Parlano Giuseppe Quintavalle e Luciano Cifaldi, rispettivamente commissario e direttore sanitario della Asl Roma 5.Cosa comunicare al paziente e in che modo: la questione è oggetto di dibattiti e confronti. Anomalie procedurali o addirittura la mancanza della espressione formale al trattamento o ad indagini diagnostiche non sono prive di conseguenze di tipo legale. Una comunicazione superficiale, frettolosa o addirittura erronea, può avere effetti devastanti.
Nelle aule accademiche, nei congressi medici e nelle aule giudiziarie si dibatte spesso di temi quali il consenso informato e la comunicazione al malato in quanto anomalie procedurali o addirittura la mancanza della espressione formale al trattamento o ad indagini diagnostiche non sono prive di conseguenze di tipo legale. Altri argomenti sui quali si dibatte, riguardano la opportunità o meno di comunicare la verità alla persona malata e le modalità di comunicazione della stessa.Le fasi che precedono l’acquisizione del consenso alle indagini diagnostiche ed alle terapie sono molto delicate. Una comunicazione superficiale, frettolosa o addirittura erronea, può determinare un effetto moltiplicatore delle ansie e delle paure avvertite dal paziente e dai suoi familiari costituendo spesso la fase prodromica di possibili denunce.
A tale proposito si confrontano, e si scontrano, due principali scuole di pensiero: quella tipicamente anglosassone afferma che comunicare la verità al malato è il comportamento migliore ed in questa comunicazione trovano ampio spazio numeri e statistiche, percentuali di sopravvivenza e di guarigione su casistiche. Una seconda scuola di pensiero, che trova ampio seguito anche in Italia, e che probabilmente deriva da una cultura umanista più evidente, si basa anch’essa sui dati statistici ma ribadisce la necessità di adottare ogni opportuna cautela e delicatezza proprio in considerazione del vissuto emotivo che accompagna la persona affetta da malattie potenzialmente ad esito infausto.
Ne parliamo con il Dott. Giuseppe Quintavalle, psichiatra, commissario straordinario della Asl Roma 5 e Direttore Generale della Asl Roma 4 e con il Dott. Luciano Cifaldi, oncologo e Direttore Sanitario della Asl Roma 5.
Dott. Quintavalle, appare evidente che il dovere professionale ma anche medico-legale di comunicare informazioni relative allo stato di salute è già per se stessa una procedura complessa, non priva di problematiche poiché i risvolti pratici, nella realtà quotidiana, sono molteplici.
E’ chiaro che, al di là delle scelte tecniche, della modulistica da firmare, delle procedure da adottare, del rispetto della pressante normativa sulla privacy, c’è l’esigenza di stabilire una modalità applicabile in maniera diffusa tale da costituire un possibile standard informativo a tutela del malato e dei familiari ma anche a tutela del professionista per eventuali, e di questi tempi non improbabili, contenziosi giudiziari con tutto ciò che ne deriva, dagli aspetti assicurativi, alla sfiducia, alla medicina difensiva con l’aumento di spesa pubblica conseguente al proliferare di indagini aventi anche la finalità di autotutela.
Dott. Cifaldi, alla opportunità di adottare uno standard si contrappone di fatto il reale riscontro che ogni medico è tradizionalmente votato ad utilizzare un personale linguaggio che nasce dalla propria educazione, dagli studi e dalla esperienza acquisita con la pratica clinica. In questo percorso formativo gli influssi ambientali sono a volte determinanti?
È vero. Il linguaggio del “sapere medico” è specifico, abbonda di termini tecnici, spesso appare incomprensibile ai più.
Appare chiaro pertanto che è difficile trovare una risposta esatta, e dunque ragionevole, alla domanda relativa al cosa e come comunicare alla persona malata.
Il pianeta cancro è come il cubo di Rubik e le sue quasi infinite sfaccettature e dunque non è semplicemente riconducibile ad elementi di spesa farmaceutica e di costi del Servizio Sanitario Nazionale. A ben pensarci a quanti di noi è capitato di formulare o di vedere formulata la richiesta, specificamente espressa da parte dei familiari del malato, di una informazione annacquata, ammorbidita, edulcorata, non veritiera e dunque manipolata “a fin di bene”? E qui ritorniamo al quesito su cosa dire, sul grado di verità da trasmettere. Dire poco? Dire tutto? E cosa è poco? Non esiste un benchmark, un punto di riferimento in questo tipo di comunicazione mentre invece appaiono alti i rischi medico legali collegabili ad un atteggiamento che recepisca in maniera quasi passiva la richiesta basata sulla generica opinione che il “malato preferirebbe non sapere”.
Come si esce dal ginepraio Dott. Quintavalle? Come si mettono in fila regolare i quadrati del cubo di Rubik?
Un aiuto può derivare dalla consapevolezza che nelle malattie altamente invalidanti e a prognosi potenzialmente infausta occorre differenziare la comunicazione al malato da ogni altro tipo di informazione e comunicazione alla quale siamo abituati nella nostra quotidianità e che non si può prescindere dalla necessità di dare compimento ad una relazione empatica.
Tutti i medici sono in grado di creare una relazione empatica?
Non credo tutti ma bisogna fare il possibile, perchè ogni persona malata, tanto più invalidante e grave è la sua malattia, sente su di sé la minaccia costante che la patologia stessa porta alla integrità psicologica e fisica: e allora spetta ad ogni medico essere capace di dimostrare che ogni azione è finalizzata al benessere del malato. E magari il malato e i suoi familiari, anche di fronte alla ineluttabilità della malattia, potranno riprendere a considerare il medico come un alleato e non come un individuo da trascinare a torto o ragione nelle aule di un Tribunale dove poi, nella quasi totalità dei casi verrà assolto perchè non colpevole del reato per il quale è stato denunciato. Il commissario straordinario della Asl Roma 5, Dott. Giuseppe Quintavalle, attribuisce grande importanza ai percorsi di comunicazione ed umanizzazione e sono in programma specifici corsi di formazione per il personale aziendale.
@vanessaseffer
Da Sanità Online-News