Consumatori inconsapevoli, parla il comandante dei Nas

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Consumatori inconsapevoli, parla il comandante dei NasLe violazioni igienico-sanitarie negli ambienti pubblici che prevedono la presenza di cibo non solo nella ristorazione, ma anche fra i produttori, i confezionatori, i trasportatori, sono un numero davvero considerevole. I controlli in ristoranti pubblici, nelle mense o nei luoghi di lavoro connessi all’ospitalità delle persone, sono aumentati a dismisura negli ultimi anni. Le frodi alimentari, che ormai ci affliggono da decenni, sono sotto l’occhio del ciclone, ma finalmente l’opinione pubblica ne sta prendendo coscienza.

La vendita diffusa di prodotti sofisticati sembra essere all’ordine del giorno, prodotti come l’olio extravergine d’oliva, che pur di averne in quantità o di sembrare tale, viene diluito con olio di semi, per poi essere venduto sugli scaffali come olio evo al 100 per cento. Anche l’uso indiscriminato di sostanze coloranti o addensanti in certi alimenti per conservarli più a lungo, migliorarne l’aspetto, coprirne i difetti. Fare maquillage per carne, frutta, piatti pronti è una prassi. Questi e molti altri esempi potremmo farne con il latte, il pesce, la pasta fresca e così via fino a chiederci se le adulterazioni sono più dannose per la salute dei consumatori o per l’economia. Chi si occupa quotidianamente di controllare che sui territori in questi settori ciascuno faccia il proprio dovere sono i Nas, i Nuclei Antisofisticazioni Sanità dell’Arma, un’unità specializzata dei carabinieri istituita il 25 ottobre 1962 a seguito di un’intesa intercorsa fra il ministero della Salute, il ministero della Difesa e il Comando generale dell’Arma dei carabinieri, il cui compito è di “vigilare sulla disciplina igienica della produzione, commercializzazione e vendita delle sostanze alimentari e delle bevande, a tutela della salute pubblica”.

Parliamo di questi temi con il Comandante dei Nas di Roma, Maurizio Santori.

Comandante Santori, quali sono le principali criticità che vi trovate ad affrontare quotidianamente?

I carabinieri dei Nas, nella duplice funzione di ufficiali di polizia giudiziaria e di ispettori sanitari, svolgono i compiti loro affidati su richiesta del ministro della Salute o dei Reparti dell’Arma territoriale, oppure su delega dell’Autorità Giudiziaria, a seguito di denunce o segnalazioni da parte dei cittadini e/o su notizie-informazioni acquisite sul territorio. I settori di intervento principali sono “Alimenti (e bevande)” e “Sanità”. Le criticità connesse al primo settore possono essere riconducibili sostanzialmente alle condizioni igienico-sanitarie non sempre adeguate, alla mancanza di tracciabilità, alle carenze strutturali ed infine alle violazioni normative in merito alle autorizzazioni necessarie. Nel campo della sanità il discorso si fa più complesso e articolato, ma cercando di essere sintetico le posso dire che i nostri sforzi maggiori sono indirizzati alle strutture sanitarie, socio assistenziali, di riabilitazione, case di cura accreditate, case di cura private, residenze sanitarie assistenziali, case di riposo private, studi ed ambulatori medici, laboratori di analisi cliniche ed alla farmacovigilanza in generale. Altri ambiti di intervento, in cui riscontriamo talvolta criticità, sono gli stabilimenti termali, i centri di estetica ed i laboratori di tatuaggi e piercing.

Agromafie e rischi per la salute. Oltre alla Guardia di finanza vi occupate anche voi di attenzionare le leve finanziarie, la logistica e lo smercio nei supermercati di proprietà di organizzazioni criminali, oppure il vostro compito è limitato al traffico di prodotti alimentari non originali o scaduti? E il consumatore inconsapevole, quanto è esposto al rischio di sofisticazioni alimentari?

Tra i compiti del Nas c’è sicuramente anche quello di cercare il più possibile di individuare quelle reti criminali che si insinuano nella filiera dell’alimento, dalla sua produzione al trasporto, alla distribuzione fino alla vendita e ancora alla somministrazione. La criminalità agroalimentare è una criminalità di impresa, che sfrutta le opportunità offerte dalla vulnerabilità dei mercati sensibili. Il business del falso “made in Italy” muove grossi interessi economici e coinvolge molteplici fattori della filiera alimentare parallela, ecco perché è fondamentale in questi casi anche la sensibilità del privato cittadino che può segnalare le anomalie che dovesse riscontrare sul territorio.

“Malasanità” è un termine abusato col quale identificare una varietà quasi infinita di situazioni. Ci dà una sua definizione del concetto di malasanità?

Il concetto di “malasanità” è ampio e dalle molteplici sfaccettature. Possiamo affermare che il primo aspetto possa essere riconducibile ad una prestazione sanitaria che ha dato esito nefasto per il paziente che l’ha subita (morte/menomazione/danno permanente). In secondo luogo, l’insieme delle strutture operative e delle professionalità che dovrebbero garantire uno standard di elevato livello ed invece talvolta si rivelano assolutamente insufficienti somministrando cure inutili, superflue o addirittura dannose. In ultima analisi, la distorsione del sistema con comportamenti che poco hanno a che fare con la qualità e l’efficienza, ma che sono anzi riconducibili a una vera e propria “mala gestio” (consapevole o meno).

Residenze sanitarie per anziani, abusivismo nell’assistenza. Cosa colpisce l’uomo Santori prima ancora del responsabile sul territorio della Capitale dei Nas dell’Arma?

Mi fa una domanda molto delicata. Ho l’onore di comandare un Reparto di professionisti del settore e, quando gli impegni istituzionali me lo consentono, mi unisco a loro nei controlli che quotidianamente sviluppiamo sul territorio (soprattutto in orario notturno) e dopo tanti anni posso assicurarle che ancora oggi sono due i momenti che più mi colpiscono dal punto di vista umano. Quando mi reco negli ospedali pediatrici e quando ho l’occasione di ispezionare le case di riposo per anziani. Nel primo caso senti un umano bisogno di fare di più per questi bambini, di impegnarti allo spasimo affinché abbiano una sanità che funzioni e che sia efficiente ed efficace. Nel secondo tocchi con mano la parabola della vita, che nell’ultimo periodo della nostra esistenza si trasforma in un percorso lento, inesorabile e dall’esito scontato. Questi settori sono molto delicati e la fragilità dei protagonisti è particolarmente avvertita da noi e da tutta l’Arma dei carabinieri in generale, da sempre vicina alle persone più deboli ed esposte.

I Nas sono visti come uno spauracchio da chi ha qualcosa da nascondere e dunque da temere. Per la parte sana del Paese siete visti come una immagine salvifica, il Settimo Cavalleggeri che suona la carica combattendo la corruzione nella sanità, le sofisticazioni alimentari, i farmaci artefatti. Come si sente lei fra queste due visioni?

Siamo contenti, vuol dire che il nostro lavoro è apprezzato. Quando partecipo ad eventi e/o seminari in cui ho l’opportunità di spiegare che siamo ispettori sanitari, ma siamo anche e soprattutto “carabinieri”, le persone mi osservano stupite. Spesso mi capita di rispondere alle domande elencando i nostri settori di intervento e mi piace sottolineare che proprio la nostra duplice dipendenza (funzionale) dal ministero della Salute e (gerarchica) dall’Arma dei carabinieri, ci consente di essere operativi e protagonisti sul campo nella doppia veste di ispettori ed investigatori, spesso e volentieri con il prezioso ausilio dei colleghi dell’Arma territoriale che ci affiancano nelle ispezioni congiunte.

La sanità fa notizia soprattutto per le cose che non vanno bene. Per la sua esperienza abbiamo motivi per essere ottimisti anche alla luce dell’articolo 32 della Costituzione?

Se i padri costituenti, dopo le elezioni politiche del 1946, hanno ritenuto opportuno inserire un articolo che prevedesse la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, non solo hanno dimostrato lungimiranza e sensibilità umana e politica, ma hanno in qualche misura certificato l’assoluta importanza della materia. Mi piace pensare che il diritto alle prestazioni sanitarie e della cosiddetta libertà di cura, in altre parole e molto più semplicemente il diritto di essere curato e/o di non essere curato sia un fattore “naturale” e non riconducibile ad un effetto normativo. È vero ciò che lei sostiene, la sanità fa notizia soprattutto per le cose che non vanno bene, tuttavia nella sanità italiana, come in altri settori nevralgici del Paese, non mancano le eccellenze sia dal punto di vista delle strutture sanitarie sia dal punto di vista delle professionalità mediche.

Indossare la divisa dell’Arma è un onore. Qual è oggi la sfida più grande per lei nello svolgimento dei suoi importanti e delicati compiti?

Sono un privilegiato da questo punto di vista, ne sono consapevole. Indossare questa uniforme rende orgogliosi, fieri e consapevoli che, per onorarla al meglio, serve esprimere quotidianamente il massimo delle proprie potenzialità. Insieme ai miei collaboratori cerchiamo di affrontare le nuove sfide con determinazione, perseveranza ed impegno. I settori di intervento sono molti e spesso molto delicati, le aspettative della gente sono molto alte nei nostri confronti, la sfida più grande è quella di garantire sempre e comunque lo stesso standard di risultati, anzi cercare sempre di migliorarlo, mettendo al servizio del cittadino le nostre professionalità, né più e né meno di ciò che fa ciascun carabiniere ogni giorno sul territorio nazionale.

@vanessaseffer

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L’esigenza del “nuovo medico”, ne parla Ivan Cavicchi

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L’esigenza del “nuovo medico”, ne parla Ivan Cavicchi Il 13 dicembre ci sarà il workshop organizzato da FnomCeo per discutere l’ultima macroarea delle problematiche sulla questione medica che riguarda il lavoro. Ne parliamo con Ivan Cavicchi, esperto di politiche sanitarie e docente di Filosofia della Medicina a Tor Vergata. Ha scritto numerosi libri ed inneggia ad un “cambiamento” necessario nel settore della sanità pubblica, specialmente riguardante la figura di un nuovo medico, poiché c’è una crisi di questa figura così centrale nella vita di tutti noi che non risponde più alle necessità della società odierna, per cui come lui stesso ha detto, oggi abbiamo “una medicina scientificamente forte ma socialmente inadeguata”.

Da dove si comincia a ridisegnare questa figura del “nuovo medico”?

Partiamo dall’idea che noi dobbiamo ridefinire il medico per necessità, ma non si può ridefinire il medico indipendentemente dalla ridefinizione del suo lavoro. Ma il suo lavoro ha tanti profili, giuridici, normativi e contrattuali. Ovviamente il tema è delicato, perché si colloca a metà strada fra la questione delle professioni e le questioni sindacali. Sottolineo le questioni sindacali per evidenziare l’autonomia del sindacato su queste cose. Però non si può pensare ad un nuovo medico senza pensare ad un’idea di nuovo salario, nuova retribuzione, nuova organizzazione del lavoro, pensando che in questo settore diciamo che proprio il lavoro in quanto tale in generale è la parte che è variata meno in questi ultimi tempi, cioè ci sono molte continuità. Per esempio Filippo Anelli dice che i medici sono dipendenti dello Stato. Un’idea che ho in mente è di ripensare proprio il concetto di “dipendente”, che vuol dire semplicemente che un medico è definito in base a delle norme di riferimento e la norma di riferimento definisce i compiti e il medico fa i compiti che sono descritti dalla norma. Per i contesti che abbiamo, per le complessità che dobbiamo governare, per i contrasti che abbiamo con la società, io penso che dobbiamo avere un’idea nuova, e questa nuova idea l’ho chiamata “l’autore”.

In cosa consisterebbe il compito di un autore?

Un autore giuridicamente lavorerebbe per l’azienda, ma dal punto di vista professionale è un signore che in cambio di autonomia offre responsabilità. Sostanzialmente il discorso è “dimmi quello che vuoi, ci mettiamo d’accordo, però mi dai l’autonomia di organizzare il mio lavoro e in cambio mi misuri sui risultati”. Questa idea dell’autore per esempio media molto il dibattito che c’è stato qualche anno fa e che si è arenato tra coloro che volevano diventare tutti convenzionati e coloro che dovevano diventare tutti dipendenti. In realtà tra il convenzionato e il dipendente secondo me c’è una terza via che è questa idea di autore, perché se alla base della crisi del medico c’è un’aggressione all’autonomia, noi non possiamo pensare di ridefinire il medico senza ridefinire la sua autonomia, per cui l’idea dell’autore si presterebbe a questo. È un modo, anche dal punto di vista contrattuale, di ridefinire l’autonomia del medico rimetterlo al centro. Anzi, oso pensare che addirittura ci vuole più autonomia del passato, bisogne pensare ad un medico diverso. Questo apre degli orizzonti interessanti perché ti obbliga per esempio a ripensare all’azienda (Asl).

Vorrei fare l’avvocato del diavolo. Quando in politica c’è un fallimento, ne abbiamo visti uno dietro l’altro negli ultimi anni, il partito o gruppo politico torna travestito da qualcos’altro e dice sempre di essere il “nuovo”. Nel caso del medico e delle aziende, in che cosa dovrebbe consistere la novità? Tanto il palcoscenico e il pubblico non cambiano.

Nel caso dell’autore cambia proprio l’idea di medico. Dipendente significa pendere giù. Dipendi da norme che definiscono le tue competenze. Sono le competenze che definiscono quello che devi fare. L’idea dell’autore è diversa poiché hai un ambito di autonomia che puoi governare come ti pare con l’unico obbligo di dare dei risultati, non puoi fare del tutto come ti pare, è un’idea nuova di professione in un contesto di azienda più diffusa, un’idea quasi del medico autoimprenditore di se stesso, non più il dipendente classico dello Stato. Ecco è questa idea che vorremmo approfondire, certamente nuova e da qui cambierebbe il profilo professionale, il lavoro.

Il rischio qual è?

Il rischio che vedo che se non lo definisci bene puoi scadere nell’arbitrio e questo è da evitare. Io ti do autonomia ma non puoi fare quello che vuoi. È un’autonomia condizionata al rendimento, a degli obiettivi da raggiungere che concordo con la mia controparte.

La controparte, la politica, è sufficientemente pronta?

No, bisogna lavorare molto su questo, perché per esempio un autore implica un direttore generale completamente diverso, non un monarca, ma una diversa visione del potere gestionale. L’idea dell’autore viene fuori dalla necessità di dare di più al malato, dare di più alla società e nello stesso tempo di raddrizzare il tiro ad una crisi professionale.

@vanessaseffer

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Forum di Firenze: il nuovo ruolo dei professionisti della sanità

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Forum di Firenze: il nuovo ruolo dei professionisti della sanitàIl quattordicesimo Forum Risk Management della sanità tenutosi a Firenze si è affermato come sede per la diffusione di buone pratiche per la sicurezza del paziente, dove fare sintesi e dare sviluppo alle numerose proposte che sono state presentate e condivise dai numerosi ed illustri ospiti che hanno animato gli spazi della Fortezza da Basso. Quest’anno un titolo molto interessante: “La sanità che cambia. Equità di accesso, innovazione, sostenibilità. Professionisti sanitari e cittadini protagonisti del cambiamento” con un programma che si pone un ambizioso obiettivo, quello di dare un contributo al necessario cambiamento del Sistema sanitario nazionale obiettivamente a rischio, che non lascia fuori i veri protagonisti: i medici e i cittadini, veri fruitori dei servizi sanitari.

Fra questi due mondi sembra esserci oggi una grande distanza. Come colmarla, dove si è sbagliato? Sotto i riflettori anche l’intero Ssn, fiore all’occhiello del Paese. Necessita uno sforzo da parte di tutte le istituzioni per aggiornarsi e superare le forti disuguaglianze regionali nell’accesso ai servizi. La Cisl medici nazionale, insieme a Simedet, a tal proposito ha organizzato un interessante simposio, il cui direttore scientifico è stato Giuseppe Giordano, della Cisl medici Umbria. Presieduto da Fernando Capuano, presidente nazionale simedet e da Biagio Papotto, segretario nazionale Cisl medici, moderato da Maurizio Zampetti, segretario nazionale aggiunto Cisl medici nazionale, ospitando grandi personalità, “cultori della materia con gli stessi obiettivi”, fra cui Federico Gelli, Ivan Cavicchi, la professoressa Donatella Lippi e Filippo Anelli, per discutere su come mantenere questo grande patrimonio che è il Ssn, che lo scorso anno ha festeggiato i 40’ anni e che adesso andrebbe modernizzato, arricchito, coltivato ma, soprattutto, mantenuto. “Negli anni ‘90 – come ha spiegato Federico Gelli, ospite della mattinata e autore della nota legge – qualcuno ipotizzava di farne un sistema misto come in Gran Bretagna, un Paese non così lontano dal nostro, dove il Sistema Sanitario presenta molte difficoltà”.

Con la riforma del Titolo V nel 2001 si ebbero 21 sistemi sanitari diversi, aumentando così le diseguaglianze e il caos. Il federalismo sanitario è stato un fallimento, perchéla sanità non è uguale in tutte le regioni, c’è la sanità di serie A, B e C. Allora abbiamo domandato a Federico Gelli.

Forse ci si è sbagliati? I dati dicono che la vita si è allungata e per questo non possiamo farcene una colpa. Se in più nasciamo in una regione svantaggiata rispetto ad un’altra più organizzata, va da sé che non si arriva ad invecchiare bene, dignitosamente, considerando che in quel territorio rispetto ad un altro non ci sono i servizi adeguati sulla base di quanto si è detto. È tutto da ripensare e non tutti oggi hanno i soldi per mangiare, figuriamoci per curarsi.

La politica deve avere il coraggio di resettare in senso positivo ciò che è avvenuto in questo Paese, noi abbiamo visto negli ultimi anni misure coraggiose importanti che cercano di aiutare le fasce medie della popolazione, come gli 80 euro di Matteo Renzi; abbiamo visto misure che cercano di arginare la povertà o comunque la situazione del disagio attraverso il reddito di cittadinanza. Io credo che il governo di un Paese come il nostro debba cogliere nel modo più propositivo possibile il valore straordinario che è il nostro Ssn unico nel mondo che ha ancora. Perché dico unico, perché noi abbiamo la storia del nostro Paese che si incentra su grandi e importanti riforme e sicuramente l’istituzione del servizio pubblico nel 1988 è stata una delle più grandi scelte di democrazia di questo paese. Altri paesi al quale noi ci siamo ispirati hanno abbandonato questo modello per problemi di compatibilità, per problemi economici, per scelte politiche, noi ancora oggi resistiamo. Ho l’impressione che anche noi, se non interveniamo con una cura shock, con una cura forte dal punto di vista decisionale, anche annunciando una nuova riforma del sistema sanitario con una serie importante di paradigmi e paletti che sono quelli dei principi fondativi del sistema sanitario del nostro paese, non saremo in grado di affrontare il futuro. Ben vengano le misure che sono state emanate in queste ultime settimane, l’incremento nella prossima legge di bilancio del Fondo sanitario nazionale sugli investimenti in edilizia, sul ticket. Ma non è sufficiente, perché non è attraverso interventi spot annuali, che sono legati alla contingenza del bilancio dello stato, che possiamo pensare di salvaguardare questo grande patrimonio, ma attraverso una grande e importante riforma dove investiamo in termini di risorse, in termini di perequazione, nella distribuzione delle risorse fra nord e sud. Per cui ben venga l’auspicio del ministro della Salute Roberto Speranza di lanciare criteri nuovi maggiormente equi nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale. Non è attraverso un regionalismo nazionale differenziato in senso negativo che noi dobbiamo andare, ma attraverso una maggiore perequazione delle risorse attraverso un maggiore ruolo del governo nazionale sulla sanità, e queste sfide si fanno se c’è una classe dirigente che ha il coraggio per presentare un cambiamento reale al paese. Abbiamo avuto il coraggio di presentare le altre misure che prima dicevo, perché non essere in grado di lanciare un’idea così bella e importante visto che il 98 per cento, forse il 100 per cento degli italiani sono legati, affezionati, a questo sistema che non ha uguali nel resto del mondo?

Altra presenza di rilievo all’incontro organizzato dalla Cisl Medici e da Simedet è Filippo Anelli, presidente di Fnomceo, che ha parlato della crisi della figura professionale del medico di oggi. Gli esperti oggi vogliono capire chi sia diventato il medico nei giorni odierni. Sembra non essere più libero di esercitare la sua professione o addirittura di fare prescrizioni anche di farmaci fondamentali e quindi la professione pare essere compromessa. Tutti vogliono mettere bocca su tutto.

Lei ha detto che la mancanza di autonomia nella professione medica non è un rischio ma una realtà. Come si può ritrovare questa autonomia?

Il recupero può avvenire solo attraverso una riappropriazione della credibilità, quindi è un percorso non soltanto di carattere tecnico ma soprattutto culturale. Nel senso che se nella nostra società noi medici torniamo a svolgere un ruolo importante e siamo percepiti come coloro che difendono i diritti di salute dei cittadini, che permettono che siano garantiti quei diritti, questo darà nuovamente credibilità alla professione, consentendo di staccarci da quell’idea che ci è stata affibbiata da un filone culturale presente dalla fine del secolo scorso e all’inizio di questo secolo che voleva trasformarci in tecnici, parte di un sistema a cui dare indicazioni e disponibilità economica che lo Stato aveva. Qui noi ci siamo prestati, sentendoci “dipendenti”, diventando i “medici dello Stato”. Invece i medici devono tornare ad avere un unico obiettivo, così come dicono le sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale i medici hanno un unico interesse: difendere la salute del cittadino, niente altro. Farlo naturalmente col massimo dell’appropriatezza, il che significa utilizzare bene le risorse, ma l’obiettivo non è quello del risparmio, di stare dentro un budget, ma quello di tutelare nella maniera migliore la salute del cittadino. Questo è il passaggio culturale che dobbiamo tornare a riproporre nella società che ci deve percepire come suo tutore, come se fossimo angeli custodi, come una volta, come riferimenti. Non può essere un processo normativo però, ma un processo culturale.

Dare alcune prestazioni mediche agli infermieri, è sicuro? Lei è d’accordo?

No, le prestazioni devono essere finalizzate alle proprie competenze e alle competenze acquisite e non possono riguardare tutti gli aspetti che sono legati alla diagnosi e cura, quindi anche gli strumenti che gli infermieri possono utilizzare, li possono utilizzare nell’ambito di quelle che sono le loro competenze e quindi non si deve mai superare la soglia della diagnosi e cura. Questo qualche volta è successo e quindi bisogna recuperare un ruolo e condividere insieme con gli infermieri che è possibile migliorare le loro prestazioni, migliorarle in termini di competenza e quindi migliorare la conoscenza e anche l’utilizzo degli strumenti se serve a far sì che diventino ancora più efficace il loro esercizio professionale, ma questo non può significare un’invasione di campo nella diagnosi e cura.

@vanessaseffer

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Rems e malattie mentali in aumento: parla lo psichiatra Gianluca Lisa

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Rems e malattie mentali in aumento: parla lo psichiatra Gianluca LisaLe Rems, ossia Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sono strutture residenziali con funzioni socio-riabilitative nelle quali alcuni autori di reato, nella fattispecie quelli affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, su disposizione della magistratura, vengono accolti, quando una misura detentiva vera e propria a causa del loro stato di salute mentale non si può applicare, al fine di poter essere curati. La gestione interna dei pazienti che non possono definirsi detenuti, è di competenza esclusivamente sanitaria, poiché afferenti al Dipartimento di Salute mentale. Queste strutture sostituiscono i precedenti Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che a loro volta sono subentrati alla chiusura dei ben noti manicomi chiusi con la legge Basaglia.

Ma siamo certi che nelle Rems ci sia tutto ciò che serve per affrontare ed assicurare le cure adeguate e fare fronte alla pericolosità sociale dell’infermo e seminfermo di mente? Di questo parliamo con uno psichiatra ligure, il dottor Gianluca Lisa, componente dell’Esecutivo nazionale della Cisl medici. Fino al maggio di quest’anno 2019 in Italia ci sono 30 Rems. In Liguria ce n’è solo una a Genova con 20 posti. Nel Lazio ce ne sono 5 con 111 posti in totale. Una di queste si trova al sesto piano di un palazzo. Le liste d’attesa sono lunghissime in tutte le regioni, e molti pazienti che avrebbero diritto ad essere ospitati in Rems non possono accedervi. Nel frattempo chi commette un reato e non può essere condotto in prigione perché non un luogo adatto in quanto si è agito per ragioni dovute alla malattia mentale, non può usufruirne e quindi è alto anche il rischio suicidio.

La Rems ha ragion di esistere così come è concepita o ci vorrebbe un miglioramento del sistema?

Secondo me è un problema atavico del nostro Paese ed una gestione un poco superficiale come è spesso stato dei problemi seri. La 180 è sicuramente stata una legge importante, il problema delle Rems l’ho gestito in passato sindacalmente nella regione dove lavoro e in Piemonte con cui abbiamo molti contatti. Innanzitutto il problema nasce dalla 180, perché i manicomi ad un certo punto erano diventati dei lager, quindi menomale che è arrivata questa legge, che avrebbe dovuto garantire un’assistenza territoriale ai pazienti psichiatrici, ma questo è avvenuto solo parzialmente e buona parte della problematica è ricaduta sulle famiglie. Gli Ospedali psichiatrici giudiziali andavano a mio modesto avviso umanizzati, ristrutturati e riadeguati, perché le Rems oltretutto non sono dei luoghi di cura ma sono posti di degenza. Partiamo dal presupposto che nel momento in cui per il paziente psichiatrico viene disposto un inserimento presso una Rems, non appena questo si scompensa, nella Rems non fanno delle terapie specifiche ma lo mandano nel reparto psichiatrico. Quindi si crea un paradosso per cui molte volte il ricovero del paziente viene indicato presso una Rems che non è dotata di quegli strumenti per trattare, perché parliamo di “pazienti psichiatrici”, se escono da un Opg non si tratta di pazienti che non sono solo psichiatrici ma hanno anche un discreto grado di pericolosità o potrebbero averlo. Il paziente psichiatrico è di per sé imprevedibile, molte disgrazie accadono anche perché può avere una crisi improvvisa. Quindi nel momento in cui si crea un’alternativa all’Opg, deve essere un luogo dove una persona staziona ma dove venga anche curata. Ho sentito molti colleghi lamentarsi di alcune disposizioni della magistratura che facevano sì che il paziente dato che non c’era posto nella Rems veniva messo in Servizio psichiatrico diagnosi e cura (Spdc), quindi c’è il problema del “chi lo piantona?”, spesso la polizia penitenziaria non ha personale, allora si cercano degli escamotage per cui ne fanno le spese sempre i medici.

Quando un paziente psichiatrico ha commesso un reato grave e viene condotto in carcere è comunque pericoloso per gli altri carcerati e per chi lo piantona?

Bisogna vedere caso per caso, si parte dal presupposto che l’atto delittuoso possa essere stato commesso da un paziente psichiatrico o no? Il paziente psichiatrico è potenzialmente più pericoloso rispetto al delinquente comune per la legge, bisogna vedere se era in cura già prima o dopo il fatto, ma lì la Magistratura interviene secondo precise norme a seconda della gravità dell’avvenimento. Se questo paziente era in carico ad uno specialista, la Magistratura cerca di individuare anche dove vi siano state delle responsabilità nel prescrivere il percorso di cura. Diverso è il caso di un paziente che commette un atto delittuoso e poi ad un certo punto, come spesso accade per qualsiasi delitto si invoca o si chiedono i Ctu, cioè le consulenze tecniche, per capire se ci sono patologie psichiatriche, le parti difensive intervengono. Delle due l’una: o tutte le carceri sono dei reparti psichiatrici o troviamo delle soluzioni per definire un po’ meglio questi percorsi, anche sotto il profilo legale.

Lei dice, posso capire perché è problematico il mondo delle Rems. Qual è il problema? Cosa manca, c’è una carenza di psichiatri, perché non si può curare bene dentro le Rems, c’è un vuoto legislativo?

C’è innanzitutto una carenza numerica degli psichiatri anche sui territori e negli Spdc, nei reparti psichiatrici, perché come auspicava la legge 180 se fosse stata effettivamente garantita a tutti coloro che uscivano dai manicomi l’assistenza territoriale, con personale adeguato, quindi con gli psichiatri, molti problemi sarebbero stati risolti. Il problema è che adesso il servizio di salute mentale in diverse Regioni è, non dico sicuramente al collasso, ma certamente in una fase problematica per la scarsità di personale, ma ciò non riguarda solo il personale medico, parlo anche di infermieri, educatori, psicologi e dunque praticamente quando i servizi non riescono a lavorare perché manca il personale, tutte le cose a cascata si complicano. La Rems poi, per come è strutturata, è un posto dove il paziente prima o poi si scompensa e viene inviato in un reparto psichiatrico, quindi si va a gravare con un problema giudiziario i reparti psichiatrici degli ospedali che sono già al collasso. In ogni provincia dovrebbero esserci 16 posti in un reparto psichiatrico, poi in ogni realtà questi posti sono derogati, chi arriva a 20, chi arriva a chiederne 24, perché in effetti la patologia psichiatrica sta aumentando in maniera esponenziale forse perché questa società è per certi versi troppo permissiva e senza regole ed infatti nei reparti psichiatrici arrivano sempre più i giovani. I giovani hanno in più le conseguenze delle assunzioni degli stupefacenti, di droghe sempre più complesse. La Rems va a creare un problema in più fra gli Spdc che hanno già pochi posti in urgenza, perché non dimentichiamoci che l’Spdc è un reparto di urgenza, che prevede una durata di ricovero anche breve con un turnover elevato, e in questa particolare circostanza vanno a bloccare un posto con un ricovero che a mio parere è improprio, perché dovrebbe essere la Rems a gestire il paziente al suo interno e non all’insorgere di un problema mandarlo in Spdc, perché i posti sono pochi. Quindi si somma problema su problema, i posti sono pochi, le Rems non hanno i numeri di posti adeguati al problema e diventa un sistema che va inevitabilmente verso l’implosione.

Essendoci tutte queste problematiche nuove, legate anche al decadimento dei valori e quindi si abbassa anche l’età, perché c’è una nuova falla che coinvolge la famiglia che non può reggere questa situazione di figli con queste problematiche, genitori single e non con figli aggressivi, che si drogano, che fanno uso di droghe nuove, che hanno comportamenti molto aggressivi, probabilmente bisognerà inventarsi altri luoghi che non siano queste Rems, perché non sembrano il posto adatto a questo tipo di situazione che si stanno venendo a creare. Poi anche fra i giovani sembra esserci una violenza dilagante e molto preoccupante.

Lei sta sottolineando un problema importante, non dimentichiamoci che c’è un confine: la minore e la maggiore età. Intanto c’è la competenza del Tribunale dei minori per i giovani di minore età e poi è vero che stanno aumentando i ricoveri anche dei minori nei reparti psichiatrici. Ho sentito dei colleghi in Liguria con cui parlavamo di casi di ragazzini di 11-13 anni già ricoverati. Ho fatto dei ragionamenti anche da sindacalista e non da uomo della strada. È normale che in un paese civile serie tivù come Gomorra o Romanzo Criminale vengano trasmesse dalle televisioni quasi in senso apologetico? Dove nella mente dei ragazzi lavorano chissà in che modo? Una volta c’era la famiglia che dava delle regole, c’erano tutti in casa, compreso i nonni, mentre al giorno d’oggi i ragazzi vengono parcheggiati davanti alla televisione o al telefonino, spesso minori, e spesso vedono spettacoli raccapriccianti, perché c’è un grande business dietro. Se fossi nei panni del presidente del Consiglio farei cessare subito questo tipo di programmazioni perché sono profondamente diseducative, trasmettono una serie di valori totalmente antitetici a quelli che erano delle passate generazioni. Per certi versi ci stupiamo di quello che accade fra i giovani, dell’uso di droghe smodato, o di alcol. Ma c’è un po’ di ipocrisia, perché la società oggi non sta facendo nulla per andare incontro ai ragazzi, non ci sono regole, ci sono le discoteche già aperte alle 16, una società che se non si dà una regolata sul controllo del sociale anche abbastanza rigido non capisce che a farne le spese sono proprio i ragazzi. I giovani non vanno in una Rems perché c’è il carcere minorile, ci auguriamo che fino ad oggi vengano destinate ai maggiorenni, però ci sono dei ragazzi di sedici anni che creano dei problemi di ordine pubblico e di gestione psichiatrica non indifferente e che non sono il bambino che noi potevamo conoscere nelle nostra generazioni precedenti, ma sono degli energumeni alti due metri che creano non pochi problemi nei reparti dove vengono ricoverati e oltretutto si tratta di patologie dovute all’uso di droghe che vengono sintetizzate in laboratorio sulle quali noi non abbiamo ancora che una scarsa conoscenza e non sappiamo con precisione cosa può derivare dalla interazione con farmaci che abitualmente vengono somministrati per smorzarne gli effetti.

Nelle Rems, qualora ci fossero tutte le figure necessarie, medici, psichiatri, infermieri, psicologi, educatori, ci sarebbe la possibilità di curare o no? Oppure è un luogo dove si staziona e basta? Vorrei precisarlo una volta per tutte.

La Rems ad oggi non è un luogo di cura, auspico che lo possano diventare effettivamente, non si può andare in carcere e non si può andare più in Ospedale psichiatrico giudiziario. È una via di mezzo. Il paziente psichiatrico non è consapevole dei suoi agiti ma questa inconsapevolezza fa sì che mentre la persona che non ha problemi psichiatrici e commette un reato può pentirsi, il paziente psichiatrico è un caso diverso, lui può commettere certe azioni sotto l’influsso di un peggioramento delle sue condizioni che sono imprevedibili e dipendono anche dalle terapie che assumono. Quindi un luogo dove vengano controllati ci vuole. Non è un problema di Rems, ci vorrebbe un potenziamento dell’assistenza psichiatrica nel suo complesso, a partire dai servizi territoriali. Se questi potessero funzionare meglio avremmo sicuramente meno ricoveri in Spdc, se i servizi psichiatrici fossero potenziati anche relativamente al Servizio tossicodipendenze (Sert). Però anche la società deve fare la sua parte, dando delle regole ai giovani che in questo momento non ne hanno, tutta questa situazione sarebbe più contenuta, perché sta portando ad un aumento esponenziale della patologia psichiatrica. Una volta ad un Congresso rispetto a questo problema usai una metafora citando la Battaglia di Capo Matapan dove in pochi minuti furono affondati tre incrociatori italiani, lo Zara, il Pola e il Fiume. Quella notte gli italiani si dimenticarono degli inglesi, che tra l’altro avevano il radar, ma gli inglesi non si dimenticarono degli italiani. Allo stesso modo, la nostra società, le nostre istituzioni si sono dimenticate della psichiatria, ma la psichiatria non si sta dimenticando della società che sta regredendo, con l’aumento di tutte queste patologie documentate. La risposta va data soprattutto sul territorio, sono convinto che la 180 sia stata una conquista con un impianto per certi versi positivo, che non ha avuto quelle risorse promesse e le famiglie il più delle volte si son trovate a gestire loro il paziente psichiatrico anche scompensato.

Alcuni pazienti di alcune Rems hanno anche il permesso per uscire dalle strutture per qualche ora.

I permessi, le concessioni, sono cose importanti che vanno date cum grano salis, valutando attentamente, perché quando dai una possibilità ad una persona con malattie mentali devi essere profondamente sicuro del processo riabilitativo terapeutico e non si manda fuori a casaccio solo per dire di aver fatto una bella azione. Deve esserci un disegno clinico e riabilitativo dietro.

Alcune persone con disturbi mentali vengono inserite in contesti abitativi ad hoc, sorgono appartamenti dove possono vivere insieme, sono realtà per un certo tipo di pazienti psichiatrici, che non hanno commesso reati, quindi non da Rems, che non sanno dove vivere e questa soluzione sembra essere un’alternativa possibile. Che ne pensa?

Potrebbe essere una esperienza positiva, ma il problema sono le risorse che ci mettiamo per gestire questi pazienti. Piuttosto che rinchiusi in un istituto, se possono conquistare un po’ di autonomia è una cosa importante, ma sono necessari quei servizi del territorio che potenziati, facciano un lavoro di gestione dei processi di contenimento. Non si può mandare una lettera al paziente psichiatrico per dirgli di andare a stare in quella casa o andare a fare le terapie in quel posto, sono i terapeuti che devono andare a trovarli periodicamente a seconda dei casi e della patologia. Ci sono poi alcune patologie pericolose, ci sono stati dei colleghi psichiatri che hanno perso la vita a causa di alcuni pazienti aggressivi, perché spesso alcuni soggetti sono rischiosi e impegnativi per tutti quelli che hanno a che fare con lui a partire dai medici e i familiari. Per questo dico che se la società si rendesse conto che la patologia psichiatrica sta aumentando esponenzialmente, magari si avrebbe la consapevolezza di doversi adoperare aumentando i servizi.

Uno psichiatra ha bisogno di scaricare la sua “spazzatura” scaricando periodicamente in qualche modo tutto ciò che gli altri raccontano e che lui accumula?

Io ritengo che la psichiatria rappresenti l’aristocrazia dell’arte medica. Molte volte sono stato chiamato anche per consulenze insieme a patologie neurologiche o internistiche, lo psichiatra serve anche in casi come quelli, adesso vado meno per la mia età, un medico ama tutti i suoi pazienti, forse lo psichiatra li ama un po’ di più. Poi ogni psichiatra secondo me dovrebbe fare un percorso analitico, ma non perché ne abbia bisogno, ma perché quando si parla con un paziente e vengono fuori i vissuti della persona, la famiglia, gli affetti, lo psichiatra deve essere attento a non trasferire su di sé le tematiche affrontate. Comunque abitualmente si fa, è utile ma non è obbligatorio.

Dovrebbero fare o no un percorso psicanalitico anche gli insegnanti, i magistrati, i preti e tutti coloro che per mestiere hanno e che avranno a che fare con la vita e il futuro delle persone?

Diciamo che viviamo in una società troppo veloce, che chiede molto, a tutti noi. Faccio una considerazione che va fuori tema, ma che dimostra cosa succede quando viviamo senza fermarci. Provo profondo dolore per quei genitori che hanno abbandonato in macchina i figli convinti di averli portati all’asilo e che poi sono deceduti per il caldo ad esempio. Pensiamo ad una persona in questa società che rischia il posto di lavoro, le rate del mutuo e che ha un blocco per cui dimentica. Che tragedia può essere. Tutti, nessuno escluso, avrebbero bisogno di un momento per fermarsi, per come si corre oggi e per le responsabilità che ha, non abbiamo cinque minuti di tempo da dedicarci? O per avere la consapevolezza di averne bisogno? Tante persone potrebbero giovarsene ma non averne la consapevolezza dell’utilità. Alcuni negano l’utilità di questo tipo di supporto che è un prendersi cura di sé. Molto importante è la funzione della scuola. Ricordo di essere stato chiamato con una quindicina di colleghi in una scuola per il caso di un bambino perché rompeva delle cose. Io feci presente che fra operatori pubblici, assistenti sociali eravamo quindici persone pagate dallo Stato. Se quando ero piccolo io o uno dei miei compagni ci fossimo azzardati non dico a spaccare qualcosa ma a fare uno scarabocchio sul muro della scuola, sarebbe arrivato il maestro, mi avrebbe portato a calci sul sedere dal preside, il preside mi avrebbe preso per un orecchio e avrebbe chiamato mio padre che sarebbe venuto, mi avrebbe portato a casa e mi avrebbe messo in punizione. I nostri maestri fino agli anni Sessanta gestivano delle classi con ragazzi molto problematici, compreso i disabili che ci sono sempre stati. Ma nella nostra società è cambiato qualcosa in peggio in questi anni? C’è stata una richiesta di libertà soggettiva sociale che ha portato ad una assenza totale di regole specie per le giovani generazioni e questo è un problema.

@vanessaseffer

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Cinema e Psiche, parla Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari

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Cinema e Psiche, parla Maria Antonietta Coccanari de’ FornariSarà stato un caso che all’inizio del secolo scorso, mentre Sigmund Freud coniava il termine “psicanalisi” i fratelli Lumiere stavano inventando il cinema? Non si può negare che nei film spesso si indagano le difficoltà umane, gli aspetti più nascosti della personalità dei protagonisti e quindi della mente. Allora perché non usare il cinema come strumento di cura, dato che il rapporto tra il mondo della psiche e il cinema è così stretto? Il cinema dunque in questo modo è vicino alla mente umana non solo per esplorarne i meandri più oscuri, ma per mettersi al servizio di essa: diventa cinema-terapia, medicina d’immagini e suoni, che si fa di esso stesso cura e veicolo di guarigione. È ciò che ha pensato la professoressa Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari, pioniera di questo progetto ben 25 anni fa presso la struttura del Policlinico Umberto I dove ha lavorato e dove ha insegnato per ben 35 anni. La sua passione è sempre stata l’arte. Ha scritto e studiato molto su questo filone umanistico. Quando ci si è accorti che la nuova psichiatria, dopo la Legge Basaglia, si muoveva sul recupero della qualità di vita della persona, attingendo anche dagli antichi manicomi modello dove c’era l’atelier, la pittura, la musica, i balli, la coltivazione dei fiori.

Ne parliamo con la professoressa Coccanari dal momento che ha cominciato la sua carriera di docente insegnando Storia della Medicina, poi Storia della Psichiatria e a seguito del nulla osta del Consiglio di Facoltà, Psichiatria. Ha curato per 25 anni pazienti dai 18 anni in su, più che altro giovani. Sono sempre più i giovani che hanno bisogno di cure in questo settore e quindi chiediamo alla professoressa come ha iniziato questo percorso di interazione fra terapia tradizionale e cinema come elemento di evasione per alleviare la sofferenza psichica, affiancandolo al trattamento medico consueto e poi come erano gli antichi manicomi arabi, che sembra utilizzassero anche loro questi metodi, unendo le terapie mediche allora conosciute con l’arte.

La riabilitazione psichiatrica, che in parte ha applicato delle tecniche psicoeducazionali attinge alle antiche strutture che nascevano con “buone intenzioni”. Poi il sistema li ha trasformati. Pare avessero delle espressioni modernissime, che usassero già nell’antichità l’arteterapia, nelle misure consentite dal tempo, non c’erano gli psicofarmaci, però gli arabi sono stati sempre al primo posto nella storia della medicina in generale e si sa i primi ospedali arabi hanno utilizzato questi sistemi. Probabilmente ci sono state delle esperienze di settore, non c’è molta documentazione, ma forse si, sembra usassero anche negli altri reparti degli ospedali la musicoterapia. Noi abbiamo recepito tanto dalla cultura araba, anche tante parole, come “sciroppo”. Ho insegnato Storia della Medicina per tanti anni e la medicina araba fa certamente scuola.

Come si inserisce la parte cinematografica nell’arteterapia applicata alla psicoterapia?

Ho fatto anche gruppi di biblioterapia, scrittura, musica, disegno, psicodramma. Ma ho privilegiato il cinema perché da bambina l’ho sempre amato e i miei genitori mi portavano al cinema anche due o tre volte alla settimana. Poi ho avuto diversi incontri significativi con dei cinefili puri, quindi il mondo mi ha portato verso una selezione degli interessi a privilegiare il cinema rispetto ad altro. Ho curato anche l’invenzione delle fiabe, abbiamo costituito un gruppo per questo. Cominciavamo con l’inizio di una fiaba nota e il gruppo la componeva a suo piacimento. Ho una Cenerentola scritta dai pazienti che è davvero meravigliosa! Ecco che l’orientamento per il cinema nasce in effetti per un mio interesse personale. Tutto ciò che è arte e letteratura ha sempre colpito il mio interesse.

I risultati si vedono realmente?

Si vedono perché facciamo delle schede che ci permettono di fare delle valutazioni, di controllarne i progressi. Come lo stesso rettore Eugenio Gaudio ha detto in un libro dove lui è titolare della prefazione, abbiamo dato “un’impronta moderna alla terapia”.

I manicomi poi hanno fallito miseramente, tutti.

È vero, ma per ragioni politico-sociali ed anche economici. Nascevano con ottime intenzioni, in posti splendidi, studiati perché i luoghi stessi dovevano ricreare armonia interiore. Se si va in una stanza disordinata e poi in una stanza perfettamente ordinata già cambia lo stato d’animo. Era messo in conto tutto. Ma hanno fallito, per ragioni diverse da quelle per cui erano destinati.

Dove si svolgono fisicamente questi momenti di incontro e come avviene la visione del film, durante incontri individuali o di gruppo?

Per 25 anni mi sono occupata anche del Day Hospital (Dh) psichiatrico ed è qui che si fa il trattamento integrato, dove all’aspetto biologico, tecnico come i farmaci, la testologia, si affianca una parte psicologica, sia di colloqui individuali, sia di gruppi, che rappresentano un discorso molto centrale del Day Hospital. Il Day Hospital è uno dei luoghi della riabilitazione psichiatrica. Con la legge 180, poi confluita nella 833, c’è stato un riordinamento anche dei posti deputati al recupero. Così mi sono interessata anche dei gruppi e di arteterapia, perché i gruppi possono essere psicoeducazionali, di discussione. Noi facciamo due gruppi al giorno. All’interno di questi gruppi c’è anche quello di terapia attraverso il cinema. Bisogna essere precisi. Sono dei coadiuvanti, non si può fare una terapia di uno schizofrenico attraverso il cinema, voglio essere chiarissima. Si tratta di un trattamento “integrato” dove però nell’arteterapia il cinema, che è la più complessa delle arti, perché racchiude la visione, l’ascolto, la scrittura, è un’arte che riassume tutte le altre che l’hanno preceduta. Perciò abbiamo fatto parecchi studi per vedere se, utilizzando in maniera appropriata la visione dei film o l’ascolto di colonne sonore associate ai trailers, avessimo avuto risultati incoraggianti. Tra le arti il cinema è quello che ho curato più di tutti, per vedere se può avere un’efficacia su una rimodulazione del concetto intanto di stigma nella persona, cioè discutendo, dopo aver fatto un’attenta selezione dei film però, quindi discutendo poi del film tutti insieme, se la persona può rivedere il suo concetto di malattia. Perché in questo i film sono portatori di tanti messaggi. Ce ne sono tanti che trattano proprio l’argomento. Inoltre, se discutendo si possono trovare nuove forme di soluzione dei problemi. Perché scegliamo film che sono un po’ come le fiabe, che abbiano un buon finale, aperti alla speranza, alla possibilità che puoi essere attraversato dal dolore senza rimanerne schiacciato.

Che tipo di paziente e con quale tipo di malattia mentale ci stiamo confrontando? Quando e a chi si può proporre questo tipo di terapia integrata?

A tutti i tipi di pazienti. Il segreto è la selezione del film. Bisogna tener conto dell’uditorio, non tutti possono vedere lo stesso film. Alcuni film possono essere fruiti da un certo tipo di paziente e non da altri, a seconda della gravità della malattia, il tipo di contenuti delle problematiche devono essere posti con attenzione. Per un fatto fondamentale che i nostri pazienti non sono un gruppo che ha in Day Hospital una durata determinata, le indicazioni per un Dh sono diverse, si può venire per dirimere un dubbio diagnostico, per aggiustare una terapia, per controllare segni di crisi, per sfruttare gli aspetti della riabilitazione e i tempi sono un po’ più lunghi, però i pazienti sono di tutte le diagnosi e di tutti i tipi di durata e di indicazione che ho detto. Allora è un gruppo aperto, dove la persona può andare via anche il giorno dopo, un’altra dopo un mese o due, un altro dopo una settimana, allora non si possono proporre delle opere d’arte troppo ansiogene, perché non ci sarebbe il tempo di farle elaborare, che è ciò che accade in gruppi strutturati in un’altra maniera. Si tratta di gruppi esterni nei quali ci si può iscrivere, lì si fa terapia di gruppo piuttosto che individuale per la durata di un anno e già si precostituisce un’idea di temporalità e si possono sviluppare nel tempo delle discussioni. Se una persona la si espone ad un film un po’ traumatico e il giorno dopo non lo vedi più magari abbiamo aperto delle ulteriori problematiche che non potrà essere capace di elaborare, non è quello il setting.

Queste persone che sono ricoverate per mezza giornata, un giorno o per il tempo necessario a seconda del problema, da dove arrivano. L’utenza come arriva qui da voi?

È ubiquitaria, alcuni prendono treni da L’Aquila o Napoli tutti i giorni. La nostra struttura universitaria tiene conto delle competenze territoriali, adeguandosi al sistema di spese. Vengono inviati da privati, dai nostri ambulatori, perché noi facciamo anche ambulatorio, dalle Asl, essendo diventata competenza territoriale dovrebbero venire dalla Asl di appartenenza. Il Day Hospital è associato all’Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) che per legge deve avere un Day Hospital. L’Spdc è territoriale, poiché ci si deve ricoverare nell’ospedale del territorio di competenza, così anche il Dh risponde a questi criteri ma in maniera più elastica perché il Dh è universitario e l’SPDC è regionale. Con un solo capo universitario che è Direttore di tutta la struttura universitaria che è il professor Massimo Biondi.

Un paziente di una Rems potrebbe partecipare ad un progetto del genere?

Orientativamente direi di no, nonostante le utenze siano diverse, è vero che ci sono tanti tipi di pazienti ma non proprio cronici. Questo tipo di terapia ha un’idea felice di prevenzione, secondo l’idea di cura americana, quindi sono i giovani gli utenti migliori su cui si può intervenire più efficacemente in maniera integrata.

Grandi artisti, pittori, musicisti, attori, scultori, attuali e di secoli fa, straordinari produttori di opere d’arte, sono state persone “disturbate” che però ci hanno saputo donare opere che hanno cambiato addirittura la nostra visione del mondo. C’è bisogno della sofferenza per esprimersi al meglio?

Bisognerebbe leggere delle pagine di Lombroso, illuminanti sul genio e la produttività artistica. Non credo proprio, ci sono scrittori come Ariosto. Premesso che anche da noi sono venuti artisti, ma questo non c’entra. Chiunque invece può esprimersi attraverso l’arte. La maggioranza sono persone comuni, senza particolari talenti che però esprimono e sublimano una forma d’arte. Il fatto che ci siano una serie infinita di personaggi che hanno prodotto capolavori, grandi geni anche della matematica, c’è un film Beautiful mind, non è detto che genio e follia vadano a braccetto, quella è un’interpretazione romantica, è che hanno tutte e due le cose ma una non influenza l’altra. Ricordo un titolo su una testata nazionale del professor Volterra, mio grande maestro, il quale diceva “Sono un po’ depresso, sono un po’ genio”. C’è tutta una letteratura che dice che una persona malinconica per riparazione può andare verso la creatività. Uno dei meccanismi di uscita dalla malinconia può essere la creatività. Ma per essere creativi a livelli molto alti è necessario un talento. Non sono collegate le due cose. All’inizio del Novecento ci fu un grande congresso sulla creatività in Europa, cui parteciparono i più grandi studiosi, psicologi, sociologi, storici del tempo, ognuno diceva la sua. Chi diceva che per essere creativi bisognava essere folli, chi depresso, chi diceva che bisognava aver avuto una vita difficile. Popper disse “Pensiamo due persone che a parità di suggestioni ambientali, uno fa il matto e l’altro fa il vascello fantasma”. Poi concluse “L’atto creativo non si presta a nessuna spiegazione psicologica, è un dono degli dei”. Questo è rimasto scolpito nella mia memoria.

@vanessaseffer

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