Medici pubblici ufficiali, sì o no? Ne parla l’avvocato Frattini

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Medici pubblici ufficiali, sì o no? Ne parla l’avvocato FrattiniAbbiamo sentito parlare di pubblico ufficiale, ossia di incaricato di pubblico servizio o di esercente servizio di pubblica necessità, piuttosto frequentemente nell’ultimo anno, poiché si richiedeva di assumere questo ruolo per delle figure professionali continuamente vessate sul posto di lavoro, i nostri medici e il personale sanitario, che subiscono nel nostro Paese diverse aggressioni ogni giorno, impedendo loro un lavoro sereno specialmente nei Pronto soccorso. Sono state accertate numerose violenze fisiche e verbali anche negli ambulatori, nei reparti, sulle ambulanze, persino recentemente all’interno di una sala operatoria nel corso di un intervento.

Ne parliamo con l’avvocato Fabio Frattini del Foro di Tivoli e componente della Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane.

Avvocato Frattini, avrà sicuramente seguito l’importante campagna mediatica che la Cisl Medici Lazio ha determinato relativamente al fenomeno delle aggressioni ai medici ed al personale sanitario. Il sindacato aveva tra le altre cose avanzato la richiesta di una rivisitazione delle normativa vigente in materia. Ora qualche dubbio è sorto a seguito del mancato riconoscimento della funzione di pubblico ufficiale agli operatori sanitari. Proviamo a fare chiarezza con uno slalom nel codice penale che fornisce le definizioni di pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio e di esercente un servizio di pubblica necessità?

È il Codice penale, nell’articolo 357 che definisce il pubblico ufficiale colui che esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa e chiarisce che per pubblica funzione amministrativa si deve intendere quella disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Con l’articolo 358 il Codice penale stabilisce che sono incaricati di pubblico servizio coloro che, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio e che per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dall’assenza dei poteri tipici di quest’ultima e con l’esclusione delle semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera semplicemente materiale. Infine, l’articolo 359 del Codice penale individua le persone esercenti un servizio di pubblica necessità nei privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando il pubblico sia obbligato per legge a valersi della loro opera, ovvero i privati che pur non esercitando una pubblica funzione o né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità, mediante un atto della pubblica amministrazione.

La nozione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio è dunque rilevante ai fini dell’applicazione di diverse norme penale?

Nella parte generale del Codice penale si può far menzione dell’articolo 61, nn. 9 e 10. Si tratta di due circostanze aggravanti comuni: la prima comporta un aumento della pena per chi ha commesso un fatto di reato con l’abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio; la seconda prevede un aumento di pena per chi ha commesso un fatto contro un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Il Codice penale poi dedica il titolo II del libro secondo ai delitti contro la pubblica amministrazione. Nello specifico il titolo II si divide in due capi, il primo dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il secondo ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione. La nozione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, quindi, è adottata in vista di due finalità diverse: da una parte per stabilire a carico dei pubblici ufficiali una maggiore responsabilità nel caso di violazione dei loro doveri, dall’altra per assicurare loro una maggiore protezione a fronte delle offese dei terzi.

Ci può fare alcuni esempi concreti e precisare quando, secondo la giurisprudenza, i medici sono già considerati pubblici ufficiali?

Il direttore sanitario di un ospedale pubblico, al quale per l’organizzazione dell’istituto è riservata una serie di poteri di autorità e di direzione; I medici ospedalieri in quanto, indipendentemente dal ruolo ricoperto, cumulano mansioni di carattere diagnostico e terapeutico con l’esercizio di un’attività autoritaria che impegna l’ente; Il medico di famiglia che presta la sua opera a favore di un soggetto assistito dal Servizio sanitario nazionale il quale compie un’attività amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e concorre a formare e a manifestare la volontà della Pubblica amministrazione. in materia di assistenza sanitaria pubblica, esercitando in sua vece poteri autoritativi e certificativi (ricette, impegnative, certificati medici); Il responsabile di un laboratorio convenzionato con il Servizio sanitario nazionale; Il medico che presta la sua opera presso una casa di cura privata convenzionata con il Servizio sanitario nazionale.

Dunque si deve aver riguardo all’attività svolta in concreto?

Certamente. Si attribuisce la qualifica di pubblico ufficiale non già in relazione all’intera funzione devoluta all’operatore sanitario ma ai caratteri propri e ai singoli momenti in cui viene svolta.

Quando non ricoprono la qualifica di pubblico ufficiale come sono considerati, agli effetti della legge penale, i medici?

I medici che lavorano esclusivamente nel privato devono essere qualificati esercenti un servizio di pubblica necessità.

Pertanto, non basta la mancata approvazione dell’emendamento da parte della Commissione Affari Sociali della Camera per escludere la qualifica di pubblico ufficiale per un medico?

È proprio così dal momento che la giurisprudenza, nell’attuale contesto normativo, come le ho sopra indicato, ha già riconosciuto tale qualifica ai medici in alcuni casi.

Quali sono le principali novità, nell’ambito della tutela penale, introdotte dal disegno di legge in discussione alla Camera dei Deputati?

In primo luogo le modifiche all’articolo 583 quater, del Codice penale apportate dall’articolo 2 del testo licenziato dal Senato, e dall’altra l’introduzione, prevista dall’articolo 3, della circostanza aggravante comune di cui all’articolo 61 n. 11 octies del Codice penale estendono a tutti gli operatori sanitari la tutela già prevista per i pubblici ufficiali dal medesimo articolo 583 quater del Codice penale e dall’articolo 61 n. 10 del Codice penale. Inoltre, la ricorrenza della circostanza di cui all’articolo 61 n. 11 octies esclude la perseguibilità a querela delle percosse e delle lesioni lievi. Esclusione quest’ultima che mi lascia alquanto perplesso poiché non farà altro che rappresentare un ostacolo alla definizione dei procedimenti penali rendendo sempre più complicata una possibile definizione bonaria delle instaurande controversie.

Quali sono le conseguenze del mancato riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale?

È importante sottolineare che la mancata qualificazione di pubblici ufficiali esclude per gli operatori sanitari, in sé considerati, il rischio di dover rispondere di reati molto gravi quali quelli previsti dal Codice penale per i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio.

@vanessaseffer

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Covid-19, i nostri medici sono i più bravi al mondo

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Covid-19, i nostri medici sono i più bravi al mondoNiente è peggio della psicosi. Presi d’assalto i supermercati pure dove non è ancora arrivato il virus. Nel dubbio compriamo, mettiamo da parte scatolame, facendo salire i prezzi perché le scorte impongono un aumento dei rifornimenti negli scaffali dei negozi e quindi dei trasporti delle merci che viaggiano per il nostro Paese su gomma. I casi cominciano ad essere tanti, come previsto dai medici, e i decessi che contiamo si riferiscono a persone anziane e con polipatologie. Ricordiamo che registriamo delle guarigioni da Covid-19, come i primi due casi dei due turisti cinesi e del ricercatore ricoverati allo Spallanzani.

Cinque regioni italiane coinvolte per il momento, ma non si fa cenno a quanti ogni anno, muoiono di influenza nel nostro Paese: lo scorso anno ci sono stati 516 contagi dall’ottobre precedente, 376 persone sono state intubate e 95 sono decedute. Comunque da una manciata di ore succede di tutto: fino a pochi giorni fa andava tutto bene, ora il nord Italia è appestato, il sud ancora resiste. Ma c’è da pensare che presto anche lì arriveranno dei casi. Ecco perché sarebbe bene pensare ad una organizzazione condivisa sul da farsi e non lasciare che anarchicamente ciascuna Regione faccia come creda, adottando protocolli autonomi, ma avendo una visione unica in tutto il Paese.

Sarebbe bene ascoltare la voce autorevole dei medici, dei virologi, degli scienziati e basta. Lasciamo la parola a loro, agli esperti, e attendiamo con saggezza, senza allarmismi inutili, seguendo i consigli che danno: restare a casa ove è deciso che si debba fare così, lavarci costantemente le mani, di tossire e starnutire con delle regole precise, e attendere e vigilare sul nostro stato di salute con calma, senza dar luogo a sfoghi imbecilli contro persone di altre comunità ed etnie.

I medici, già, che lavorano da settimane, come sempre, ed ora più che mai, a dispetto di tagli, di orari impossibili, di gravissima carenza numerica nelle corsie come nei Pronto Soccorsi ed essendo i più esposti alla possibilità di essere contagiati, di ferirsi, di ammalarsi, perché sono persone non sono robot, non lo dimentichiamo. Noi spesso abbiamo la pretesa che da parte loro, che fanno tutto il possibile e del loro meglio, debbano fare pure i miracoli. I medici, gli infermieri, il personale sanitario ci sono h24 e a nostra disposizione a titolo gratuito. È così il nostro Servizio sanitario nazionale, che ci garantisce essendo “universale”, sistema unico al mondo, le cure primarie a noi e a chiunque arrivi nel nostro Paese, pur senza documenti. Sfidiamo chiunque a trovarne un altro così nel resto del mondo da paragonare al nostro, che “accolga” in modo paritario a tutte le ore, come quello italiano e a parità di professionalità.

Non finiremo mai di ringraziare quindi i nostri medici, uno ad uno, dai più anziani e titolati all’ultimo degli specializzandi, che si stanno adoperando in questa battaglia contro il Covid-19 che non sappiamo dove ci porterà, ma che certamente ci rappresenta come un Paese aperto, forte, all’avanguardia e soprattutto generoso ed accogliente, a dispetto di chi non apprezza, chi condanna. Chi aggredisce i sanitari, chi non è mai contento, chi punta sempre il dito, chi punta a demolire un sistema piuttosto che rafforzarlo, migliorarlo, renderlo più evoluto e all’avanguardia. Perché la materia prima, la parte nobile, i nostri medici, sono i numeri uno, su cui puntare per costruire la Sanità del futuro del Paese. Interessante come i nostri 40 connazionali siano stati rinviati al mittente dalle Mauritius, neppure fatti scendere dall’aereo e grazie al comandante accuditi come meglio si è potuto, quindi nemmeno guardati in faccia da chi avrebbe dovuto “accoglierli”. Per loro aeroporto chiuso e di corsa indietro, a casa, nonostante avessero condiviso lo stesso volo con altre 260 persone di altre nazionalità.

@vanessaseffer

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Un laboratorio per non confondere l’opinione con la scienza, parla Garofano

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Un laboratorio per non confondere l’opinione con la scienza, parla Garofano In pochi anni dalla sua fondazione il Centro regionale antidoping “Alessandro Bertinaria”, incastonato nelle mura dell’ospedale San Luigi di Orbassano a Torino, è diventato uno dei centri di eccellenza europei in fatto di analisi tossicologiche e biochimico-cliniche, superando la sua mission iniziale, andando ben oltre la sua natura di struttura “olimpica”, poiché nato in occasione delle XX Olimpiadi invernali e IX Giochi paralimpici invernali di Torino 2006, dimostrando subito capacità imprenditoriali tali da poter vivere anche oltre quell’evento. Fino a diventare un riferimento nazionale dove effettuare test ed analisi autoptiche per tribunali e procure, forze dell’ordine, Asl, enti pubblici, per le medicine legali, per reati di varia natura, connessi al traffico di droga o incidenti stradali. In pochi anni il centro si è accreditato come primo laboratorio di tossicologia del Paese. È il più grande centro in Europa per le analisi che si effettuano sul capello. Nel centro vengono gestiti circa 60 mila campioni di diverse matrici l’anno, per 300mila determinazioni. Ne parliamo con il direttore sanitario del centro, il professor Paolo Garofano, anche responsabile del Laboratorio di biologia e genetica forense del centro. Sua la progettazione e la messa in opera del prestigioso e innovativo laboratorio, fiore all’occhiello del centro.

Professore, può spiegare al grande pubblico cos’è la genetica forense?

Si tratta dello studio delle tracce trovate sulla scena del crimine e la loro caratterizzazione, perciò l’estrapolazione di un certo profilo genetico, questa l’attività principale. L’altra attività è quella banalissima della diagnosi di parentela che si fa civilisticamente per cercare di capire se c’è un legame di parentela tra due persone che magari non si conoscono oppure per accertarlo in caso di contenzioso. Poi ci sono delle nuove discipline accessorie che cominciamo ad utilizzare, come l’identikit genetico, cioè dalla traccia riuscire a capire quali sono i tratti somatici in un soggetto, gli occhi, i capelli, alcuni tratti del viso come gli zigomi, il mento, le labbra, questo però è un po’ più a livello sperimentale, fa parte sempre della genetica forense ma è ancora in fase sperimentale. Poi l’ultima attività che facciamo, sempre ancora a livello sperimentale, il cosiddetto Ancestry, l’ultima nata di genetica forense che si occupa delle relazioni di popolazione, da dove si viene dal punto di vista ancestrale.

Molti casi giudiziari sono balzati alla cronaca per l’efferatezza dei delitti. Poi è guerra tra i periti. Quale è oggi l’impatto della genetica forense sui grandi casi giudiziari?

È estremamente alto, a volte a mio avviso esagerato! Il cosiddetto “Csi effect” ha enfatizzato l’attenzione sulle scienze forensi in generale e “deformato” le aspettative. Molte volte la prova genetica è determinante soprattutto se contestualizzata correttamente e supportata da altri tipi di attività investigative (intercettazioni, telecamere, testimonianze), altre volte diviene oggetto di scontro tra consulenti o periti che diviene mediatico. L’accreditamento di laboratorio tende a rendere tutto più oggettivo e meno discutibile ed è questo il livello al quale tutti dovrebbero tendere per evitare di confondere l’opinione con la scienza.

Un cognome piuttosto famoso, il suo. Le pesa essere il nipote di Luciano, già comandante dei Ris di Parma, oggi star della comunicazione nei casi di cronaca nera oltre che consulente di parte in numerosi processi, o no?

In passato, forse. Perché questo non mi ha permesso nell’immediatezza di farmi valutare per quello che ho fatto, per il mio percorso professionale e per quello che sono. Nel senso che io ho avuto questo modello che è stato mio zio dal punto di vista dell’immaginario. Io poi ho fatto un altro percorso: mi sono laureato in medicina ed ho svolto tutta la mia attività fin da quando ero studente in un laboratorio, fino ad ora, lavorando prima con le mani e poi ricoprendo cariche dirigenziali anche diverse da quelle mediche, come evidenziato sul mio curriculum; sono stato un dirigente pubblico, ho spaziato nella genetica forense degli alimenti, perciò spesso mi presentano come il “nipote di”, ma adesso ho anche una mia connotazione e professionalità ben distinta dal mio legame di parentela.

Che cosa è una banca dati forense?

Ce ne sono di molte tipologie. Se parliamo di genetica è la banca dati nella quale sono inseriti i profili genetici delle persone indagate. È molto complicato, c’è una legge, la 85 del 2009 che disciplina la banca dati, che serve per immagazzinare dati che possono essere genetici, possono essere banca dati dattiloscopiche per le impronte digitali, ma esistono banche dati forensi di altro genere, faccio un esempio: in alcuni paesi ci sono quelle del cosiddetto profilo ambientale, di quegli isotopi chimici e radioattivi che sono nel terreno, che individuano il terreno; ci sono banche dati forensi dei semi agricoli; oppure dei semi degli animali da riproduzione; sono degli archivi il cui dato archiviato può essere di vario genere. Parlando di genetica forense umana, le due maggiori sono quelle relative alle impronte dattiloscopiche e i profili genetici.

Non credo che nel suo lavoro possa esserci qualcosa che la stupisca o la sconvolga. Tuttavia c’è stata un’esperienza professionale o un episodio che ha lasciato il segno?

Quando si entra in un caso si entra in modalità professionale, perciò obbligatoriamente lasci da parte l’emotività che poi magari torna quando si scrive la consulenza o quando si valutano i dati. Devo dire che c’è stato un episodio, l’uccisione di un neonato partorito in casa clandestinamente, che mi ha dato molto da pensare sulla natura umana, ma capitano casi di tutti i generi, da persone tagliate a pezzi e messi in una valigia lasciata in un bosco, piuttosto che arti rinvenuti nei posti più impensati o stanze familiari dove apparentemente senza motivi validi si è generata una ferocia che non puoi pensare che lì si poteva uccidere qualcuno. Ma se dovessi dire che devo pensare con paura o con emotività a qualcosa, l’unico episodio è quello del neonato.

Questo centro che lei dirige non è solo un riferimento per gli episodi che accadono in Italia, ma anche per i casi che accadono nel resto d’Europa. Come è il rapporto con i magistrati italiani e con le corti straniere, che differenza c’è e se è il caso, anche con la politica, con la polizia giudiziaria.

Non ci sono capitati casi di genetica forense extracomunitari, ma sulla tossicologia sì. Ci capita di fare analisi sul capello, anche per grandi Paesi come gli Stati Uniti. Il rapporto con i magistrati italiani è essenzialmente di fiducia, perciò se c’è un rapporto con noi significa che si fidano di noi e collaboriamo molto volentieri con quello che fanno. Con le Forze dell’ordine anche, ovviamente abbiamo dei competitors che sono i Ris e la Polizia scientifica, ma competitor per modo di dire, perché se ci sono una serie di reati considerati minori che non perseguono più, che poi sono la maggior parte, le aggressioni, i furti, cose che paradossalmente rappresentano se andiamo a vedere le statistiche quasi il 90 per cento dei reati e lo stato tende più a non perseguire. In questo senso abbiamo una grande collaborazione con le forze dell’ordine, perché chi investiga sulla strada chiede risposte per poter chiudere il cerchio. Magari fanno molte attività e poi si vedono negata la possibilità di fare le analisi e spesso spingono i magistrati a darle a noi o ci chiedono direttamente di farle per loro conto.

Ma questi dati, nella banca dati, restano per sempre oppure vengono distrutti dopo venti, trent’anni?

Ci sono numerose modalità sia d’immissione che di cancellazione. Noi come Stato italiano siamo forse il più complicato al mondo in questo. La lunga gestazione che c’è stata della legge ha portato poi a delle storture, perché quando si ha un dato genetico, soprattutto di qualcuno che delinque, sarebbe opportuno averlo per sempre. Come dico sempre, i nostri dati anagrafici, le foto e tantissimi altri dati sensibili, girano liberamente per la rete senza un reale filtro, mentre i dati genetici che potrebbero per assurdo risolverti un caso a distanza di anni magari vengono cancellati. Gliene racconto una che è il paradosso di tutto: pensi che una delle prime volte che ho trattato un cold case, si trattava di un serial killer che si chiamava Minghella, che ha ucciso nel nord Italia un numero molto considerevole di donne, generalmente prostitute, ad iniziare dalla fine degli anni Settanta fino alla fine degli anni Novanta. Lui ha avuto diverse condanne all’ergastolo. Il suo Dna, malgrado la banca dati fosse già attiva, non era inserito. Allora sono dovuto andare in carcere a prenderlo io, c’è stata anche una diatriba sul fatto che lui si potesse opporre o meno, ma insomma, nel sistema italiano il prelievo del Dna per coloro che vanno in carcere viene fatto all’uscita della misura di sicurezza e non all’entrata. Perciò, siamo nel paradosso, che gli ergastolani non vengono mai prelevati e molti casi che potrebbero essere risolti a tavolino così non lo sono.

Incredibile.

Abbastanza.

Perché oggi un giovane medico dovrebbe decidere di fare il medico forense? Qual è un motivo di attrattiva visto che probabilmente la passione quando ci si iscrive in Medicina penso subentri dopo.

Qui rientra in gioco mio zio. Io da adolescente volevo fare il pilota d’aereo e mi si prospettò invece la possibilità di entrare in Accademia di sanità militare. Fu il primo concorso che vinsi ed entrai. Essere medico militare comporta di divenire automaticamente medico legale e questo mi avrebbe aperto una serie di porte che a me non interessavano molto, in medicina se non avessi fatto il genetista avrei fatto il chirurgo perché mi piacciono le cose manuali o tecnologiche. Mi sono iscritto all’Università nel 1985 e nello stesso anno sono state scoperte le sequenze del Dna che poi avrebbero permesso di estrapolare il profilo genetico e poi un po’ per l’immagine di mio zio a quel tempo e un po’ per questo e per l’opportunità da studente che avevo di frequentare un laboratorio, ho lasciato l’Esercito al terzo anno prima di firmare per la carriera definitiva, ed ho scelto questa strada rimettendomi in gioco. Sapevo cosa avrei fatto, negli ospedali militari non c’erano molte prospettive, stavano chiudendo, non avrei potuto fare né il chirurgo né il genetista. Quindi è la vita che in qualche modo ti porta a fare una scelta.

Che cosa ha portato lei di nuovo e di diverso alla Genetica forense dato che la vita l’ha portata fino a lei? 

L’ho vista nascere dalle basi nel laboratorio dove io mi sono formato come esperienza di base, è cresciuta nella Polizia e Carabinieri in epoca pionieristica, poi si è un po’ fermata. Quando io sono giunto a poter incidere sull’ambiente mi sono domandato cosa mancasse e mancavano tante cose, oltre al funzionamento della Banca dati mancava la cosa principale che era riuscire a interpretare le tracce complesse. Sono la maggior parte delle tracce che si trovano sul luogo del reato e che consistono principalmente in commistioni di più soggetti, per esempio Dna di più persone, oppure Dna cosiddetto degradato o a bassa concentrazione dal quale è possibile estrapolare solo un profilo parziale. Per dare un’idea questo è circa il 70 per cento di tutto quello che esce fuori dalle tracce genetiche perciò un po’ di tempo fa rimaneva indeterminato, si facevano delle indagini e queste cose non venivano attribuite. Io, un po’ con le attribuzioni internazionali, un po’ con l’utilizzo di forze provenienti da altre discipline, dalla statistica, dall’ingegneria, anche dal settore che produce strumenti e reagenti, mi sono inventato un metodo che per primo mette insieme tutte queste cose e riesce a discriminare le tracce più complesse. Perciò oggi io dirigo il laboratorio che in Italia e nel mondo è tra i più titolati a fare questo tipo di attività.

Esiste oggi, con tutta questa tecnologia a disposizione sempre in evoluzione, il reato o delitto perfetto?

Il delitto perfetto non esiste in assoluto. Abbiamo comunque molta strada da fare, ci sono ancora tantissime cose che dobbiamo scoprire alle quali non possiamo dare una connotazione reale, una per tutte è ad esempio il datare una traccia. Perciò oggi tiriamo fuori profili genetici anche dalle tracce da contatto, cioè basta toccare un bicchiere, un foglio, qualsiasi oggetto, una maniglia e la traccia rimane lì per moltissimo tempo. Ma non posso sapere se è lì durante il delitto o cinque anni prima era lì. Questo fa una grandissima differenza. Perciò il delitto perfetto vacilla in questo senso perché qualche errore si può fare sempre, calcolando che la genetica è solo una parte del tutto dell’investigazione ed esistono ancora dei limiti che vanno colmati.

Ma con buona pace di chi compie un reato, chi lo commette prima o poi verrà preso o no?

Prima o poi sì, il tempo ci insegna che quello che sapevamo trent’anni fa oggi non è più sufficiente, basta prendere dei reperti di quell’epoca e tirar fuori quelle risposte che allora non eravamo in grado di dare ma oggi sì. Probabilmente tra dieci, vent’anni ne daremo di più di quelle che diamo oggi.

@vanessaseffer

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Rems e malattie mentali in aumento: parla lo psichiatra Gianluca Lisa

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Rems e malattie mentali in aumento: parla lo psichiatra Gianluca LisaLe Rems, ossia Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sono strutture residenziali con funzioni socio-riabilitative nelle quali alcuni autori di reato, nella fattispecie quelli affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, su disposizione della magistratura, vengono accolti, quando una misura detentiva vera e propria a causa del loro stato di salute mentale non si può applicare, al fine di poter essere curati. La gestione interna dei pazienti che non possono definirsi detenuti, è di competenza esclusivamente sanitaria, poiché afferenti al Dipartimento di Salute mentale. Queste strutture sostituiscono i precedenti Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che a loro volta sono subentrati alla chiusura dei ben noti manicomi chiusi con la legge Basaglia.

Ma siamo certi che nelle Rems ci sia tutto ciò che serve per affrontare ed assicurare le cure adeguate e fare fronte alla pericolosità sociale dell’infermo e seminfermo di mente? Di questo parliamo con uno psichiatra ligure, il dottor Gianluca Lisa, componente dell’Esecutivo nazionale della Cisl medici. Fino al maggio di quest’anno 2019 in Italia ci sono 30 Rems. In Liguria ce n’è solo una a Genova con 20 posti. Nel Lazio ce ne sono 5 con 111 posti in totale. Una di queste si trova al sesto piano di un palazzo. Le liste d’attesa sono lunghissime in tutte le regioni, e molti pazienti che avrebbero diritto ad essere ospitati in Rems non possono accedervi. Nel frattempo chi commette un reato e non può essere condotto in prigione perché non un luogo adatto in quanto si è agito per ragioni dovute alla malattia mentale, non può usufruirne e quindi è alto anche il rischio suicidio.

La Rems ha ragion di esistere così come è concepita o ci vorrebbe un miglioramento del sistema?

Secondo me è un problema atavico del nostro Paese ed una gestione un poco superficiale come è spesso stato dei problemi seri. La 180 è sicuramente stata una legge importante, il problema delle Rems l’ho gestito in passato sindacalmente nella regione dove lavoro e in Piemonte con cui abbiamo molti contatti. Innanzitutto il problema nasce dalla 180, perché i manicomi ad un certo punto erano diventati dei lager, quindi menomale che è arrivata questa legge, che avrebbe dovuto garantire un’assistenza territoriale ai pazienti psichiatrici, ma questo è avvenuto solo parzialmente e buona parte della problematica è ricaduta sulle famiglie. Gli Ospedali psichiatrici giudiziali andavano a mio modesto avviso umanizzati, ristrutturati e riadeguati, perché le Rems oltretutto non sono dei luoghi di cura ma sono posti di degenza. Partiamo dal presupposto che nel momento in cui per il paziente psichiatrico viene disposto un inserimento presso una Rems, non appena questo si scompensa, nella Rems non fanno delle terapie specifiche ma lo mandano nel reparto psichiatrico. Quindi si crea un paradosso per cui molte volte il ricovero del paziente viene indicato presso una Rems che non è dotata di quegli strumenti per trattare, perché parliamo di “pazienti psichiatrici”, se escono da un Opg non si tratta di pazienti che non sono solo psichiatrici ma hanno anche un discreto grado di pericolosità o potrebbero averlo. Il paziente psichiatrico è di per sé imprevedibile, molte disgrazie accadono anche perché può avere una crisi improvvisa. Quindi nel momento in cui si crea un’alternativa all’Opg, deve essere un luogo dove una persona staziona ma dove venga anche curata. Ho sentito molti colleghi lamentarsi di alcune disposizioni della magistratura che facevano sì che il paziente dato che non c’era posto nella Rems veniva messo in Servizio psichiatrico diagnosi e cura (Spdc), quindi c’è il problema del “chi lo piantona?”, spesso la polizia penitenziaria non ha personale, allora si cercano degli escamotage per cui ne fanno le spese sempre i medici.

Quando un paziente psichiatrico ha commesso un reato grave e viene condotto in carcere è comunque pericoloso per gli altri carcerati e per chi lo piantona?

Bisogna vedere caso per caso, si parte dal presupposto che l’atto delittuoso possa essere stato commesso da un paziente psichiatrico o no? Il paziente psichiatrico è potenzialmente più pericoloso rispetto al delinquente comune per la legge, bisogna vedere se era in cura già prima o dopo il fatto, ma lì la Magistratura interviene secondo precise norme a seconda della gravità dell’avvenimento. Se questo paziente era in carico ad uno specialista, la Magistratura cerca di individuare anche dove vi siano state delle responsabilità nel prescrivere il percorso di cura. Diverso è il caso di un paziente che commette un atto delittuoso e poi ad un certo punto, come spesso accade per qualsiasi delitto si invoca o si chiedono i Ctu, cioè le consulenze tecniche, per capire se ci sono patologie psichiatriche, le parti difensive intervengono. Delle due l’una: o tutte le carceri sono dei reparti psichiatrici o troviamo delle soluzioni per definire un po’ meglio questi percorsi, anche sotto il profilo legale.

Lei dice, posso capire perché è problematico il mondo delle Rems. Qual è il problema? Cosa manca, c’è una carenza di psichiatri, perché non si può curare bene dentro le Rems, c’è un vuoto legislativo?

C’è innanzitutto una carenza numerica degli psichiatri anche sui territori e negli Spdc, nei reparti psichiatrici, perché come auspicava la legge 180 se fosse stata effettivamente garantita a tutti coloro che uscivano dai manicomi l’assistenza territoriale, con personale adeguato, quindi con gli psichiatri, molti problemi sarebbero stati risolti. Il problema è che adesso il servizio di salute mentale in diverse Regioni è, non dico sicuramente al collasso, ma certamente in una fase problematica per la scarsità di personale, ma ciò non riguarda solo il personale medico, parlo anche di infermieri, educatori, psicologi e dunque praticamente quando i servizi non riescono a lavorare perché manca il personale, tutte le cose a cascata si complicano. La Rems poi, per come è strutturata, è un posto dove il paziente prima o poi si scompensa e viene inviato in un reparto psichiatrico, quindi si va a gravare con un problema giudiziario i reparti psichiatrici degli ospedali che sono già al collasso. In ogni provincia dovrebbero esserci 16 posti in un reparto psichiatrico, poi in ogni realtà questi posti sono derogati, chi arriva a 20, chi arriva a chiederne 24, perché in effetti la patologia psichiatrica sta aumentando in maniera esponenziale forse perché questa società è per certi versi troppo permissiva e senza regole ed infatti nei reparti psichiatrici arrivano sempre più i giovani. I giovani hanno in più le conseguenze delle assunzioni degli stupefacenti, di droghe sempre più complesse. La Rems va a creare un problema in più fra gli Spdc che hanno già pochi posti in urgenza, perché non dimentichiamoci che l’Spdc è un reparto di urgenza, che prevede una durata di ricovero anche breve con un turnover elevato, e in questa particolare circostanza vanno a bloccare un posto con un ricovero che a mio parere è improprio, perché dovrebbe essere la Rems a gestire il paziente al suo interno e non all’insorgere di un problema mandarlo in Spdc, perché i posti sono pochi. Quindi si somma problema su problema, i posti sono pochi, le Rems non hanno i numeri di posti adeguati al problema e diventa un sistema che va inevitabilmente verso l’implosione.

Essendoci tutte queste problematiche nuove, legate anche al decadimento dei valori e quindi si abbassa anche l’età, perché c’è una nuova falla che coinvolge la famiglia che non può reggere questa situazione di figli con queste problematiche, genitori single e non con figli aggressivi, che si drogano, che fanno uso di droghe nuove, che hanno comportamenti molto aggressivi, probabilmente bisognerà inventarsi altri luoghi che non siano queste Rems, perché non sembrano il posto adatto a questo tipo di situazione che si stanno venendo a creare. Poi anche fra i giovani sembra esserci una violenza dilagante e molto preoccupante.

Lei sta sottolineando un problema importante, non dimentichiamoci che c’è un confine: la minore e la maggiore età. Intanto c’è la competenza del Tribunale dei minori per i giovani di minore età e poi è vero che stanno aumentando i ricoveri anche dei minori nei reparti psichiatrici. Ho sentito dei colleghi in Liguria con cui parlavamo di casi di ragazzini di 11-13 anni già ricoverati. Ho fatto dei ragionamenti anche da sindacalista e non da uomo della strada. È normale che in un paese civile serie tivù come Gomorra o Romanzo Criminale vengano trasmesse dalle televisioni quasi in senso apologetico? Dove nella mente dei ragazzi lavorano chissà in che modo? Una volta c’era la famiglia che dava delle regole, c’erano tutti in casa, compreso i nonni, mentre al giorno d’oggi i ragazzi vengono parcheggiati davanti alla televisione o al telefonino, spesso minori, e spesso vedono spettacoli raccapriccianti, perché c’è un grande business dietro. Se fossi nei panni del presidente del Consiglio farei cessare subito questo tipo di programmazioni perché sono profondamente diseducative, trasmettono una serie di valori totalmente antitetici a quelli che erano delle passate generazioni. Per certi versi ci stupiamo di quello che accade fra i giovani, dell’uso di droghe smodato, o di alcol. Ma c’è un po’ di ipocrisia, perché la società oggi non sta facendo nulla per andare incontro ai ragazzi, non ci sono regole, ci sono le discoteche già aperte alle 16, una società che se non si dà una regolata sul controllo del sociale anche abbastanza rigido non capisce che a farne le spese sono proprio i ragazzi. I giovani non vanno in una Rems perché c’è il carcere minorile, ci auguriamo che fino ad oggi vengano destinate ai maggiorenni, però ci sono dei ragazzi di sedici anni che creano dei problemi di ordine pubblico e di gestione psichiatrica non indifferente e che non sono il bambino che noi potevamo conoscere nelle nostra generazioni precedenti, ma sono degli energumeni alti due metri che creano non pochi problemi nei reparti dove vengono ricoverati e oltretutto si tratta di patologie dovute all’uso di droghe che vengono sintetizzate in laboratorio sulle quali noi non abbiamo ancora che una scarsa conoscenza e non sappiamo con precisione cosa può derivare dalla interazione con farmaci che abitualmente vengono somministrati per smorzarne gli effetti.

Nelle Rems, qualora ci fossero tutte le figure necessarie, medici, psichiatri, infermieri, psicologi, educatori, ci sarebbe la possibilità di curare o no? Oppure è un luogo dove si staziona e basta? Vorrei precisarlo una volta per tutte.

La Rems ad oggi non è un luogo di cura, auspico che lo possano diventare effettivamente, non si può andare in carcere e non si può andare più in Ospedale psichiatrico giudiziario. È una via di mezzo. Il paziente psichiatrico non è consapevole dei suoi agiti ma questa inconsapevolezza fa sì che mentre la persona che non ha problemi psichiatrici e commette un reato può pentirsi, il paziente psichiatrico è un caso diverso, lui può commettere certe azioni sotto l’influsso di un peggioramento delle sue condizioni che sono imprevedibili e dipendono anche dalle terapie che assumono. Quindi un luogo dove vengano controllati ci vuole. Non è un problema di Rems, ci vorrebbe un potenziamento dell’assistenza psichiatrica nel suo complesso, a partire dai servizi territoriali. Se questi potessero funzionare meglio avremmo sicuramente meno ricoveri in Spdc, se i servizi psichiatrici fossero potenziati anche relativamente al Servizio tossicodipendenze (Sert). Però anche la società deve fare la sua parte, dando delle regole ai giovani che in questo momento non ne hanno, tutta questa situazione sarebbe più contenuta, perché sta portando ad un aumento esponenziale della patologia psichiatrica. Una volta ad un Congresso rispetto a questo problema usai una metafora citando la Battaglia di Capo Matapan dove in pochi minuti furono affondati tre incrociatori italiani, lo Zara, il Pola e il Fiume. Quella notte gli italiani si dimenticarono degli inglesi, che tra l’altro avevano il radar, ma gli inglesi non si dimenticarono degli italiani. Allo stesso modo, la nostra società, le nostre istituzioni si sono dimenticate della psichiatria, ma la psichiatria non si sta dimenticando della società che sta regredendo, con l’aumento di tutte queste patologie documentate. La risposta va data soprattutto sul territorio, sono convinto che la 180 sia stata una conquista con un impianto per certi versi positivo, che non ha avuto quelle risorse promesse e le famiglie il più delle volte si son trovate a gestire loro il paziente psichiatrico anche scompensato.

Alcuni pazienti di alcune Rems hanno anche il permesso per uscire dalle strutture per qualche ora.

I permessi, le concessioni, sono cose importanti che vanno date cum grano salis, valutando attentamente, perché quando dai una possibilità ad una persona con malattie mentali devi essere profondamente sicuro del processo riabilitativo terapeutico e non si manda fuori a casaccio solo per dire di aver fatto una bella azione. Deve esserci un disegno clinico e riabilitativo dietro.

Alcune persone con disturbi mentali vengono inserite in contesti abitativi ad hoc, sorgono appartamenti dove possono vivere insieme, sono realtà per un certo tipo di pazienti psichiatrici, che non hanno commesso reati, quindi non da Rems, che non sanno dove vivere e questa soluzione sembra essere un’alternativa possibile. Che ne pensa?

Potrebbe essere una esperienza positiva, ma il problema sono le risorse che ci mettiamo per gestire questi pazienti. Piuttosto che rinchiusi in un istituto, se possono conquistare un po’ di autonomia è una cosa importante, ma sono necessari quei servizi del territorio che potenziati, facciano un lavoro di gestione dei processi di contenimento. Non si può mandare una lettera al paziente psichiatrico per dirgli di andare a stare in quella casa o andare a fare le terapie in quel posto, sono i terapeuti che devono andare a trovarli periodicamente a seconda dei casi e della patologia. Ci sono poi alcune patologie pericolose, ci sono stati dei colleghi psichiatri che hanno perso la vita a causa di alcuni pazienti aggressivi, perché spesso alcuni soggetti sono rischiosi e impegnativi per tutti quelli che hanno a che fare con lui a partire dai medici e i familiari. Per questo dico che se la società si rendesse conto che la patologia psichiatrica sta aumentando esponenzialmente, magari si avrebbe la consapevolezza di doversi adoperare aumentando i servizi.

Uno psichiatra ha bisogno di scaricare la sua “spazzatura” scaricando periodicamente in qualche modo tutto ciò che gli altri raccontano e che lui accumula?

Io ritengo che la psichiatria rappresenti l’aristocrazia dell’arte medica. Molte volte sono stato chiamato anche per consulenze insieme a patologie neurologiche o internistiche, lo psichiatra serve anche in casi come quelli, adesso vado meno per la mia età, un medico ama tutti i suoi pazienti, forse lo psichiatra li ama un po’ di più. Poi ogni psichiatra secondo me dovrebbe fare un percorso analitico, ma non perché ne abbia bisogno, ma perché quando si parla con un paziente e vengono fuori i vissuti della persona, la famiglia, gli affetti, lo psichiatra deve essere attento a non trasferire su di sé le tematiche affrontate. Comunque abitualmente si fa, è utile ma non è obbligatorio.

Dovrebbero fare o no un percorso psicanalitico anche gli insegnanti, i magistrati, i preti e tutti coloro che per mestiere hanno e che avranno a che fare con la vita e il futuro delle persone?

Diciamo che viviamo in una società troppo veloce, che chiede molto, a tutti noi. Faccio una considerazione che va fuori tema, ma che dimostra cosa succede quando viviamo senza fermarci. Provo profondo dolore per quei genitori che hanno abbandonato in macchina i figli convinti di averli portati all’asilo e che poi sono deceduti per il caldo ad esempio. Pensiamo ad una persona in questa società che rischia il posto di lavoro, le rate del mutuo e che ha un blocco per cui dimentica. Che tragedia può essere. Tutti, nessuno escluso, avrebbero bisogno di un momento per fermarsi, per come si corre oggi e per le responsabilità che ha, non abbiamo cinque minuti di tempo da dedicarci? O per avere la consapevolezza di averne bisogno? Tante persone potrebbero giovarsene ma non averne la consapevolezza dell’utilità. Alcuni negano l’utilità di questo tipo di supporto che è un prendersi cura di sé. Molto importante è la funzione della scuola. Ricordo di essere stato chiamato con una quindicina di colleghi in una scuola per il caso di un bambino perché rompeva delle cose. Io feci presente che fra operatori pubblici, assistenti sociali eravamo quindici persone pagate dallo Stato. Se quando ero piccolo io o uno dei miei compagni ci fossimo azzardati non dico a spaccare qualcosa ma a fare uno scarabocchio sul muro della scuola, sarebbe arrivato il maestro, mi avrebbe portato a calci sul sedere dal preside, il preside mi avrebbe preso per un orecchio e avrebbe chiamato mio padre che sarebbe venuto, mi avrebbe portato a casa e mi avrebbe messo in punizione. I nostri maestri fino agli anni Sessanta gestivano delle classi con ragazzi molto problematici, compreso i disabili che ci sono sempre stati. Ma nella nostra società è cambiato qualcosa in peggio in questi anni? C’è stata una richiesta di libertà soggettiva sociale che ha portato ad una assenza totale di regole specie per le giovani generazioni e questo è un problema.

@vanessaseffer

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Togliamo la polvere da sotto il tappeto

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Quando otteniamo un risultato lavorativo tanto sperato, quando abbiamo avuto l’oggetto del nostro desiderio, quando abbiamo conquistato la persona amata, perchè ci soffermiamo sui difetti e non riusciamo a goderci la nuova realtà? Perchè ci poniamo subito altri obiettivi e già vogliamo altro? Ci mascheriamo per far sì che gli altri ci vedano perfetti, simpatici, determinati, sicuri. Siamo pazienti, tolleranti, sappiamo ascoltare, siamo brillanti, finchè non abbiamo il nostro tornaconto. Non appena trascorse le prime ore, il beneficio ottenuto ci appare già scontato, con le certezze che esso ci da. Non sappiamo godere di ciò che abbiamo, pensiamo che accontentarsi sia una brutta parola, che limita il raggio di azione, che non ci permetta di realizzare un nuovo sogno, quindi roviniamo tutto. Impariamo a fermarci sul sogno realizzato, viviamolo come la conquista della nostra vita e proteggiamolo da tutto, anche da noi stessi.

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