Diagnosi coronavirus, Renelli (Cisl Medici Lazio): «Facciamo come in caso di dolore toracico, che è infarto fino a prova contraria»

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Il Segretario Cisl Medici dell’Azienda ASL Roma 2 denuncia confusione e pressappochismo nella gestione iniziale dell’emergenza: «Nessuno è sicuro di cosa bisogna fare»

 

Quella dell’emergenza coronavirus è una situazione che ha colto di sorpresa tutto il Paese. Eppure, in poco tempo, l’impegno incessante dei medici e del personale sanitario ha consentito di gestirla e contenerla al meglio. I primi giorni della corsa all’organizzazione per far fronte all’emergenza, tuttavia, sono stati caratterizzati da alcune note stonate. Come quelle che si sono registrate all’azienda ospedaliera Sant’Eugenio di Roma, come ci spiega il dottor Ermenegildo Renelli, Segretario Cisl Medici dell’Azienda ASL Roma 2.

Dottor Renelli, quali sono le criticità che ha riscontrato in merito ai percorsi dei pazienti negli ospedali?

«Al mio ospedale, il Sant’Eugenio di Roma, ho visto molto pressappochismo in tutte le fasi, dall’ingresso del paziente fino al suo isolamento. Ma sinceramente credo che questo sia dovuto al fatto che questa emergenza ci abbia trovati tutti un po’ impreparati, sia la Direzione che noi dirigenti medici, che magari affrontiamo il paziente che viene al triage in maniera molto superficiale, e questo è sbagliato. Dobbiamo fare come si fa di solito col dolore toracico, che è un infarto fino a prova contraria. Dobbiamo pensare che il paziente con tosse e febbre sia un caso positivo al coronavirus e smentire questa ipotesi solo dopo le analisi».

Questa confusione ha caratterizzato solo una fase iniziale?

«Sicuramente ha colto di sorpresa tutti e nessuno è sicuro di quello che va fatto. C’è chi dice una cosa e chi ne dice un’altra, chi dice che il virus è meno letale dell’influenza, chi dice che bisogna stare più attenti. C’è una confusione dovuta al fatto che siamo di fronte ad una malattia nuova e quando c’è una malattia nuova non si sa bene come ci si deve comportare».

Cambiando discorso, come fa a conciliare la sua attività chirurgica a quella di sindacalista in una realtà aziendale con tanti iscritti al suo sindacato?

«Diciamo che è difficile. Però come tutte le cose che si fanno con passione si riesce a ovviare in maniera tranquilla. Di lavoro ce n’è tanto, perché come ha detto lei gli iscritti sono molti. Quando si esce dalle guardie si dedica più tempo a tutti i problemi che ci sono fra i vari dirigenti di tutte le unità operative. Però una cosa che mi piace è che il lavoro paga sempre, non andiamo mai a cercare gli iscritti, i dirigenti vengono da noi perché sanno come lavoriamo. Insieme a me c’è anche il dottor Magliozzi che mi dà una grossa mano, e quindi fare il lavoro insieme, andare d’accordo da quasi vent’anni è la carta vincente del nostro sindacato».

Anche se non è il caso di generalizzare, che grado di conflittualità c’è tra i dirigenti medici e i direttori di struttura complessa?

«In linea di massima andiamo d’accordo con tutti i direttori di struttura complessa, ma andiamo d’accordo soprattutto quando loro si rivolgono ai loro dirigenti e afferenti alle loro UOC trattandoli come collaboratori. Quando poi fanno cose che non devono fare cominciano i problemi. Però in linea di massima non c’è nessun problema. Tanti direttori di UOC sono molto collaborativi, sono anche capaci di riconoscere quando sbagliano, perché può capitare a tutti di sbagliare, anche a loro. Con la Direzione generale ugualmente, non ci sono grossi problemi, anche se quando vedono le mie lettere, di solito, si mettono le mani nei capelli, tutto qui».

@vanessaseffer

Da sanità Informazione

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