scuola. I miei altri due fratelli maschi, più grandi di me, avevano una grave malattia agli occhi e non hanno potuto studiare. Alle figlie femmine non era concessa l’istruzione.

Quella è un’altra guerra da combattere.

Sì, nella nostra società, nella nostra epoca, una famiglia non esiste se solo composta da donne. Questo cinquant’anni fa, ma anche adesso.

Mi racconta il passaggio che ha fatto scattare in lei il bisogno di annientare la schiavitù in Mauritania?

Un fatto preciso ha lasciato un segno profondo dentro di me, è accaduto quando ero piccolo: uno schiavo che viveva col suo padrone vicino casa nostra è venuto a rifugiarsi da noi per un po’, per mangiare qualcosa e poi per riposarsi, aveva molta fame e mia madre lo ha accolto. Ad un certo punto è arrivato il suo padrone ed ha iniziato a bastonarlo perché aveva lasciato il lavoro. Ho chiesto a mia mamma come mai quell’uomo neppure provava a difendersi, lui era molto più alto e grosso dell’uomo che lo stava percuotendo. Mia madre mi disse che questa persona aveva le catene nella sua testa, che era bloccato psicologicamente e non conosceva un altro tipo di vita. Io dissi a mia madre che non le vedevo e lei mi fece segno indicandomi la sua testa. Erano lì dentro le sue catene.

Quindi è stato questo l’elemento scatenante per cui ha deciso di occuparsi del suo Paese e del grave problema che lo affligge, che lo mantiene in uno stato di arretratezza sociale e culturale?

Sì, quando ho saputo questa cosa da mia madre, ho capito che questa era anche la storia della nostra famiglia. Gli uomini religiosi da noi insegnano questo e se gli schiavi non assecondano questi insegnamenti sono convinti di andare all’inferno, per questo si sottomettono. Mio padre in seguito mi disse che mi aveva dato la possibilità di andare a scuola perché potessi essere una persona veramente libera e in grado di aiutare e combattere ogni tipo di ignoranza. Lui ha provato a combattere la schiavitù con la forza, non ha potuto con l’istruzione.

Chi sono i marabù?

Nella nostra religione musulmana abbiamo queste figure sacerdotali che chiamiamo marabù da cui è andata mia madre per sapere se avesse partorito un figlio maschio. Lui le diceva sempre di si, perché mia madre gli portava delle offerte, capretti, del grano, animali che avevamo. Ma mia madre partoriva sempre una o due figlie femmine gemelle. Io sono arrivato come penultimo figlio. E dopo di me un’altra femmina. Mia madre non mi chiama per nome, mi chiama “gli occhi dei miei figli” perché i miei altri due fratelli maggiori non vedono e io invece si e per questo potevo andare a scuola. Mandare a scuola le figlie femmine era impossibile, non era ben visto.

Dopo gli studi è divenuto attivo nell’associazione antischiavista Sos Esclaves, ma poi ha lasciato i suoi compagni per costituire l’Ira, Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista, nel 2008. Come mai?

Non sono rimasto in Sos Esclaves perché essendo una piccola organizzazione, il modo di comunicare era circoscritto ad una élite, come le azioni e i comunicati stampa sono elitari, e indirizzati solo al governo. Invece bisogna attaccare il potere religioso che ha legittimato e sacralizzato la schiavitù. Mohamed, lo schiavo che venne picchiato in casa mia dal suo padrone quando ero piccolo, aveva paura non del potere del governo ma dell’autorità religiosa che diceva che sarebbe andato all’inferno se non avesse servito a vita il suo padrone. Così al presidente di Sos Esclaves, Boubacar, ho proposto di non rimanere un movimento elitario ma civico, per affrontare il vero problema e per far conoscere questa situazione portando alla conoscenza del mondo i fatti come sono nella realtà. Boubacar non se l’è sentita perché troppo pericoloso, così ho lasciato quel movimento per costituirne un altro in grado di mettere a conoscenza il mondo di quanto succede veramente nel nostro Paese e perché. Così ho fondato l’Ira.

In occasione della vostra prima manifestazione come Ira lei viene arrestato per la prima volta.

La prima manifestazione popolare l’abbiamo fatta il 13 dicembre 2010, eravamo circa 80 persone. Ci hanno arrestati lo stesso giorno e torturati per una decina di giorni. Il sei gennaio mi hanno giudicato e condannato ad un anno di prigione. Un noto politico italiano, Marco Pannella, con i suoi compagni di partito, è venuto in Mauritania per sostenermi. È venuto a trovarmi in prigione e poi è andato dal Presidente Aziz per dire che non era giusto tenermi in prigione. Mentre ero agli arresti Pannella è venuto a trovarmi accompagnato dal Procuratore generale della Corte Suprema che rappresentava lo Stato, e io dissi a questo procuratore che era un bugiardo, che mi stavano accusando di cose false. Marco cercava di calmarci, ma io ero veramente arrabbiato. Gli ho detto che il presidente lo aveva mandato da me per dirmi che avevo commesso un crimine inesistente per il quale mi avevano incarcerato, ma loro avevano mentito a tutti, anche a Marco. Pannella era un uomo molto intelligente, ricevevo in carcere i suoi messaggi, sapevo che voleva che uscissi dal carcere prima possibile. Ho capito che Marco aveva discusso animatamente con il Presidente Aziz e che gli aveva chiesto la grazia per me. Ma io non volevo la grazia, l’ho scritto dalla prigione, perché non ero io il criminale ma lui, Aziz. La stampa ha riportato questa notizia, ma quando sono uscito mesi dopo hanno fatto passare questa mia liberazione come una grazia presidenziale. Il giorno dopo della mia liberazione ho ricevuto un biglietto aereo omaggio da parte di Marco che mi invitava al Congresso del suo partito.

Le accuse contro di lei non sono mai state circostanziate. Lei ha subìto molti momenti di tortura, sia fisica che psicologica. Ci racconta qualche particolare?

Sono stati tutti attentati del potere, che volevano fare desistere me e i miei compagni, per non dare valore al nostro operato, volevano assolutamente screditarci. Ho subìto torture sia fisiche che psicologiche. Per esempio, durante il mio primo arresto, sono stato tre giorni senza abiti, direttamente per terra, senza toilette, senza potermi lavare, con altri detenuti che facevano pipì e defecavano tutto intorno lì per terra. Avevo la testa incrostata di sangue per i colpi che avevo ricevuto, così pure le gambe, non riuscivo a stare seduto e per terra era freddo. È stata dura.

Le davano da mangiare?

Non era facile mangiare quel poco che davano, perché con quell’odore nauseabondo e con quel dolore non hai voglia di mangiare. C’era puzza di tutto, facevano pipì accanto a te perché la polizia non faceva uscire mai nessuno da quella stanza.

Poi cosa è successo?

Dopo sono stato spostato e isolato, ma non ricevevo informazioni sulla mia famiglia e sui miei amici. Il capo della polizia mi ha detto che tutti i miei compagni avevano firmato contro di me e che ero rimasto solo perché loro erano stato liberati. Quando hanno visto che stavo resistendo mi hanno detto che pure mia moglie aveva scritto contro di me, e che ormai tutto il mondo era contro di me. Sono rimasto così per sette giorni, con mille dubbi e ho pensato che avendo parlato con il capo della polizia, mi stesse dicendo la verità. Solo la faccenda di mia moglie non mi sembrava possibile, a questo non ho proprio creduto. Il settimo giorno, prima di andare in tribunale, che comincia a lavorare alle 8 di mattina e finisce alle 15, hanno aspettato fino alla chiusura per spostarmi e farmi entrare per processarmi. Così ho capito che le cose che mi avevano detto non erano vere, perché se il popolo non fosse stato con me mi avrebbero preso alle 8 di mattina per andare in tribunale. Invece mi hanno portato lì quando l’orario di apertura al pubblico era finito, cioè alle 15, mi hanno messo su una macchina. Ho capito che la gente era ancora con me, che non volevano farmi vedere da nessuno e che in realtà loro avevano paura di quanto poteva succedere per agire così. C’erano altre macchine oltre alla mia e una davanti alla mia era uguale a quella dove stavo io. Ho capito che su quella c’erano i miei compagni, che erano stati arrestati con me e che non mi avevano mai lasciato. In quel momento ho dimenticato tutte le sofferenze e le torture subìte, perché la gente era con me (fine prima parte).

@vanessaseffer

Da L’Opinione

Share

Giggino, Zingaretti e lo Zingarelli

Share

Che i due non fossero accademici della Crusca lo avevamo intuito. D’altra parte anch’io, pur vantando una discreta conoscenza della lingua del “Bel Paese dove ‘l si suona” non ho mai avuto l’ardire di considerarmi socia della prestigiosissima istituzione che annovera eminenti studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana. È altrettanto vero che non mi sono mai sognata di avanzare la domanda d’ingresso, laddove possa essere questa la modalità di accesso, anche in virtù del ricordo della famigerata matita a colori rossa e blu che ha determinato specifici incubi nel percorso della mia crescita formativa. Quindi l’indulgenza non può che farla da padrona in queste note.

Ma se siamo stati morbidi come una bistecca congelata col Giggino nazionale, non possiamo sottacere la gaffe del neo segretario nazionale del Pd (esiste, esiste ancora ed è una fortuna per la democrazia vedere una moltitudine di persone ai gazebo e non dovere immaginare qualcuno alla tastiera di un computer). Ebbene, il nostro presidente-commissario-segretario, sicuramente stanco per le recenti competizioni elettorali, ha inanellato, neanche fosse una cipolla in pastella, una gaffe lessicale: “I bandi non si interrompino: sarebbe criminale pensare di perdere centinaia di milioni di investimenti e migliaia di posti di lavoro”. Lo ha detto appunto il neo segretario del Pd, Nicola Zingaretti, parlando della Tav, al termine dell’incontro a Torino con il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino.

La sinistra non può e non deve sbagliare nella vita quotidiana. Non fosse altro per l’immaginario collettivo di una sinistra buona, buonista, altruista ed ormai quasi affrancata dal fiorentino convitato di pietra, in opportuno silenzio durante le recenti primarie. Ma la critica di una cronista può raggiungere vette inesplorate quando si mette di punta, non tanto per attaccare Zingaretti – non avendo alcuna intenzione di arruolarmi in queste truppe d’assalto – ma almeno per rendere l’onore delle armi al Giggino che, molto spiegabilmente e a buon titolo non accademico, stava assurgendo a simbolo dell’italico vizio di confondere il congiuntivo e la congiuntivite magari pretendendo di curare la malattia oculare rispolverando il mitico Zingarelli. Mannaggia, è proprio vero che bastano due consonanti e guarda come ti cambia la prospettiva! E allora ecco saltare fuori nella rete una perla del 2012: “A me hanno imparato che quando si fanno le scelte politiche e personali”. Gaffe di Nicola Zingaretti nel 2012, quando si candidava a guidare il Lazio, speranzoso di riportare a sinistra l’asse politico della Regione. Si diceva del Giggino: onore delle armi, sfilata, squillo di tromba, picchetto d’onore e via, in attesa di una prossima e certa chicca linguistica. Tanto si doveva per riequilibrare ogni eventuale interpretazione malevola sul vicepresidente del Consiglio e magari per riconoscere, alla fin fine, che è proprio la celebrità dei due politici a rendere attento l’ascolto e la lettura delle loro parole. Un suggerimento agli altri attori della politica: abbandonate ogni pretesa, qualora avanzata, di sostenere un linguaggio aulico e forbito perché non farebbe notizia. Quindi un po’ di strafalcioni aiutano, e via per la meritata fama, tanto le matite rossa e blu non le usa più nessuno.

@vanessaseffer

Share

Peperoni gialli e verdi fritti

Share

Peperoni gialli e verdi frittiGiuro che non l’avevo mai sentita. Trent’ anni di lavoro a Roma, persa tra ottobrate e ponentino, monumenti spettacolari e tramonti mozzafiato. E poi la cucina, romana, giudea, internazionale, fusion, etnica, fast food e slow food, finger food e food cucinato coi feet.

Eppure quel “i peperoni no, mi si ripropongono” davvero non l’avevo mai sentito. E l’intuito femminile mi ha aiutato a capire subito che il mio commensale, l’uomo che aveva appena finito di cantare le lodi della mostra Ovidio, amori, miti e altre storie, forse non avrebbe avuto una seconda chance.

Ma la curiosità è vezzo molto femminile e tornata a casa in anticipo sulla tabella di marcia – benedetto il mal di testa – ho iniziato a cercare in Rete qualcosa che mi aiutasse a valutare nella tradizione etimologica e culturale romana il riproporsi del peperone, una sorta di “rieccolo” o “ridaje” da dedicare al politico che ritorna, una seconda chance per rinverdire quel “che prendi cara?” che riempie tanto la solitudine dei nostri caffè al bar.

Digita e ridigita mi imbatto finalmente nella purezza accademica del peperone che si ripropone. Ed ecco la definizione compiuta di quella spiacevole sensazione di gonfiore e nausea – addome meteorico direbbero i medici se non fossero sempre più occupati a difendersi da ogni sorta di aggressione, ma questa davvero è un’altra storia causata dall’aver mangiato il lucido e variopinto peperone, vanto della cucina romana e non solo. E allora la memoria corre ai segreti tramandati di nonna e madre in figlia, le nipoti si sa ormai cucinano poco, dove il suggerimento giusto per rendere digeribile l’indigeribile non sarebbe mai stato “e tu non mangiarli” ma si sarebbe concretizzato nella spellatura, nella rimozione della parte bianca e dei semi contenuti all’interno ed in una cottura più lunga.

Peperoni rossi, peperoni verdi o peperoni gialli? Per Giggino e per il Capitano non ho dubbi. Forse peperoni rossi per Nicola Zingaretti considerato che poche settimane fa la Regione Lazio, dopo 4 quattro anni di blocco – si legge in una nota della Coldiretti di Latina – ha dato il via libera alla ripresa della produzione del peperone nel sud della provincia di Latina, nella piana di Fondi, zona fondamentale per il settore ortofrutticolo nazionale.

In Italia si sa quasi tutto finisce in politica ed io, per non sottrarmi alla tentazione e per non fare la parte di chi vuole uscire fuori dal coro, non posso che citare il presidente della Commissione Sanità della Regione Lazio che ha espresso la sua personale soddisfazione per il risultato raggiunto al termine di una lunga battaglia. E allora l’onorevole Giuseppe Simeone, peraltro persona cordiale e assai seria, in onore al simbolo del suo partito raddoppia il colore dei peperoni preferiti, impossessandosi sia del verde che del rosso. Per il bianco bisognerà accontentarsi del gusto culinario del suo presidente perennemente a dieta e, forse, ormai rigorosamente in bianco nelle cene eleganti.

Vabbè la pianto qui, la pianta di peperoni intendo, e anche questa nota e tralascio tutto quello che è ampiamente riportato nelle serre di internet e nelle tivù generaliste sui rapporti fra peperoni e cancro e sui tanti modi golosi di cucinare l’amata bacca utilizzata come gustosa e colorata verdura.

Mi resta un dubbio: il mio commensale si riproporrà?

@vanessaseffer

Share

L’Arcivescovo di Palermo che accomuna delinquenza e Massoneria

Share

L’Arcivescovo di Palermo che accomuna delinquenza e MassoneriaI responsabili e gli appartenenti alla Confraternite della Diocesi di Palermo non devono avere precedenti penali, in particolare per quanto riguarda reati di mafia e che con il loro comportamento provocano scandalo”, anche se non è chiaro cosa si intenda per scandalo, poiché ce ne sono di varie forme e generi. Fin qua comunque siamo d’accordo con lui, le cose sono decisamente in contrasto fra loro. Anime pie (i sacerdoti) e anime nere (i mafiosi) non possono convivere all’interno di una Confraternita diocesana. Ma poi aggiunge: “e non possono essere iscritti alla massoneria”.

Ecco, ci risiamo. Questo accomunare la mafia alla massoneria ci lascia decisamente sbalorditi. In una Regione come la Sicilia, che ha dato i natali a illustri scrittori, uomini e donne della cultura, della scienza, della letteratura, dell’arte, in una terra che ha dato i natali anche alla lingua italiana stessa, non ci aspettavamo di trovare tanta ignoranza preconcetta. Ma l’Arcivescovo di Palermo, Sua Eccellenza Corrado Lorefice, questo stabilisce con un suo decreto pubblicato sul sito dell’arcidiocesi.

Paragonare la massoneria alla criminalità, senza salvare nemmeno un iscritto, che magari ha sempre rigato dritto in tutta la sua esistenza e partecipa anche alle Messe domenicali, è un buon marito, un buon padre di famiglia, sembra davvero ingiusto, perché potrebbe restarci male! Sarebbe come a dire che tutti i siciliani sono mafiosi, che tutti i calabresi sono infrequentabili, che tutti i sacerdoti sono pedofili, e bene ha fatto Papa Francesco a dedicare quattro giorni di studio su questo tema che sembra interessare in maniera elettiva gli appartenenti al clero. Attenzione Don Lorefice! Le parole hanno un peso specifico e inserito in un suo decreto non lasciano scampo al pensiero che mirava proprio ad offendere e ghettizzare qualcuno. Basta fare due più due.

Per quanto danno hanno fatto le ghettizzazioni al mondo, non ci sono più volumi di Storia sufficienti. Ma per fortuna non tutta Santa Madre Chiesa cattolica la pensa come Sua Eccellenza Don Lorefice. Basta ricordare il dialogo con il Cardinale Ravasi o andare semplicemente sul web dove si scopre a riguardo che molte realtà cattoliche sono disponibili al dialogo con una massoneria che cerca di fare del bene e di far crescere mentalmente, con lo studio, la lettura, la cultura e il confronto, il prossimo. E tutto questo, senza scomodare eroi del Risorgimento ed altre personalità che hanno dato lustro alla Nazione. Non sarà che una mente aperta non è corruttibile e quindi per questo c’è ancora certa parte della Chiesa cattolica che teme che gli esseri umani possano pensare in modo indipendente?

Il Don di Palermo non ha fiducia neppure nelle certificazioni che si richiedono in Tribunale, i carichi pendenti e la fedina penale pulita, perché secondo lui “anche quella non è indice di una vita pulita”. Quanti delinquenti avranno la fedina pulita? Allora ritorno facilmente su quel pensiero di prima: sarà così anche per tutti i siciliani, i calabresi e i preti? Ma anche i colombiani, i napoletani, perché non parliamo dei cinesi o degli africani?

Per questo accogliamo la replica del Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, che risponde così all’Arcivescovo:

Gentile Eminenza

Ci dispiace dover ancora una volta constatare che un vescovo di Santa Romana Chiesa accomuni ipse facto la Massoneria alla stessa stregua di associazioni mafiose o di persone condannate e che, con apposito decreto, neghi a persone oneste e di buoni costumi di far parte di confraternite per il solo ed esclusivo motivo di essere liberi muratori. Questo suo atto vescovile, per quanto legittimo possa apparire ai suoi occhi nella forma giuridica e nel merito, ci amareggia ed è molto discutibile dal punto di vista morale per la palese discriminazione che innegabilmente investe e colpisce al cuore tanti cittadini e persone specchiate che hanno scelto di compiere anche un cammino religioso all’interno delle Confraternite. Chi è massone quindi non può far più parte di queste associazioni e dovrà autodenunciarsi e rinunciare ad essere un bravo confratello come ha sempre fatto, mentre chi non è ancora iscritto non potrà mai presentare domanda d’ingresso. Non le sembra che un simile provvedimento sia eccessivo oltre che discriminatorio e innalzi odiosi muri anziché costruire dei fecondi ponti di dialogo come ha spesso dichiarato Papa Bergoglio in numerose circostanze pubbliche? Non Le sembra che anche i massoni abbiano il sacrosanto diritto di professare come meglio credono la propria Fede e i propri valori cristiani?

Nel 2016 anche il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, in un suo scritto pubblicato su IlSole24ore ha citato il documento dei vescovi tedeschi del 1983, sostenendo che non possono essere ignorati i punti di contatto fra Massoneria e Chiesa che trovano valori comuni nella dimensione comunitaria, nella dignità umana, nella lotta al materialismo, nella beneficenza. In questo senso si può avere un libero confronto riducendo le distanze. Noi siamo e saremo sempre per la conciliabilità del dialogo e della Umana Ragione.

Le ricordo che oggi più che di provvedimenti restrittivi ci vorrebbe una profonda ed ampia azione pastorale volta a unire e non dividere le sensibilità religiose personali. Le vorrei poi fare notare che la Massoneria non è un’organizzazione segreta od occulta e che la sua azione illuminatrice rientra a pieno titolo fra quelle tutelate dalla Costituzione della Repubblica Italiana.

Le vorrei segnalare altresì che il Grande Oriente d’Italia sottopone a controlli rigorosissimi coloro che fanno richiesta d’ingresso e che richiede i certificati penali da tempo immemore, cosa che la chiesa di Palermo ha appena attuato tramite il suo decreto vescovile.

Naturalmente resta a tutt’oggi pendente la questione della scomunica che – pur attenuata dalla modifica dell’articolo 1374 del Codice Canonico con la scomparsa del preciso riferimento alla Massoneria e la trasformazione della “scomunica” in “giusta pena” – pende tutt’ora su milioni di liberi muratori. Una “pena ingiusta” ci appare sicuramente la sua decisione di escludere i massoni dalle Confraternite.

Cordiali saluti,

Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia

In conclusione, teniamo a precisare che il Goi ha 850 sedi con oltre 23mila iscritti. Regola di ogni istituzione massonica è di non avere pendenze legali. Nessuno riceve sconti su questo che è un fatto. Sappiamo che in molti ambienti, a cominciare dalla Chiesa cattolica funziona alle volte in modo diverso: promoveatur ut amoveatur. Ma non in Massoneria: o dentro e righi dritto o fuori.

@vanessaseffer

Share

La moda degli alberi che cascano

Share

La moda degli alberi che cascanoLo ammetto, ero ancora un po’ assonnata, e lì per lì non avevo fatto caso alle parole del tassista. Alle 7,30 del mattino via Nomentana comincia ad essere un serpentone continuo di automobili. E poi, anche se erano suonate magari un po’ anomale le parole del conducente, davvero non avevo capito perché una sosta prolungata davanti al semaforo rosso, mentre il tassametro cadenzava con puntualità l’aumento della tariffa, gli avesse determinato quella uscita: “Non mi piace stare qui fermo”.

Non è mia abitudine soffermarmi nei dialoghi di circostanza, i percorsi in taxi sono una buona occasione per riordinare le idee o anche solo per godere di minuti di silenzio. “Che succede?”, mi sono trovata a dire. “Non mi piace stare fermo sotto gli alberi, cascano. Ormai è una moda, ne casca uno e cominciano a cascarne altri. Una moda”.

La suggestione si sa è un attimo, e la paura ha tempi ancora più corti. Neanche troppo furtivamente l’occhio ha cominciato ad interessarsi ai platani, ai pini, ai lecci, insomma a tutto quello che aveva un tronco imponente, dei rami importanti e delle foglie. Le foglie però solo come elemento accessorio, tanto quelle cascano, ma fanno altri tipi di danno (“La medicina ed il sogno di una notte di mezzo autunno”).

La vista della Stazione Termini è stata un sollievo. Che strano, vedere Termini col suo variegato e multiforme deposito di varia umanità e definirlo un sollievo, i misteri della mente. Biglietto, treno, carrozza e via. Ma il pensiero rimane. Gli alberi che cascano quasi a volersi imitare. Sì, un po’ come le sciagure aeree, non vengono mai sole ci avete fatto caso?

Ottobre 2018: “Maltempo, limitare spostamenti per vento forte”. È lo stringato messaggio pubblicato sull’account ufficiale Twitter del Comune, firmato dal dipartimento della Protezione civile di Roma Capitale. Una strage di alberi, un autentico bollettino di guerra. Il tweet era stato profetico, facile fare previsioni quando il vento soffia forte alla velocità di 100 chilometri all’ora, una velocità che Valentino Rossi non prende neanche in considerazione quando scende in pista. Circa trecento interventi dei vigili, la chiusura temporanea dell’area archeologica del Colosseo a tutela dell’ incolumità dei cittadini ai quali venne vietato anche l’accesso ai cimiteri e ai principali parchi della Capitale.

Polemiche successive, il teatrino della politica, Raggi sì Raggi no, vi risparmio il ricordo delle manfrine. Però qualche giorno fa di vento non c’era neanche un accenno eppure un gran bel pino è caduto in strada a Corso Trieste a Roma proprio davanti al Liceo classico Giulio Cesare. E dire che quel liceo ne ha viste tante tra occupazioni, proteste omofobe, assalti neofascisti, docenti denunciati per avere proposto la lettura di libri sui diritti degli omosessuali. Eppure ad un certo punto tunf, o tumb, o bam o come diavolo fa un albero che decide di cadere e vuole fare l’onomatopeico con buona pace dei passerotti terrorizzati ai quali a quel punto proprio non viene in mente di cinguettare. Sul posto squadre di Vigili del fuoco, strada chiusa, folla di curiosi tenuti a debita distanza di sicurezza, i proprietari di due auto parcheggiate, danneggiate e da rottamare, nel pieno degli esercizi spirituali con il calendario gregoriano come testo di riferimento.

Però adesso anche gli uccellini di Roma hanno i requisiti per richiedere il reddito di cittadinanza e li vedremo in fila nei Caf o negli uffici postali dal 6 marzo. Virginia Raggi sì, Raggi no. Stavolta è andata bene. Il treno è arrivato puntuale a Milano. Stavolta è andata davvero bene: nessuna vittima come conseguenza della caduta dell’albero. Poteva essere una strage. Possiamo continuare ad affidarci al classico colpo di… fortuna?

@vanessaseffer

Share