È l’alba di un nuovo razzismo?

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È l’alba di un nuovo razzismo?La notizia si è diffusa pochi mesi fa, per circa un mese, fino al decesso della paziente. Una dozzina di rom si erano accampati nella sala d’aspetto del reparto di oncologia di un ospedale lombardo dove era ricoverata una congiunta. Il fatto aveva, per qualche ora, attirato l’attenzione dei media sia per l’evento in sé sia perché strumento di ping pong politico. Era una vicenda da prendere con le molle molto lunghe per evitare di venire poi accusati di essere, nella migliore delle ipotesi, politicamente scorretti se non addirittura razzisti.

Che non fosse un fake, nonostante il dubbio legittimo derivante proprio dalla lunga durata della permanenza in una struttura sanitaria di persone non degenti, lo dimostrava un successivo comunicato della Direzione sanitaria del presidio ospedaliero, che a quel punto non poteva sottrarsi alla curiosità diffusa e alla pressione dei media. Il comunicato evidenziava che appena informata la Direzione stessa aveva disposto l’intervento della sorveglianza interna e del posto di Polizia di Stato presente in Pronto Soccorso e la Questura visto il perdurare di atteggiamenti poco rispettosi nei confronti del personale e degli altri degenti e aveva inviato due pattuglie.

Infine, il comunicato ufficiale del nosocomio aggiungeva che “gli ospedali sono luoghi di cura. Purtroppo in tutta Italia assistiamo sempre più spesso a episodi di maleducazione e aggressività verso gli operatori”. Un mese di occupazione e alla fine una nota direzionale molto semplice e cauta. Cautela derivante dalla paura di innescare episodi di violenza? Cautela derivante dalla preoccupazione di non prestare il fianco ad attacchi mediatici anche strumentali in ragione della diversa etnia degli occupanti e quindi evitare l’accusa di razzismo? Entrambe le motivazioni possono essere valide considerato che l’Italia è terra di guelfi e ghibellini, di stracittadine calcistiche e di laceranti divisioni tra chi mette la cipolla nell’amatriciana e chi inorridisce al solo pensiero.

Poi, ecco sopraggiungere la notizia apparsa su un quotidiano del Trentino, e si innesca un’accesa polemica a seguito della affissione in Alto Adige di manifesti con un cadavere divenuto tale a seguito della non conoscenza della lingua tedesca da parte di medici italiani. A riaccendere una polemica non sopita la promulgazione di una legge provinciale che autorizzava i medici che conoscano solo il tedesco a esercitare nella provincia autonoma di Bolzano, bypassando, nel caso si tratti di medici stranieri, la normativa nazionale. Normativa che prevede il riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero da parte del ministero della Salute e poi, per l’iscrizione all’Ordine, l’accertamento della conoscenza della lingua e delle normative italiane.

“Medici che non parlano italiano possono comunque esercitare la professione a Bolzano senza l’equiparazione dei titoli, prevista per legge: lo permette una legge provinciale pubblicata a fine ottobre”. Così rilevava la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), che chiedeva al Governo di valutarne l’impugnazione, sottolineando che “anche l’Alto Adige fa parte del Servizio sanitario nazionale”. “Ma è un contrappasso dantesco, una ironia il cui senso ci sfugge, una ulteriore spallata se non all’unità d’Italia almeno alla unità del servizio sanitario nazionale?” – si chiedeva in un comunicato il segretario della Cisl Medici Lazio impegnato in quella battaglia di civiltà portata avanti per sensibilizzare l’opinione pubblica, la politica e le istituzioni contro le aggressioni ai medici ed agli operatori sanitari e ritenendo questa una forma diversa di aggressione di tipo mediatico e derivante anche dalle storiche divisioni in merito alla autonomia di quella area geografica.

Di questi ultimi giorni poi la notizia che ad alcune ginecologhe e pediatre somale, sudanesi, palestinesi e irachene di religione musulmana che hanno svolto attività lavorativa presso strutture private in Veneto, non sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro pur nella carenza più volte evidenziata di specialisti. La loro colpa sarebbe quella di avere coperto i capelli e parte del viso con un foulard o un velo, il hijab, e non stiamo dunque parlando del burqa, l’abito che nasconde quasi completamente il viso. La notizia necessita di approfondimento ma è meritevole di qualche riflessione. In Italia siamo solo impauriti o siamo diventati razzisti?

Sulla questione si è accesa la polemica ed una associazione di medici stranieri in Italia, ha lamentato un “atto di discriminazione” da parte dei malati che ai successivi controlli, chiedevano esplicitamente di essere controllati da medici italiani. Tutto ciò si inserirebbe, secondo l’associazione, in un fenomeno più ampio e complesso di “intolleranza verso gli stranieri, alimentato dai social e da una comunicazione, anche politica, aggressiva e offensiva”.

E non è mancata, su un argomento delicato e scivoloso, una voce solidale di chi, come la Cisl Medici Lazio, ha espresso preoccupazione per questa ulteriore evoluzione del pensiero negativo nei confronti dei medici che sembra basato questa volta sulla discriminazione di razza e di cultura. Ed ecco dunque riaffacciarsi, e neanche in maniera non evidente, una parolina che fa subito ricordare orribili fasi della storia ed altrettanto orribili comportamenti del genere umano rispetto ai propri simili con un colore della pelle diverso dal proprio o professanti un diverso credo religioso: la parola è razzismo, la presunta superiorità di una razza sulle altre, le discriminazioni sociali e violenze fino al genocidio.

Una parolina che davvero avremmo preferito non dovere leggere o ascoltare. Anche perché qui non si tratta solo del razzismo come fenomeno in generale che allontana non solo lo straniero e lo discrimina per colore della pelle e credo religioso, ma sta diventando un modo di pensare comune. Si manifesta con la scarsa tolleranza, come nelle aggressioni, ma anche nel linguaggio dei social e dunque tende ad estendersi ad una molteplicità di situazioni e ad una platea numerosa come la gioventù troppo spesso carente e poco solida nei riferimenti culturali e indubbiamente privi di quella memoria storica che si ha difficoltà a tramandare. Il medico viene rifiutato non per la eventuale sua incapacità ma perché individuo appartenente ad una particolare tipologia sociale o religiosa. Forse anche su questo ci sarebbe bisogno di una attenta campagna mediatica volta a sensibilizzare l’opinione pubblica ed anche questo è un segno del triste periodo di incertezze e di paure che stiamo vivendo.

@vanessaseffer 

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Violenza in sanità, Cisl Medici: «Bene Speranza: sarà reato aggredire camici bianchi anche fuori da ospedali»

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Le aggressioni ai medici diventeranno un reato anche fuori da ospedali e ambulatori. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, infatti, ha presentato un apposito emendamento che estende il campo di applicazione “della fattispecie penale anche agli episodi di violenza occorsi al di fuori delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private”. “L’obiettivo – ha aggiunto […]

 

Le aggressioni ai medici diventeranno un reato anche fuori da ospedali e ambulatori. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, infatti, ha presentato un apposito emendamento che estende il campo di applicazione “della fattispecie penale anche agli episodi di violenza occorsi al di fuori delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private”.

“L’obiettivo – ha aggiunto Speranza nel corso di un’audizione presso le commissioni congiunte di Camera e Senato – è sanzionare le lesioni subite a causa dell’adempimento delle funzioni in qualsiasi luogo le stesse vengano esercitate”. Lo scudo penale quindi, si estenderebbe dalle corsie ospedaliere fino alle emergenze urgenze per le strade, nelle guardie mediche e presso le abitazioni private, negli interventi di protezione civile, nei controlli dei cantieri, nelle imprese, negli stabilimenti di macellazione e trasformazione e negli allevamenti. La modifica entrerà nel Ddl sulla sicurezza degli operatori sanitari all’esame della Camera. Da questa settimana sarà deciso anche un ciclo di audizioni per confrontarsi sul fenomeno. Sarà convocato l’Osservatorio sulle aggressioni. Lo scorso anno solo a Napoli si sono verificati cento attacchi gravi al personale medico ed infermieristico. Oltre tremila in tutto il Paese.

“Siamo contenti che sia stato approvato un Decreto che istituisce la Consulta permanente per le professioni sanitarie e sociosanitarie – ha dichiarato Biagio Papotto, Segretario Generale della Cisl Medici Nazionale – Come ha detto il ministro Speranza, con l’ascolto e con il confronto si governa meglio. Confrontarsi con i rappresentanti dei medici, degli infermieri, dei farmacisti e di tutti i professionisti della salute sarà un’arma in più per governare meglio la situazione drammatica che viviamo quotidianamente per cui questo governo è chiamato a trovare una soluzione efficace. Lo Stato dovrà dare una risposta molto ferma nel prendere delle contromisure, perchè le aggressioni ai medici e al personale sanitario sono intollerabili. La violenza non è mai accettabile ma in particolar modo quando si rivolge a chi si prende cura ogni giorno delle persone, negli ospedali come negli ambulatori, per le strade e nelle case. Mi auguro che questa norma non tardi ulteriormente ad essere approvata e che faccia la differenza”.

@vanessaseffer

Da Sanità Informazione

 

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Anno Nuovo, brutte abitudini consolidate. Il 2020 si apre con due aggressioni a medici in servizio

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Napoli. Due nuovi episodi di aggressione a personale sanitario  dall’inizio del nuovo anno. Luciano Cifaldi, Segretario generale della Cisl Medici Lazio, rilancia l’allarme sul pericolo ormai insostenibile a danno di chi lavora per salvare vite umane

 

Proviamo a partire dalla fine e da quanto si apprende dagli organi di stampa. Poco dopo la mezzanotte del 31 dicembre una dottoressa di servizio al San Giovanni Bosco di Napoli è stata aggredita verbalmente e fisicamente con una bottigliata in faccia da un paziente, probabilmente psichiatrico; nella stessa città un medico intervenuto in aiuto di un paziente e a bordo di un’ambulanza, appena aperto lo sportello del mezzo è stato colpito da un petardo.  Due episodi di aggressioni a medici in poche ore allo scoccare del 2020

“Inaccettabili le aggressioni a chi ogni giorno si prende cura di noi. Bisogna approvare al più presto la norma, già votata al Senato, contro la violenza ai camici bianchi. Non si può aspettare”. E’ la dichiarazione del Ministro Speranza cui fa eco la Croce Rossa: “Qui a Napoli peggio che nei territori di guerra. L’aspetto più inquietante di questi nuovi episodi di aggressione a personale sanitario è che ci si abitui a questo stato di cose “

Non si arresta la violenza negli ospedali con aggressioni al personale sanitario.

“Non ci fermiamo neanche noi della Cisl Medici Lazio nel denunciare questi episodi criminali. Non vogliamo abituarci a questi continui episodi a costo di risultare ripetitivi e magari anche noiosi per qualcuno. Siamo tutti a rischio. Solidarietà ai colleghi di Napoli e l’augurio ai politici di una ottima digestione dei pranzi e delle cene di questi giorni festivi. A noi è rimasto sullo stomaco il ritardo nell’approvazione della specifica legge da parte della Camera dei Deputati dopo l’approvazione al Senato”. Così in un comunicato stampa Luciano Cifaldi, Segretario generale della Cisl Medici Lazio.

@vanessaseffer
Da DailyCases
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La battaglia di Cisl Medici Lazio contro le aggressioni in sanità: nel 2020 si adottino soluzioni sensate

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La guerriglia urbana incontrollata non dà tregua agli operatori della sanità e non consente a migliaia di professionisti di lavorare con serenità. È impensabile che i medici ogni giorno vadano al fronte, e rischino la propria vita

 

Nel 2019 la Cisl Medici Lazio ha condotto una vera e propria battaglia per sottolineare la gravità e l’incessare delle quotidiane violenze subite da medici e operatori sanitari sui posti di lavoro. Veri e propri assalti frontali fatti di parolacce, sputi, improperi, minacce, conditi spesso da atti delinquenziali come la rottura di oggetti o macchinari nei Pronto soccorso e nelle corsie, negli ambulatori e nelle ambulanze. Il più delle volte, per ovvie ragioni, sono le professioniste donne a farne le spese.

Ci sono stati episodi limite, dove purtroppo le cronache hanno dovuto riportare coltellate, spari di pistola, aggressioni fisiche. Un bollettino di guerra che non ha una specifica collocazione territoriale: per una volta, non ci sono differenze fra il Nord, il Centro ed il Sud. In caso di aggressioni ai medici, “tutto il mondo è paese”.

La Cisl Medici Lazio nel 2019 ha incessantemente portato avanti un’azione di sensibilizzazione sul fenomeno, una battaglia di civiltà che non si fermerà nel 2020, anzi incrementerà l’esposizione mediatica perché davvero si trovino soluzioni “sensate”. Il dottor Luciano Cifaldi, oncologo e segretario generale della Cisl Medici Lazio, ha coinvolto in maniera trasversale rappresentanti politici e delle istituzioni, come i prefetti del Lazio. Diverse testate giornalistiche, sia di settore sia di orientamento politico caratterizzato, hanno dimostrato una concreta sensibilità sul tema ampliando il grido di allarme che è stato raccolto e rilanciato anche dai medici della Cisl di Roma Capitale e delle altre province del Lazio.

Questa guerriglia urbana incontrollata non dà tregua agli operatori della sanità e non consente a migliaia di professionisti di lavorare con serenità. E non si tratta di professionisti qualunque, ma dei nostri medici, veri eroi in un mondo, quello della Salute, fatto di tagli, di blocco del turnover, di problematiche legate al contratto nazionale e di carenza di personale, a cui troppo spesso si chiede di lavorare il doppio o il triplo delle ore che dovrebbero essere previste.

Il 2020 sarà un anno in cui la Cisl Medici Lazio darà battaglia su questo tema, perché è impensabile che i medici ogni giorno vadano al fronte, e rischino la propria vita.

@vanessaseffer

Da Sanità Informazione

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Un laboratorio per non confondere l’opinione con la scienza, parla Garofano

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Un laboratorio per non confondere l’opinione con la scienza, parla Garofano In pochi anni dalla sua fondazione il Centro regionale antidoping “Alessandro Bertinaria”, incastonato nelle mura dell’ospedale San Luigi di Orbassano a Torino, è diventato uno dei centri di eccellenza europei in fatto di analisi tossicologiche e biochimico-cliniche, superando la sua mission iniziale, andando ben oltre la sua natura di struttura “olimpica”, poiché nato in occasione delle XX Olimpiadi invernali e IX Giochi paralimpici invernali di Torino 2006, dimostrando subito capacità imprenditoriali tali da poter vivere anche oltre quell’evento. Fino a diventare un riferimento nazionale dove effettuare test ed analisi autoptiche per tribunali e procure, forze dell’ordine, Asl, enti pubblici, per le medicine legali, per reati di varia natura, connessi al traffico di droga o incidenti stradali. In pochi anni il centro si è accreditato come primo laboratorio di tossicologia del Paese. È il più grande centro in Europa per le analisi che si effettuano sul capello. Nel centro vengono gestiti circa 60 mila campioni di diverse matrici l’anno, per 300mila determinazioni. Ne parliamo con il direttore sanitario del centro, il professor Paolo Garofano, anche responsabile del Laboratorio di biologia e genetica forense del centro. Sua la progettazione e la messa in opera del prestigioso e innovativo laboratorio, fiore all’occhiello del centro.

Professore, può spiegare al grande pubblico cos’è la genetica forense?

Si tratta dello studio delle tracce trovate sulla scena del crimine e la loro caratterizzazione, perciò l’estrapolazione di un certo profilo genetico, questa l’attività principale. L’altra attività è quella banalissima della diagnosi di parentela che si fa civilisticamente per cercare di capire se c’è un legame di parentela tra due persone che magari non si conoscono oppure per accertarlo in caso di contenzioso. Poi ci sono delle nuove discipline accessorie che cominciamo ad utilizzare, come l’identikit genetico, cioè dalla traccia riuscire a capire quali sono i tratti somatici in un soggetto, gli occhi, i capelli, alcuni tratti del viso come gli zigomi, il mento, le labbra, questo però è un po’ più a livello sperimentale, fa parte sempre della genetica forense ma è ancora in fase sperimentale. Poi l’ultima attività che facciamo, sempre ancora a livello sperimentale, il cosiddetto Ancestry, l’ultima nata di genetica forense che si occupa delle relazioni di popolazione, da dove si viene dal punto di vista ancestrale.

Molti casi giudiziari sono balzati alla cronaca per l’efferatezza dei delitti. Poi è guerra tra i periti. Quale è oggi l’impatto della genetica forense sui grandi casi giudiziari?

È estremamente alto, a volte a mio avviso esagerato! Il cosiddetto “Csi effect” ha enfatizzato l’attenzione sulle scienze forensi in generale e “deformato” le aspettative. Molte volte la prova genetica è determinante soprattutto se contestualizzata correttamente e supportata da altri tipi di attività investigative (intercettazioni, telecamere, testimonianze), altre volte diviene oggetto di scontro tra consulenti o periti che diviene mediatico. L’accreditamento di laboratorio tende a rendere tutto più oggettivo e meno discutibile ed è questo il livello al quale tutti dovrebbero tendere per evitare di confondere l’opinione con la scienza.

Un cognome piuttosto famoso, il suo. Le pesa essere il nipote di Luciano, già comandante dei Ris di Parma, oggi star della comunicazione nei casi di cronaca nera oltre che consulente di parte in numerosi processi, o no?

In passato, forse. Perché questo non mi ha permesso nell’immediatezza di farmi valutare per quello che ho fatto, per il mio percorso professionale e per quello che sono. Nel senso che io ho avuto questo modello che è stato mio zio dal punto di vista dell’immaginario. Io poi ho fatto un altro percorso: mi sono laureato in medicina ed ho svolto tutta la mia attività fin da quando ero studente in un laboratorio, fino ad ora, lavorando prima con le mani e poi ricoprendo cariche dirigenziali anche diverse da quelle mediche, come evidenziato sul mio curriculum; sono stato un dirigente pubblico, ho spaziato nella genetica forense degli alimenti, perciò spesso mi presentano come il “nipote di”, ma adesso ho anche una mia connotazione e professionalità ben distinta dal mio legame di parentela.

Che cosa è una banca dati forense?

Ce ne sono di molte tipologie. Se parliamo di genetica è la banca dati nella quale sono inseriti i profili genetici delle persone indagate. È molto complicato, c’è una legge, la 85 del 2009 che disciplina la banca dati, che serve per immagazzinare dati che possono essere genetici, possono essere banca dati dattiloscopiche per le impronte digitali, ma esistono banche dati forensi di altro genere, faccio un esempio: in alcuni paesi ci sono quelle del cosiddetto profilo ambientale, di quegli isotopi chimici e radioattivi che sono nel terreno, che individuano il terreno; ci sono banche dati forensi dei semi agricoli; oppure dei semi degli animali da riproduzione; sono degli archivi il cui dato archiviato può essere di vario genere. Parlando di genetica forense umana, le due maggiori sono quelle relative alle impronte dattiloscopiche e i profili genetici.

Non credo che nel suo lavoro possa esserci qualcosa che la stupisca o la sconvolga. Tuttavia c’è stata un’esperienza professionale o un episodio che ha lasciato il segno?

Quando si entra in un caso si entra in modalità professionale, perciò obbligatoriamente lasci da parte l’emotività che poi magari torna quando si scrive la consulenza o quando si valutano i dati. Devo dire che c’è stato un episodio, l’uccisione di un neonato partorito in casa clandestinamente, che mi ha dato molto da pensare sulla natura umana, ma capitano casi di tutti i generi, da persone tagliate a pezzi e messi in una valigia lasciata in un bosco, piuttosto che arti rinvenuti nei posti più impensati o stanze familiari dove apparentemente senza motivi validi si è generata una ferocia che non puoi pensare che lì si poteva uccidere qualcuno. Ma se dovessi dire che devo pensare con paura o con emotività a qualcosa, l’unico episodio è quello del neonato.

Questo centro che lei dirige non è solo un riferimento per gli episodi che accadono in Italia, ma anche per i casi che accadono nel resto d’Europa. Come è il rapporto con i magistrati italiani e con le corti straniere, che differenza c’è e se è il caso, anche con la politica, con la polizia giudiziaria.

Non ci sono capitati casi di genetica forense extracomunitari, ma sulla tossicologia sì. Ci capita di fare analisi sul capello, anche per grandi Paesi come gli Stati Uniti. Il rapporto con i magistrati italiani è essenzialmente di fiducia, perciò se c’è un rapporto con noi significa che si fidano di noi e collaboriamo molto volentieri con quello che fanno. Con le Forze dell’ordine anche, ovviamente abbiamo dei competitors che sono i Ris e la Polizia scientifica, ma competitor per modo di dire, perché se ci sono una serie di reati considerati minori che non perseguono più, che poi sono la maggior parte, le aggressioni, i furti, cose che paradossalmente rappresentano se andiamo a vedere le statistiche quasi il 90 per cento dei reati e lo stato tende più a non perseguire. In questo senso abbiamo una grande collaborazione con le forze dell’ordine, perché chi investiga sulla strada chiede risposte per poter chiudere il cerchio. Magari fanno molte attività e poi si vedono negata la possibilità di fare le analisi e spesso spingono i magistrati a darle a noi o ci chiedono direttamente di farle per loro conto.

Ma questi dati, nella banca dati, restano per sempre oppure vengono distrutti dopo venti, trent’anni?

Ci sono numerose modalità sia d’immissione che di cancellazione. Noi come Stato italiano siamo forse il più complicato al mondo in questo. La lunga gestazione che c’è stata della legge ha portato poi a delle storture, perché quando si ha un dato genetico, soprattutto di qualcuno che delinque, sarebbe opportuno averlo per sempre. Come dico sempre, i nostri dati anagrafici, le foto e tantissimi altri dati sensibili, girano liberamente per la rete senza un reale filtro, mentre i dati genetici che potrebbero per assurdo risolverti un caso a distanza di anni magari vengono cancellati. Gliene racconto una che è il paradosso di tutto: pensi che una delle prime volte che ho trattato un cold case, si trattava di un serial killer che si chiamava Minghella, che ha ucciso nel nord Italia un numero molto considerevole di donne, generalmente prostitute, ad iniziare dalla fine degli anni Settanta fino alla fine degli anni Novanta. Lui ha avuto diverse condanne all’ergastolo. Il suo Dna, malgrado la banca dati fosse già attiva, non era inserito. Allora sono dovuto andare in carcere a prenderlo io, c’è stata anche una diatriba sul fatto che lui si potesse opporre o meno, ma insomma, nel sistema italiano il prelievo del Dna per coloro che vanno in carcere viene fatto all’uscita della misura di sicurezza e non all’entrata. Perciò, siamo nel paradosso, che gli ergastolani non vengono mai prelevati e molti casi che potrebbero essere risolti a tavolino così non lo sono.

Incredibile.

Abbastanza.

Perché oggi un giovane medico dovrebbe decidere di fare il medico forense? Qual è un motivo di attrattiva visto che probabilmente la passione quando ci si iscrive in Medicina penso subentri dopo.

Qui rientra in gioco mio zio. Io da adolescente volevo fare il pilota d’aereo e mi si prospettò invece la possibilità di entrare in Accademia di sanità militare. Fu il primo concorso che vinsi ed entrai. Essere medico militare comporta di divenire automaticamente medico legale e questo mi avrebbe aperto una serie di porte che a me non interessavano molto, in medicina se non avessi fatto il genetista avrei fatto il chirurgo perché mi piacciono le cose manuali o tecnologiche. Mi sono iscritto all’Università nel 1985 e nello stesso anno sono state scoperte le sequenze del Dna che poi avrebbero permesso di estrapolare il profilo genetico e poi un po’ per l’immagine di mio zio a quel tempo e un po’ per questo e per l’opportunità da studente che avevo di frequentare un laboratorio, ho lasciato l’Esercito al terzo anno prima di firmare per la carriera definitiva, ed ho scelto questa strada rimettendomi in gioco. Sapevo cosa avrei fatto, negli ospedali militari non c’erano molte prospettive, stavano chiudendo, non avrei potuto fare né il chirurgo né il genetista. Quindi è la vita che in qualche modo ti porta a fare una scelta.

Che cosa ha portato lei di nuovo e di diverso alla Genetica forense dato che la vita l’ha portata fino a lei? 

L’ho vista nascere dalle basi nel laboratorio dove io mi sono formato come esperienza di base, è cresciuta nella Polizia e Carabinieri in epoca pionieristica, poi si è un po’ fermata. Quando io sono giunto a poter incidere sull’ambiente mi sono domandato cosa mancasse e mancavano tante cose, oltre al funzionamento della Banca dati mancava la cosa principale che era riuscire a interpretare le tracce complesse. Sono la maggior parte delle tracce che si trovano sul luogo del reato e che consistono principalmente in commistioni di più soggetti, per esempio Dna di più persone, oppure Dna cosiddetto degradato o a bassa concentrazione dal quale è possibile estrapolare solo un profilo parziale. Per dare un’idea questo è circa il 70 per cento di tutto quello che esce fuori dalle tracce genetiche perciò un po’ di tempo fa rimaneva indeterminato, si facevano delle indagini e queste cose non venivano attribuite. Io, un po’ con le attribuzioni internazionali, un po’ con l’utilizzo di forze provenienti da altre discipline, dalla statistica, dall’ingegneria, anche dal settore che produce strumenti e reagenti, mi sono inventato un metodo che per primo mette insieme tutte queste cose e riesce a discriminare le tracce più complesse. Perciò oggi io dirigo il laboratorio che in Italia e nel mondo è tra i più titolati a fare questo tipo di attività.

Esiste oggi, con tutta questa tecnologia a disposizione sempre in evoluzione, il reato o delitto perfetto?

Il delitto perfetto non esiste in assoluto. Abbiamo comunque molta strada da fare, ci sono ancora tantissime cose che dobbiamo scoprire alle quali non possiamo dare una connotazione reale, una per tutte è ad esempio il datare una traccia. Perciò oggi tiriamo fuori profili genetici anche dalle tracce da contatto, cioè basta toccare un bicchiere, un foglio, qualsiasi oggetto, una maniglia e la traccia rimane lì per moltissimo tempo. Ma non posso sapere se è lì durante il delitto o cinque anni prima era lì. Questo fa una grandissima differenza. Perciò il delitto perfetto vacilla in questo senso perché qualche errore si può fare sempre, calcolando che la genetica è solo una parte del tutto dell’investigazione ed esistono ancora dei limiti che vanno colmati.

Ma con buona pace di chi compie un reato, chi lo commette prima o poi verrà preso o no?

Prima o poi sì, il tempo ci insegna che quello che sapevamo trent’anni fa oggi non è più sufficiente, basta prendere dei reperti di quell’epoca e tirar fuori quelle risposte che allora non eravamo in grado di dare ma oggi sì. Probabilmente tra dieci, vent’anni ne daremo di più di quelle che diamo oggi.

@vanessaseffer

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