RITORNARE ALLO STATUTO di Pasquale Hamel

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1. Le critiche e la ragione

Il 1 gennaio 1897, mentre imperversava una delle più gravi crisi del primo cinquantennio del Regno d’Italia, Sidney Sonnino – intellettuale e politico cui si deve, insieme a Leopoldo Franchetti, la prima grande inchiesta che mise a nudo i mali della Sicilia ed il ruolo devastante delle sue classi dirigenti – sulla prestigiosa rivista Nuova Antologia, scrisse un lungo articolo che sarebbe stato ricordato nella storia politica del nostro Paese, soprattutto, per il suo titolo provocatorio. “Torniamo allo Statuto”. Era quello, anche, un richiamo perentorio che l’autore rivolgeva ai politici del tempo, una proposta densa di rigore e di valori, con la quale si auspicava un ritorno alle regole in termini formali ma, anche, un ritorno alla prassi della buona politica contro una deriva schizofrenica, fatta di corruzione e abusi, che troppo spesso portava a confondere fini con strumenti.
Scriveva, infatti, fra l’altro, Sonnino: “ê ora il momento di raccogliersi e considerare con occhio sereno il cammino percorso in un mezzo secolo di storia parlamentare. […] Senza dubbio alcuno, il parlamentarismo, quale si esplica in Italia, è ammalato; e conviene studiarne le condizioni ed approntare i rimedi, se non vogliamo vedercelo intisichire nelle mani, minato dall’indifferenza o dal disprezzo della nazione. […]. Ogni giorno si fa più viva in tutti la coscienza della fondamentale verità, che la semplice riunione, il cumulo degli interessi particolari, sia pure rappresentati da tanti singoli aggruppamenti a base territoriale, non ci dà l’espressione sincera dell’interesse generale della nazione, né ci fornisce gli elementi sufficienti per tutelarlo e garantirlo. […]”
Pur tenendo conto dei contesti e delle proporzioni e, soprattutto, delle tematiche differenti, Sonnino si opponeva al proporzionalismo e temeva l’ingresso di socialisti e cattolici in Parlamento, stesso invito si potrebbe ripetere oggi, nel momento in cui il degrado generale e la crisi della rappresentanza, procura scoramento fra i cittadini e genera come conseguenza una profonda sfiducia nell’istituzione regionale siciliana. Un invito che lo si dovrebbe sostanziare, però, di contenuti concreti e razionali. Che, in ogni caso, dovrebbe rifuggire sia da certe tentazioni neosicilianiste, che vorrebbero scaricare la responsabilità della grave situazione attuale sulla mancata attuazione dello Statuto regionale siciliano, sia da quelle fondamentaliste che sono portate ad addebitare tutti i mali isolani alla stessa Autonomia speciale e che, in ragione di ciò, ne chiedono, a gran voce, e mi permetto di aggiungere, irresponsabilmente, l’abolizione. Diciamo subito che ci schieriamo su una linea mediana, proprio quella che definisco della “richiamata razionalità” che non accetta e che considera anzi sbagliato buttare l’acqua sporca con il bambino, cioè il volere cancellare, con un colpo di spugna, la stessa Autonomia. Ma che rifiuta, però, il mediocre sicilianismo di maniera agitato da chi non conosce o non vuole conoscere la storia, vera, di questa terra.
Dire, infatti, che sia stata la mancata attuazione dello Statuto ad avere impedito alla Sicilia di vincere la sua battaglia per lo sviluppo mi sembra un evidente falso storico, come falso storico sarebbe negare che la Sicilia abbia goduto di una condizione finanziaria privilegiata tale da metterla in una condizione di esclusivo favore rispetto alle altre aree del Paese. Essa ha infatti avuto, nel tempo, una disponibilità di risorse che, utilizzate bene, avrebbero potuto dar corpo a quelle positive potenzialità che lo Statuto stesso, con buona pace di tutti, garantisce.
Così, ci sembra anche giusto dire che é un altrettanto falso storico affermare che il problema siciliano, fatto soprattutto di ritardi e di occasioni mancate e perfino di imperdonabile spreco, sia, tout court, figlio di quello Statuto regionale del ’46 – che Giuseppe Giarrizzo definisce un modesto prodotto giuridico – che ha dato vita all’Autonomia regionale siciliana.
In quest’ultimo caso, mi pare che, con una certa superficialità, potrei dire con stile tutto italiano, si addebiti una patologia che appartiene al sistema politico ad uno strumento che, in se e per se, è perfino neutro, basta scorrere le norme per rendersene conto, e la cui qualificazione, in termini positivi o negativi, dipende da chi, in effetti, lo utilizza.
Voglio esemplificare per non cadere nel genericismo, come invece usano fare taluni detrattori dello stesso Statuto, fra i quali vi é anche qualcuno che – scusate la digressione polemica – al di là dei suoi meriti, ne é stato gratificato ed oggi sputa sul piatto nel quale ha mangiato. Voglio ricordare, a me stesso e a tutti noi, i cambiamenti epocali della struttura socio-economica della Sicilia che proprio l’Autonomia regionale, e quello Statuto, ha indotto. Mi riferisco, in primo luogo, alla riforma agraria degli anni cinquanta. Una riforma che ha avuto suoi limiti e che, anche se ha colpevolmente garantito alcune parti e alcuni interessi a scapito di altri ( in questo caso gli agrari, cioè i grandi proprietari ) e che, anche in ragione di ciò, purtroppo, non ha segnato un futuro per tale comparto è innegabile, tuttavia, che abbia determinato un radicale mutamento del volto della Sicilia.
Quella riforma, obiettivo centrato delle forze moderate e progressiste, è stata, come ha sostenuto Francesco Renda, forse involontariamente, il maggior contributo alla modernizzazione dell’isola dal 1812 ai nostri giorni.
La sua attuazione infatti si è manifestata come un’eccezionale strumento di mobilità sociale.
Grazie a quella riforma, epilogo del “lungo attacco al latifondo”, mutuo il titolo dal bel volume di Tino Vittorio, si è definitivamente chiuso il capitolo non certo esaltante della Sicilia del latifondo e dei conseguenti rapporti arcaici che lo sostenevano.
Per curiosità riferisco che il retorico ed enfatico Benito Mussolini, definiva il latifondo come “tempo di vergogna e inciviltà, da chiudere definitivamente per trasformare la Sicilia in una terra libera e pura per sempre”.
E, con un salto di oltre un decennio, voglio ricordare, ad explificandum, un altro episodio significativo di questa storia lunga e controversa di oltre sessantacinque anni.
Quanti oggi parlano di lotta alla mafia e praticano, purtroppo, troppo spesso un’antimafia parolaia, imputando, acriticamente, alla Autonomia la responsabilità di essere stata anche strumento che ha favorito i perversi rapporti con questo fenomeno sociale devastante, proprio costoro dimenticano che mentre qualcuno insisteva, anche in buona fede e per un malinteso sicilianismo, a negare l’esistenza della Mafia, fu proprio la mozione, approvata nel marzo del 1962 dall’Assemblea regionale siciliana, che consentì una svolta decisiva nella lotta al fenomeno criminale che, purtroppo per noi, ancor oggi, come si leggeva nel testo della stessa mozione ” esercita una deleteria influenza sulla vita economica e sociale dell’isola”.
Essa, infatti, sbloccò l’impasse nel quale si trovava allora il Parlamento nazionale sul tema dell’approvazione di quei provvedimenti antimafia che avrebbero previsto, fra l’altro, l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso.
Sappiamo bene, che proprio la Commissione antimafia ha posto in termini nuovi, il tema della lotta alla mafia determinandone l’auspicato salto di qualità.
Nessuno può infatti negare. che i provvedimenti più efficaci, e per tutti la legge Rognoni-La Torre, sono stati effetti delle iniziative e dei dibattiti della stessa Commissione.
E vado ancora avanti per ricordare, quella che vorrei definire la felice stagione della settima e ottava legislatura, per essere chiari, quella che vide protagonisti come Piersanti Mattarella, Angelo Bonfiglio o Pancrazio De Pasquale, e non solo.
Sfido, coloro che genericamente chiedono l’abolizione dello Statuto, a smentire che, in quegli anni, l’Autonomia sia stata realmente un’opportunità, che cioè abbia spiegato i suoi effetti positivi a favore della Sicilia. Ai superficiali detrattori, bisogna ricordare che quella lunga stagione produsse testi normativi innovativi, tali da farne, perfino,riferimento per la stessa legislazione nazionale. Una legislazione che metteva soprattutto ordine e che colpiva gli interessi poco limpidi che avevano consentito di far scempio del territorio. Non è casuale che il presidente Fasino, cui si intestò l’impegno della riforma urbanistica, fosse stato punito nella consultazione elettorale del 1981, e non fosse stato rieletto. Non bisogna dimenticare che proprio Piersanti Mattarella si propose, allora, come campione di un modo diverso del fare politica fondato proprio sul rigore etico. La sua “politica delle carte in regola”, la sfida alle inadempienze politico amministrative, la lotta al malaffare ed alla mafia, la presa di coscienza della necessità di una legittimazione morale per essere considerati credibili e potere battere i pugni sui tavoli decisionali fu un forte richiamo al cambiamento. E che quelle del giovane presidente della Regione non fossero solo belle parole senza esito pratico, lo sanzionò il tragico evento consumatosi quel mattino del 6 gennaio del 1980 nel quale, come scriveva San Paolo”, egli terminò la sua corsa” fermato, proprio, da chi giudicava pericolosa l’azione politica di rinnovamento della quale si era fatto esecutore.
E’ chiaro, dunque, che iI problema del degrado etico e sociale – che peraltro, anche se non é una scusante, investe tutto il Paese e coinvolge anche quelle Regioni che, fino a qualche anno fa, erano considerati esempi di efficienza e trasparenza – non è causato dallo Statuto in se ma da coloro che hanno utilizzato lo Statuto in modo distorto e per fini che non erano quelli del corretto governo del territorio nella direzione, del bene comune.
L’atto d’accusa non va, dunque, rivolto allo strumento Statuto ma alle classi politiche, ai partiti alla, poca accorta, selezione della rappresentanza che genera, come scriveva Macchiavelli, “cattiva politica”.
E, senza offesa per nessuno, quest’atto d’accusa va esteso perfino ad una società civile poco accorta e vigilante e, perfino in alcuni settori, magari compiacente.

2. Non una difesa acritica

E riprendiamo il nostro iniziale invito, al tornare allo Statuto.
Un invito che non significa altro se non un ritorno allo spirito che animò quella felice stagione che ha permesso di costruire l’architettura costituzionale dello Stato repubblicano – della quale lo Statuto regionale é anche parte – e che ha permesso la costruzione della democrazia nel nostro Paese, ma anche quelle strutture economico e sociali che, nonostante l’attuale crisi, ci danno ancora la possibilità di sperare per il futuro.
Il discorso investe dunque, come abbiamo detto, principalmente il modo in cui sono selezionati i ceti politici, la rappresentanza politica, un tema che ci fa comprendere come sia imprescindibile l’autoriforma della politica, quella autoriforma che tutti auspichiamo per superare la deriva qualunquista e demagogica che, come uno tsumami, rischia, oggi più di ieri, di travolgere tutto.
Ma tornare allo Statuto significa anche porre, a monte, il problema di quale idea di Regione desideriamo avere e in base ad essa lavorare per la riforma dello stesso Statuto. Sicuramente, a nostro avviso, appare prevalente la necessità del superamento di quei caratteri che hanno fatto dello Statuto uno strumento autoreferenziale piuttosto che strumento funzionale allo sviluppo. E’ chiaro, infatti, che l’impostazione riparazionista, idea forte di un padre dell’Autonomia quale fu Enrico La Loggia che ne ha ispirato la filosofia, non appare più sostenibile. Come non è più sostenibile l’idea di una Sicilia che si chiude in isolamento, orgogliosa della sua storia identitaria, alimentando quella pretesa che, “al di qua del Faro”, nell’isola, possa e debba esserci un’Italia diversa.
Un’ipotesi di questo genere non ce la consente il mondo globale nel quale siamo tutti immersi, non ce lo consente l’essere parte di una comunità, parlo dell’Unione europea, dove vengono assunte decisioni che non trovano neppure limiti nella sovranità statuale, immaginiamoci in quelli del sistema autonomistico.
Il superamento, dunque, di quella concezione, oggi più formale che effettuale, dichiarata dallo Statuto e sintetizzata nelle formule “Sicilia senza Italia” o “Sicilia senza mezzogiorno”, mi pare, che non possa né debba essere eluso.
Con lucidità anticipatrice, ad esempio, Mario Mineo, uno dei più intelligente fra i consultori, scriveva già nel ’45 :”Ho sempre tenuto presente che il problema siciliano non é che un aspetto particolare del problema meridionale…” e aggiungeremmo noi, “di quello italiano”. Purtroppo per un pezzo della storia autonomista questo limite non fu avvertito, almeno fino a quando un gruppo di lucidi politici siciliani, soprattutto, nei primi anni settanta ne fece momento della propria proposta politica.
Proprio allora era stata, infatti, completata l’architettura costituzionale dello Stato delle autonomie con il varo delle Regioni.
Quei politici, rompendo con il passato isolazionista, avevano appunto approfittato della felice occasione della realizzazione delle regioni a statuto ordinario per dare vita a delle assise di approfondimento, le cosiddette Conferenze delle regioni meridionali, uno strumento di confronto per avviare un tavolo di collaborazione che consentisse, alla fine, di presentare una proposta unitaria del Mezzogiorno e per il Mezzogiorno, di cui la Sicilia è parte, e parte importante.
E, proprio rinnegando la concezione isolazionista che aveva segnato la storia regionale, Piersanti Mattarella, alla IV Conferenza di Catanzaro, ribadiva che “il problema principe del Sud fosse quello di assumere una parte e pressante iniziativa unitaria “.
Consentitemi un ricordo personale. Proprio in quella esaltante assise del 1977 ebbi una piccola parte perché mi fu dato l’incarico di scrivere il documento della Regione siciliana. Ebbi allora l’occasione di conoscere e frequentare personaggi del calibro di Piersanti Mattarella, Pancrazio De Pasquale, Mario D’acquisto..e vi assicuro che ne ho tratto arricchimento.
Purtroppo quelle iniziative e quel fervore riformatore si arrestò ben presto e forse per la mancanza di alcuni di quegli uomini che l’avevano promosso.
Ma non ci si può fermare al passato, bisogna guardare al futuro, e cioè chiedersi quale idea per la Regione, che cosa deve essere, a nostro avviso l’Autonomia oggi.
La risposta che offriamo non é certo quella che, nei fatti, si è affermata soprattutto negli ultimi anni. Non si può più coltivare l’idea di una autonomia recipiente di provvidenze dove attingere disordinatamente. Quanto, piuttosto, di una Regione centro propulsore di politica economica coerente con le aspettative e le vocazioni dell’isola che ponga in chiaro la sua missione, cioè la crescita civile e sociale dell’isola.
Una Regione leggera, che traccia le linee generali sulle quali intervenire, riservandosi in quanto detentrice di una visione generale dei problemi dell’isola, la funzione di ente di programmazione, che rinuncia , cioè, alle incombenze attuative dei programmi sulle quali dovrebbe limitarsi ad esercitare un controllo di coerenza e di legittimità.
Una Regione la quale, piuttosto, che contrapporsi allo Stato – ricordo la stigmatizzazione di Pancrazio De Pasquale, sulla pretesa della Regione di essere essa stessa Stato – si trovi proprio a collaborare con lo Stato, e con la stessa Unione Europea cui lo Stato ha ceduto e continua a cedere parte della propria sovranità, una collaborazione necessaria a stabilire le compatibilità e la coerenza delle scelte di programma relativamente agli stessi interessi nazionali e a quelli regionali. Una Regione che faccia proprio il principio di sussidiarità, verticale, peraltro implicitamente richiamato dallo Statuto del ‘ 48, tale da creare un nuovo rapporto tra i diversi enti del territorio. Ma che adotti anche il principio della sussidarietà orizzontale, relativa ai rapporti fra la sfera pubblica e quella privata, il che significa che il potere pubblico non debba avere il monopolio degli interessi collettivi dovendo limitarsi ad intervenire solo quando i singoli e le formazioni sociali non riescano a soddisfare, da soli, efficacemente quegli interessi. Ed in questo senso una Regione che, dunque, rivisiti le prerogative derivanti dalla competenza “esclusiva”, peraltro in gran parte superata dalla prassi visto che in molti casi le normative statali vengono ad applicarsi in Sicilia in ragione di quel limite indicato alle competenze dell’art. 14 costituito dalle “riforme economico sociali”. Un trend che i provvedimenti di natura finanziaria, vedi ad esempio quelli della spending review, necessitati dalla crisi economica del Paese, hanno consolidato.
Una rinuncia alla Istituzione apparato, struttura autoreferenziale che, come affermava criticamente Sturzo, si rappresentava come “pantomima dell’amministrazione centrale”, a favore di una regione centro di elaborazione e dibattito politico che soddisfa la domanda di partecipazione e democrazia delle popolazioni isolane.
E’ questa, a mio modo di vedere, la sfida sulla quale le forze politiche, ma anche le classi dirigenti dell’isola, nel loro complesso, si debbono misurare per riconquistare, ed é questo il vero e urgente problema , quella fiducia dei cittadini amministrati destinatari delle scelte di governo. Una fiducia che, purtroppo, in questi anni, come ben sappiamo, si è praticamente azzerata.

 

Pasquale Hamel

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