Nel Lazio ci sono cinque Rems: due a Palombara Sabina e una a Subiaco dipendenti dalla Asl Roma 5 di Tivoli; due a Pontecorvo e Ceccano dipendenti dalla Asl di Frosinone. 91 posti in tutto con 70 persone in lista d’attesa solo nel Lazio, 400 nel Paese, dal Lazio in giù.
“Questo dipende da tanti fattori – ci spiega il primario psichiatra dottor Giuseppe Nicolò, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 5 – la tempistica nelle Rems dipende in parte dal sanitario e in parte dal giudice. Il paziente rimane da noi 3-4 mesi, abbiamo un tempo di permanenza medio che supera di poco l’anno solare, una media di 380 giorni, oppure tempi molto prolungati che superano gli 800 giorni.
Mentre i pazienti sono in lista d’attesa, nel frattempo dove si trovano?
I pazienti in attesa di Rems sono un problema nazionale. Alcuni essendo stati giudicati incapaci non punibili non possono stare in carcere, ma alcuni sono reclusi. Magari qualcuno di questi mentre si trova in carcere può mettere in atto comportamenti suicidari e questo è un problema gravissimo oltre che una disgrazia, perché si trova in un posto dove non dovrebbe stare. Altri invece sono in libertà e questo crea un altro tipo di problema, perché la misura di sicurezza serve a proteggere la società solo dalle eventuali azioni criminose del soggetto che ha un disturbo mentale. Succede solo in alcuni casi che abbiamo disponibilità per qualche soggetto e che questo sia irrintracciabile. I tempi di attesa possono variare da alcuni mesi all’anno.
Queste strutture sanitarie accolgono persone affette da disturbi mentali gravi, socialmente pericolose. Autori di omicidi, anche efferati. Queste persone vanno curate e poi reinserite nella società, come scritto nella norma. Che vuol dire, che alcuni di questi pazienti spariscono?
Essendo a piede libero, alcuni di questi soggetti che non sono stati inseriti all’interno delle Rems possono darsi alla fuga. Eventi rari ma possono verificarsi. I pazienti che vengono da noi invece intraprendono un trattamento farmacologico, un trattamento riabilitativo e una riabilitazione in senso lavorativo. Così alcuni pazienti possono davvero reinserirsi in un ambito sociale. Ma la realtà vuole che circa il 62 per cento dei pazienti dimessi dalle Rems finiscono in strutture riabilitative meno intensive, come le comunità terapeutiche; ciò significa che quando la situazione è molto grave già aver ottenuto che il soggetto aderisca ad alcune regole e svolga una serie di attività quotidiane è un grosso risultato. Con molta onestà non possiamo pensare a una integrazione totale per questi pazienti con sintomi così gravi.
Come si svolge la vita all’interno di una Rems, i pazienti hanno spazi, uscite autorizzate, attività collettive?
Sì, i pazienti hanno uscite autorizzate due o tre volte alla settimana, fanno attività sportive in strutture vicine e hanno qualche permesso di tornare a casa dai familiari quando è possibile. Tanta psicoterapia, terapie di gruppo, valutazioni testologiche, riabilitazioni.
I cittadini in questo caso di Palombara Sabina o di Subiaco non sono dubbiosi o impauriti di avere queste presenze intorno?
Non è mai successo nulla, i nostri utenti sono ben curati e trattati. Poi ci muoviamo in condizioni di massima sicurezza avendoli osservati per un periodo di circa sei mesi, pertanto i rischi possono essere ritenuti gestibili. In tre anni di attività non abbiamo avuto alcun evento spiacevole.
Un punto fondamentale è anche l’accordo con la Prefettura di competenza nell’area dov’è ubicata la Rems per avere uno standard di sicurezza all’altezza.
Quando usciamo avvertiamo i carabinieri che ormai ci conoscono molto bene, però è fondamentale che le nostre uscite le facciamo da soli, nessuno ci dà la scorta perché sarebbe anti-terapeutico.
Quanti operatori avete, e sono altamente specializzati?
Ottantuno operatori nelle nostre tre strutture Rems, 27 operatori per ciascuna. I pazienti sono solo uomini, perché la normativa penitenziaria non prevede condizioni miste. Hanno tutti una ventina d’anni di storia psichiatrica complessa. Molti sono immigrati, o con bisogni complessi, per cui la situazione si complica perché servono mediatori culturali, o c’è necessità di darli in carico a più operatori che svolgono servizi diversi. I pazienti hanno un basso livello culturale nel senso che il livello di scolarità è molto basso, hanno anche invalidità, la gran parte è singolo o divorziato, hanno sviluppato una resistenza ai trattamenti.
Sarebbe stato opportuno seguire questo tipo di persone già anni prima?
Questo doveva essere già stato fatto, spesso vi è stato un fallimento di un progetto territoriale che non ha retto più di tanto.
Avete da poco costituito un tavolo tecnico, prima esperienza in Italia con il dottor Quintavalle, vostro commissario straordinario, che ama sperimentare.
Riproduce in piccola scala in una condizione diversa il tavolo che sta nelle carceri, che mette a confronto i vari attori di questo scenario: la Procura della Repubblica, il Garante dei detenuti, i sanitari, i sindaci in rappresentanza della popolazione e tutta una serie di componenti che ci possono aiutare a valutare a 360 gradi quale potrebbe essere la migliore offerta per questi pazienti.
@vanessaseffer