Meno suicidi nel carcere di Civitavecchia: parla Quintavalle

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Meno suicidi nel carcere di Civitavecchia: parla Quintavalle La situazione delle carceri italiane è sempre più drammatica, il tasso di sovraffollamento del 113,2 per cento (secondo il rapporto di Antigone sulle carceri presentato alla Camera dei deputati il 27 luglio del 2017) di cui solo sporadicamente si parla, è argomento che finisce poi per un certo tempo nel dimenticatoio perché non è pregnante durante le campagne elettorali. Ma è un altro l’aspetto su cui ci vogliamo concentrare: i suicidi nelle carceri, poiché i numeri sono preoccupanti ed è un argomento di cui è doveroso doversi occupare. Dal 2008 si contano 500 suicidi, nonostante il Piano nazionale per prevenirli. Da allora il Sistema sanitario nazionale (Ssn) è impegnato nel ricercare formule per ridimenzionare questi fenomeni di disperazione insieme all’amministrazione penitenziaria, che è comunque titolare del funzionamento delle carceri e della gestione dei detenuti. A farne le spese sono anche le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, perché trascorrere molte ore dentro a un carcere per lavorare non è facile.

Durante il XII Congresso Nazionale della Sips (Società Italiana di Psichiatria) su “Le nuove frontiere della psichiatria sociale: clinica, public health e neuroscienze”, tenutosi lo scorso gennaio a Napoli, riguardo agli eventi critici in ambito carcerario, sono stati messi a confronto i dati proposti da fonti autorevoli come Antigone, Ristretti Orizzonti, Dap, che analizzavano gli atti di autolesionismo, i tentati suicidi e i suicidi nelle carceri italiane negli anni 2015, 2016 e 2017. Questi dati ci hanno rivelato che in questi tre anni, fra le tante carceri italiane, nella Casa circondariale di Civitavecchia non ci sono stati casi di suicidio. Sappiamo già che in questo Istituto si svolgono tante attività socio-ricreative che certamente contribuiscono positivamente.

Abbiamo chiesto al direttore generale della Asl Roma 4, Giuseppe Quintavalle, che cosa fa della Casa circondariale di Civitavecchia (dove sono reclusi circa 400 detenuti uomini e 40 detenute donne), un posto così particolare.

Abbiamo iniziato a studiare fra il 2010/2011 i bisogni e le necessità di questo Istituto. La prima cosa che emergeva fino a quella data era che le responsabilità dei bisogni sanitari si riferivano al direttore dell’Istituto penitenziario e all’ordinamento del ministero di Grazia e Giustizia. Da quel momento iniziammo a creare il modello di sinergia, integrazione e formazione multidisciplinare, cioè dei tavoli di lavoro che focalizzavano obiettivi precisi: parlare tutti lo stesso linguaggio e iniziare a comprendere le dinamiche per lavorare al meglio. Così è stato consolidato con la mia nomina a commissario un tavolo centrale tecnico-politico che si riunisce ogni mese a cui partecipa il direttore dell’Istituto, il comandante degli agenti di Polizia penitenziaria, i referenti della Asl che stanno all’interno dell’Istituto penitenziario e il Garante dei detenuti, figura fondamentale che ho sempre ritenuto dovesse essere presente in tutte le attività. A latere si parla di salute mentale, dal momento che le attività carcerarie di tipo sanitario rientrano nelle attività di distretto. Ho voluto fortemente che all’interno del carcere ci fosse un Centro di salute mentale e che fossero direttamente i nostri medici che si occupavano di salute mentale nella nostra Asl ad andare a lavorare lì, dove c’era bisogno, in sintonia col mondo della psichiatria che già esisteva all’interno del carcere, con gli assistenti sociali, gli psichiatri, gli psicologi, gli educatori che facevano parte del vecchio ordinamento, costituendo il team insostituibile che c’è oggi, effettuando un grandissimo lavoro di cooperazione. Successivamente, con la partecipazione a dei tavoli regionali dove venne deciso che la Casa circondariale di Civitavecchia avesse come finalità quella di essere capofila per la salute mentale, iniziammo a sperimentare all’interno dei progetti pilota in materia di prevenzione a rischio suicidario. Abbiamo adottato all’interno un modello che era stato condiviso e concordato da tutti i Dipartimenti di salute mentale della Regione; modello che ha portato a dei benefici e dei risultati. Con questo modello sono venute delle ipotesi di lavoro che oggi si sono concretizzate con i “peer supporters”, che è alla seconda edizione. In pratica abbiamo formato dei detenuti tenendo dei corsi di formazione di tipo socio-sanitario e psicologico; detenuti che non sono utilizzati come delle badanti, ma sono persone che avendo già vissuto prima di altri una carcerazione o che sono già stati trasferiti da un carcere a un altro (poiché anche un trasferimento dà luogo a una forma di stress) possono individuare e segnalare un possibile rischio di suicidio, individuando qualche caso limite fra i compagni.

Come vengono individuati i soggetti indicati, hanno personalità dalle caratteristiche precise?

Non particolarmente, vengono scelti da un team multidisciplinare, da educatori, da assistenti, dal team del vecchio ordinamento, da psicologi e psichiatri della Asl, ne viene fuori un gruppo sempre più nutrito, bravo e capace in grado di segnalare delle situazioni a rischio. Il suicidio non si può prevedere, bisogna ricordare che i casi esistono all’interno come all’esterno, sappiamo che il suicida non sempre è un soggetto psichiatrico e che spesso i soggetti non sono mai ricorsi alla psichiatria e che si può trattare della debolezza di un momento o di un momento pregresso.

Questo schema si potrebbe riprodurre anche in altre case circondariali del Lazio?

Sì, il tavolo delle Regioni e il ministero hanno sancito un decreto in base al quale si inizia un lavoro che è in linea con ciò che abbiamo iniziato, ovvero con la stesura di piani locali per la prevenzione a rischio suicidario che attraverso varie azioni porteranno a ciò che vogliamo, cioè ad avere un occhio attento e una visione formativa condivisa da parte di tutti gli attori che entrano in campo, finalizzata alla migliore cura e al miglior trattamento. La Regione Lazio dovrà costituire un osservatorio per seguire tutti i piani locali per la prevenzione che sono in fase di stesura e che mi auguro porteranno a un discorso di insieme. Voglio ricordare che ogni struttura ha delle problematiche differenti; ogni struttura ha delle dinamiche contestuali da valutare. Non esiste un modello tout court, ma esistono dei modelli generalisti che poi devono essere applicati in maniera specifica.

Quanto ha inciso nelle sue decisioni sulla scelta di un Centro di Salute Mentale dentro il carcere, il fatto che lei è fra le altre cose uno psichiatra?

Il Centro di salute mentale di Civitavecchia, anticipando di 6/7 anni il sistema attuale, era già stato pensato, si stava già arrivando a questo. Mi viene in mente Rebibbia con le sue quattro strutture quasi autonome e indipendenti l’una dall’altra e la cui gestione non sempre è scevra di difficoltà. Quindi bisogna fare ancora molto, però si è iniziato un percorso virtuoso che mi auguro possa portare a un concetto di salute mentale nuovo.

I fondi ci sono per questi progetti?

Noi abbiamo lavorato su fondi regionali del Lazio. I fondi servono nella misura in cui devi adottare il reclutamento del personale. Il sistema organizzativo prescinde dai fondi, l’organizzazione nasce dalle persone. Anche nei momenti di vacche grasse i sistemi non è che funzionavano meglio. Io sono dell’avviso che non è tanto una questione di fondi. A volte lo è, ma a volte è una questione di organizzazione di sistemi. La cosa difficile è mettere a lavorare personalità diverse e soprattutto abituate a lavorare in maniera diversa.

@vanessaseffer

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